Un bene dell’anima

Ho conosciuto Antonello a Lettere, il primo giorno. Eravamo in pochi, noi due stavamo a qualche posto di distanza e durante una pausa abbiamo cominciato a chiacchierare. Ci siamo incontrati alla lezione successiva, poi a quella dopo. In aula, al quarto appuntamento, si è aggiunto Gianluca. “È simpatico, è milanese”, Antonello me l’ha presentato così. Gianluca invece era di Pesaro, sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, oltre che coinquilino dei sette anni che seguirono. È stato lui a rivelarci, sbalordito e divertito, che il corso che stavamo seguendo ormai da due settimane non era quello che pensavamo. Avevamo confuso le aule e i docenti, senza renderci nemmeno conto che gli argomenti trattati erano lontanissimi da quelli che avremmo dovuto aspettarci. Continuammo comunque a frequentare, entrambi. Più per comodità che per reale convinzione.

Antonello era di Roma, abitava a San Giovanni, con i suoi. Veniva da noi ogni volta che poteva, a pranzo o a cena, a bere il caffè della nostra moka, a fare niente. Frequentava casa nostra come fosse sua; credo lo fosse. Non sono mai entrato completamente nel suo mondo, come esistesse una diga tra la nostra acqua e quella che scorreva nel tempo lontano da noi, ma questo non ha mai impedito alle nostre anime di abitare le stesse stanze. Lui invece conosceva perfettamente il nostro mare, al punto da sentirsi un fuorisede, come noi. 
Dopo la laurea, ci ritrovammo quasi inconsapevoli a fantasticare il Sudamerica. Non dimenticherò mai il giorno in cui andammo in motorino alla biglietteria delle Aerolineas Argentinas, in via Cavour. Negli astucci celesti un biglietto per Buenos Aires e uno di ritorno da Lima, piantato a quasi due mesi di distanza

Ti accompagno a scuola, piove e c’è traffico. La macchina copre l’asfalto a singhiozzi. Sonnecchi, accendo la radio. La voce di Lorenzo ti sorprende, ti cattura, ormai lo riconosci, anche nelle canzoni che non hai mai ascoltato. 
Che cos’è un amico, nessuno lo sa dire.  
Mi sorprendo anch’io, impantanato come sono a pensare queste cose.

Non vedevo Antonello da qualche anno quando quest’estate l’ho incontrato a Barcellona. Una telefonata, un appuntamento, un treno, un abbraccio lungo abbastanza da colmare gli anni trascorsi. E poi una giornata al sapore inconfondibile di ricordi e affetto. 
Lui vive lì, insieme a una ragazza col sorriso negli occhi. Sono belli insieme. Sono belli anche quando non sono insieme, accesi da una bellezza comune, che traspare in ogni cosa che pensano o fanno. Ho visto la loro casa, abbiamo mangiato insieme, ci siamo commossi rincorrendo i fotogrammi del viaggio tenuti in serbo per momenti come questo, svegliando la memoria e resuscitando i ragazzi che eravamo. 
Il giorno dopo io avrei cominciato il mio cammino verso Santiago. Prima che salissi di nuovo sul treno ci siamo abbracciati. Forte. Più forte. Mi ha detto  “buona fortuna”, solo questo. Valeva però come “buon viaggio”, come un “ci sentiamo”, oppure, senza sentirci, “ci incontriamo nei pensieri belli”. Valeva come “ti voglio bene”. Davvero. Credo si possa applicare al  bene, a volte, la stessa logica che si applica al dolore; lieve è quello che ha voce, grave quello muto.
Mi sono sentito al suo fianco proprio ieri, mentre leggevo una sua mail: nel suo racconto ho visto chiaramente la sua espressione, sempre uguale, solo un’insignificante manciata di anni in più e la preoccupazione di non sapere se ha fatto abbastanza a piegare un po’ la pelle intorno agli occhi e sulla fronte. Mi sono chiesto se gli ho mai raccontato davvero chi sono, come sto, cosa faccio. Gli ho parlato abbastanza di te?

Tu mi guardi, annuisci come se stessi leggendomi la mente e la memoria, io ti amo e spero che la mia espressione sappia comunicartelo. Sono così, ho l’ansia di saperti piena del mio bene, di  vederti sorridere davanti alle cose buffe che metto in scena per te, come quando eravamo a Parigi e in metro ho cominciato a urlare “sono stanco, non ce la faccio più, ti prego portami in braccio”, prima che tu potessi iniziare la tua lagna ormai nota. Ridevi, riconoscendoti nella mia esibizione, ridevi e ridevi, a me veniva da piangere. L’ansia di farti vedere un film della mia infanzia, e scoprirti a distanza di settimane fare ancora la mossa della gru di Karate Kid, o ripetere fino allo sfinimento una battuta che ci aveva fatto tanto ridere. 
Ho l’ansia di sorprenderti, sbalordirti al telefono quando ti chiamo e a volte, prima di dirti “ciao”, ti ripeto a memoria una frase della lettura che ti ha assegnato la maestra, sulla quale ti stai esercitando proprio in quel momento. No piccola, non ho poteri magici. Devo confessarti che c’è un gruppo whatsapp di scuola, nel quale ogni tanto una mamma chiede ai genitori di pubblicare la foto della lettura del giorno perché magari il figlio era distratto, o malato.

Sai, tesoro, adesso, in questa macchina, sul finire di questa canzone, mi sale una nuova ossessione. Voglio che la vita ti riservi amici come i miei. 
Come Antonello che vive a Barcellona, ma è come se abitasse ancora alla Caffarella. 
Come Gianluca, che si è appena trasferito a Mosca e mi manda foto della tomba di Gagarin, dimostrandomi di essere lontanissimo, eppure nello stesso luogo in cui sono io quando una notifica mi avvisa del fatto che mi sta pensando, che mi conosce come pochi, che non smette di  percorrere la nostra strada comune. 
Come Liberato che è a Londra da una vita, e ogni santa volta mi chiama dicendo “come stai?” al posto di “pronto”. Lui che una volta ha preso un aereo per capire cosa mi succedeva, e ha cenato da solo nella mia cucina perché io non avevo la forza di affrontare quella giornata, e mai, mai me l’ha ricordato. Lui che per i miei trent’anni mi ha regalato la colonna sonora della nostra storia, tutte le note, non una in meno, del nostro conoscerci. E adesso, a distanza di dieci anni, quel disco è incorniciato e poggiato sulla scrivania, pronto a uscire da questa casa e seguirmi ovunque andrò. Liberato quest’anno compirà quarant’anni, e io in fila a seguirlo, anche se non so se sono pronto e mi sento ancora il ragazzino al binario che lo portava in aeroporto e lo salutava col pugno alzato cantando in mezzo alla gente “fratello non temere che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria”, come c’entrasse davvero qualcosa. Chissà se lui se lo ricorda. Se sa che in ogni istante dei quasi 33 anni che ci conosciamo e di tutti quelli che verranno per me ne ha sempre avuti cento e ne avrà sempre solo sette.
Vorrei prometterti amici come quelli che ho io, irrinunciabili. Vederli crescere al tuo fianco, schierati dalla tua parte. Amici che ti stiano vicino, dentro. 
Amici capaci di essere te, ogni volta che tu non sai più chi sei. 

Arriviamo, scendo per primo e vengo ad aprire il tuo sportello. Le tue compagne riconoscono la mia macchina, ti salutano come se non ti vedessero da mesi, ti aspettano. Penso non sia necessario desiderare o prometterti niente. Hai già la tua vita, il tuo modo speciale di essere te stessa, riempi stanze di cuori e amore. Qualche giorno fa eri al parco, una tua amica stava piangendo, le sei andata vicino e le hai detto “adesso pensiamo intensamente a qualcosa di bello”. Eccolo il segreto dell’amicizia. L’hai scoperto. Dovremmo scrivere a Lorenzo questa sera, per farglielo sapere. 

Scendi dalla macchina, ci salutiamo. Ogni volta che ti lascio davanti scuola, tu mi baci distratta. Mentre stai entrando io ti chiamo e ti chiedo di darmi un bacio più forte, poi un altro e un altro ancora, fino a quando mi dici “papi devo andare”. La mia espressione supplichevole ti spinge di nuovo verso di me, un ultimo velocissimo bacio che si perde nel sorriso che ti stampi sulla bocca e ti porti in classe. Hai mai saputo che, dopo che sei entrata, rimango un sacco di tempo davanti scuola a guardare le mattonelle dell’atrio che hanno visto i tuoi passi un attimo prima? 

Come mai un casino sembra un posto perfetto.
Quanto abbiamo riso, e quanto rideremo.

Facciamo finta

Facciamo finta di avere una villa col giardino, le querce con l’altalena, il prato inglese sempre perfetto e la casetta sull’albero. Non una casa sull’albero qualunque. Ma di quelle bellissime di legno, col tetto, una scala a chiocciola per raggiungerla, magari anche due ambienti. La casa delle Chipettes. In questo giardino facciamo ci sono anche due amache, un barbecue, una sedia a dondolo sulla quale io fumo la pipa nelle sere di primavera. Naturalmente la pipa non fa male, il fumo non puzza e facciamo pure che nel frattempo sono diventato bravo a riempirne il camino e riesco a non farla spegnere ogni tre minuti. Facciamo che non ci sono più compiti da fare e che io non ti dico più “che palle anche questo weekend hai compiti da fare… possiamo non farli?” e tu non sei costretta a rispondermi “sì, papi. Dobbiamo.” Facciamo che è primavera tutto l’anno, non fa né caldo né freddo, si sta bene ma ogni tanto, quando ci va, fa freddissimo fuori, piove, il rumore della pioggia risuona dentro la stanza e che, a prescindere dal piano in cui siamo, sentiamo il ticchettio del temporale sul tetto sopra la nostra testa, come se fossimo in una mansarda. Le stanze sono piene di petricore fortissimo, come fossimo in un bosco, e improvvisamente ci ficchiamo sotto il piumone invernale per provare quella meravigliosa sensazione di abbraccio delle coperte. Sui nostri comodini appaiono gli hamburger (va bene, per te un hot-dog) e le patatine e la panna cotta al caramello e sulla parete viene proiettato un film ma non abbiamo passato quaranta minuti a sceglierlo, no. Il proiettore si è acceso e ha scelto esattamente il film che volevamo vedere, quello che io per me e tu per te avevamo in cuore di voler vedere.
Facciamo che abbiamo un garage. Io premo il tasto per aprire la saracinesca e dentro c’è una moto. È una Bonneville. È verde petrolio, ha le marmitte cromate ed è lucidissima. E anche se non potrebbe mai essere così, facciamo che abbiamo anche un sidecar che possiamo attaccare e staccare dalla mia Bonneville tutte le volte che vogliamo. Ora lo agganciamo. Ci mettiamo entrambi il casco e gli occhialoni da pilota d’aereo che ci fanno le facce buffe, come giapponesi della seconda guerra mondiale. Come Tozzifan direi io sorridendo ma tu per sorridere dovrai aspettare ancora un po’. Sulla nostra moto col sidecar raggiungiamo una collina. È verde, verdissima. È piena primavera, ci sono i fiori e sembra di stare a Castelluccio di Norcia durante la fioritura della lavanda ma non nella realtà, no. In quelle foto che trovi su google, quelle photoshoppate. In mezzo a questa radura facciamo che c’è una mongolfiera. È ancora a terra ma ha il pallone già gonfio. Io e te ci saliamo sopra e io levo l’ancora che la tiene ferma a terra. Lentamente la mongolfiera sale e noi ci affacciamo per ammirare il paesaggio. Passiamo sopra San Gimignano, sfioriamo il campanile della Collegiata, e poi facciamo lo slalom tra la torre degli Ardinghelli, quella dei Becci, dei Capatelli, dei Chigi e poi tutte le altre in ordine alfabetico. Poi ti aggrappi alla leva del fuoco che nessuno dei due sa come chiamare. Una vampata fa salire improvvisamente il pallone tra le nuvole per poi riabbassarsi lentamente, come planando. Siamo a Machu Picchu, vedi. E non c’è nessuno. Ma nessuno nessuno. Solo io e te e il nostro pallone areostatico. Sorvoliamo la città abbandonata e tu hai la tua Coolpix, io la mia Pen-f e lì, dalla nostra posizione privilegiata, scattiamo delle foto meravigliose, senza intrusi, senza turisti, senza fretta. Tu però hai voglia di andare dai nonni e va bene, ti dico. Così stavolta tiro io la leva. Stesso movimento, su su su, poi giù giù giù. E ora siamo sulla piazza del paese. Io vorrei rimanere lì in alto, continuare a osservare il luogo nel quale sono cresciuto senza esser visto, ma tu vuoi scendere e allora atterriamo sul tetto della casa dei nonni. Ci caliamo dalla grondaia e arriviamo sul balcone. Tua nonna ha già apparecchiato, è ora di pranzo e sulla tavola fumano le lasagne e il camino è acceso e incredibilmente c’è tutta la famiglia. Mangiamo tutto quello che ci va, poi io bevo la sambuca e tu svuoti una vaschetta di gelato con 3 etti di panna montana sopra.  Salutiamo tutti ma senza tristezza. “Ciao nonna, ciao zii, ciao cugine”. Risaliamo per la grondaia, riprendiamo la mongolfiera e finalmente torniamo a casa e stanchi stanchi ce ne andiamo a dormire almeno 12 ore. Non prima però di aver salutato e dato da mangiare a Gagarin, il mio bulldog inglese, e Lilli e Sally, i tuoi due pony che ci aspettano in giardino.

Possiamo fare questo e possiamo fare un milione di altre cose. Tante le faremo, moltissime altre rimarranno solo nei nostri sogni. Intanto però vengo a prenderti a scuola. Tu te ne stai seduta sul tuo seggiolino e guardi trasognante fuori dal finestrino. Ti chiedo, guardandoti nello specchietto retrovisore, a che pensi. Mi rispondi che riflettevi su Miracolo sulla 34esima strada che hai rivisto per la ventesima volta la sera prima. Mi racconti che hai capito una cosa – dici proprio così – che Susan ha tutto il diritto di chiedere un papà e un fratellino ma proprio non riesci a capacitarti di come possa chiedere a Babbo Natale una casa nuova. Lei una casa ce l’ha già. Perché mai desiderare qualcosa che già ha? Non ti pare giusto e, a pensarci bene, non pare giusto nemmeno a me desiderare tutto quello che già ho.

Tutto tu vuoi

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo. Forse lo sei davvero. Questa bambina si chiama Ah. 
Proprio così, Ah. Come uno sbadiglio, come la prima nota di una risata, come dire “ho capito”. È un nome tra i sogni, la felicità e l’intelligenza. Secondo me è un nome bellissimo, e se fossi stato meno tradizionalista, se avessi avuto meno anni, idee più folli e l’ardire di seguirle, se tua madre non avesse saputo da sempre il tuo nome, adesso anche tu potresti chiamarti così.

Ah è nata in un giorno di pioggia sottilissima, aghi d’acqua tanto fini e innocui che non riuscivano a bagnare nessuno. Quel giorno il sole è sorto alle cinque e quarantasette minuti e tramontato inspiegabilmente due ore più tardi rispetto a quanto riportava l’almanacco. In quelle due ore Ah è rimasta quasi immobile nella sua culla, la sua mamma guardava oltre la finestra aspettando che la luce calasse, il suo papà guardava il suo cuore ormai perso, addormentato nel piccolissimo torace di Ah. Anch’io ho fatto questo nel tuo primo giorno di vita; guardavo te, instancabilmente, e guardavo il mio cuore scindersi come un atomo, diventare tuo, e crescere crescere. Crescere.
Ah non ha un’età precisa. Non è possibile stabilire quanti anni siano trascorsi dalla sua nascita. Fino al suo terzo compleanno ci sono state torte con candeline rosa, poi non più. Poi i pensieri e le parole di Ah hanno cominciato a evolversi in maniera spropositata, non appartenevano più a quelli di una bambina della sua età, non potevano essere contenuti in un numero. Cinque, sei, sette anni, nessuna di queste lancette le apparteneva. Tutto ciò che faceva era così stupefacente da non poter essere misurato, controllato. Il tempo non era più necessario. Lei ragionava con la saggezza di ottanta lune, comprendeva ciò che ai bambini viene celato, per proteggerli, si dice serva a proteggerli. Osservava apparentemente indifferente comportamenti che sarebbe stata presto in grado di ripetere con la precisione di un liutaio. Imparava termini mai usati da nessuno, disegnava mondi sconosciuti, abitati dalle persone a cui voleva bene. Disegnava enormi barche di zucchero e tendoni del circo in fiera nel cortile della sua casa. Al timone suo padre. Sul filo, sospeso tra una nuvola e una stella a trenta punte, suo padre. Marinaio ed equilibrista. E medico, dottore di tutte le malattie curabili con le caramelle. 
Ecco, queste cose possono sembrare sciocche. Ecco, non lo sono. Queste cose sono le stesse che fai tu, e credo le stesse che faccia ogni bambino del mondo, ma tu le fai meglio. Ogni bambino le fa meglio. 
Ogni bambino dal niente genera mondi irrazionali, eppure di quei mondi sa dire, raccontare, spiegare, con una logica convincente al punto da lasciare senza fiato il più illustre rettore universitario. Ogni bambino ha fermato il tempo il giorno in cui è nato. Tutti i bambini hanno rallentato la rotazione terrestre consentendo al sole di splendere più a lungo. È da qui che nasce l’espressione venire alla luce, non si tratta solo della luce fuori dal pancione delle loro mamme, è una luce speciale, un bacio dal cielo alla culla, lungo il tempo che serve a capacitarsi di quanto possa essere eccezionale il miracolo che avviene da sempre, eppure non riesce a perdere neanche una sfumatura d’ombra dello stupore che si trascina dietro a ogni respiro, passo, gesto.

Ti racconto questa cosa. Ah un giorno era a casa, era pomeriggio, sua madre le stava preparando il pane con la confettura di albicocche, le piacciono molto le albicocche. Suo padre non stava bene: solo un po’ di febbre, qualche starnuto. Ad Ah era stato detto di non avvicinarsi a lui, avrebbe potuto ammalarsi. Camminava appena, instabile, i passi strani dei cuccioli, che sollevano troppo le ginocchia e sembrano avanzare come muovendosi nel cerchio di una danza africana. Con quei passi è andata verso la stanza del suo papà, sua madre a rincorrerla per portarla indietro, invece non ce n’è stato bisogno. Ah si è fermata davanti alla porta, l’orecchio teso fino all’istante in cui un colpo di tosse è riuscito a sovrastare il volume basso della televisione, allora si è voltata, “tosse”, ha detto, l’espressione vagamente contrita andava trasformandosi in sollievo. “Tosse solo”, ha pronunciato queste due parole come a stabilire che era tutto a posto, tornando in cucina e sedendosi sullo sgabello, finalmente serena. Non so cosa siano le malattie per i bambini, un pericolo suppongo, intuiscono l’ipotesi degenerativa che si cela dietro quel termine, quella condizione. So che la premura e la dolcezza di Ah, che senza entrare, senza disturbare, si accerta che il suo papà sia malato ma ci sia, che stia bene in fondo, che la sua sia solo tosse, per me è una cosa così grande, dolce, così piena di protezione, interesse, e potrei andare avanti e riempire pagine di aggettivi, ma non lo farò. Dirò solo che per me sei tu, i tuoi baci piccolissimi, infiniti, pronti, come urgentissimi. La tua capacità d’intuire, sapere qual è il momento in cui quei baci mi servono davvero, e mi servono così tanto che non ricordo più di che colore fosse il mare, che sapore avessero le arance prima dei tuoi baci. 

Lascia che ti racconti ancora qualcosa. Ah ogni tanto canta qualche strofa della canzone preferita di suo padre, anche tu lo fai. È normale, va bene, facciamo finta che sia normale, ma non lo è. Ti piacciono canzoni diverse da quelle che ascolto io, eppure di tanto in tanto mi concedi di ascoltare dalla tua voce, che lo sai, è la mia voce preferita in assoluto, la versione live della colonna sonora di un pezzetto della mia vita. Non è normale quello che mi succede, non è normale come mi sento, dura un istante, un momento di comunione tra te, me e chi sono stato prima ancora che tu esistessi. Quell’istante non è normale.
Ah ha i suoi gusti, oltre alle albicocche le piacciono molto il cioccolato e la polenta che fa sua nonna in inverno, che è anche il piatto preferito di suo padre. Tu hai i tuoi gusti, ti piacciono le patatine e il gelato, non ti piace il cocomero. Allora, il cocomero piace a tutti. A tutti. È grande, tondo come un pallone da spiaggia, verde come una zebra se le zebre facessero la fotosintesi, e poi è rosso, dentro è sorprendentemente rosso, questo basta a renderlo fantastico. Poi c’è il fatto che il cocomero non lo trovi dal fruttivendolo tutti i giorni, come le carote, no, devi aspettare l’estate, il caldo, la fine della scuola, allora il cocomero diventa prezioso e spensierato, freschezza dopo tanto sudare. Il cocomero piace a tutti, per forza. Ma a te no. E neanche a me. Capisci? Vogliamo tornare a dire che è normale anche questo? Va bene. È normale. È normale solo se non sei un padre però. Altrimenti è magia, è qualcosa di mio che è cresciuto dentro te, qualcosa che non potevo immaginare fino al giorno in cui hai rifiutato quella fetta rossa e hai fatto la stessa faccia che credo di aver fatto io la prima volta in cui qualcuno mi ha messo davanti un cocomero dicendomi di assaggiarlo. Dicendomi che era buono, troppo buono.

Ah, e questo non è il nome di quella bambina. Ah adesso è il mio sbadiglio, il prologo di ogni volta che sogno di averti con me, è la prima nota della mia risata quando mi rendo conto che non ho bisogno di sognare, tu ci sei. 
È la parte più vera di me che comprende quanto meravigliosa sia la vita. Ah, ho capito. È questo il senso di tutto.
La tua vita, e la mia dentro la tua.

La leva calcistica del ‘68

La tua prima e ultima partita allo stadio è stata un disastro anche se tu la ricordi come una specie di picnic divertente, pieno di pizzette, biscotti, wafer, panini e altre mille ragioni che non hanno nulla a che fare col calcio. Gianluca si era rotto un piede a calcetto e il suo posto sarebbe rimasto vacante. Mercoledì però era il mio giorno con te e anch’io avevo deciso di disertare Roma- Atalanta. Silvia però ci ha riflettuto un po’, mostrando una passione per quell’avventura nella quale era stata coinvolta quasi controvoglia a inizio anno ormai superiore a qualunque affezione a due cari amici, e mi ha detto “ma perché non venite insieme?”, sottintendendo io e te. Tanto è bastato perché io ti proponessi questa cosa che somigliava un po’ tanto a Homer che regala a Marge una palla da bowling per il suo compleanno facendole credere sia davvero un pensiero speciale per lei. Tu ci hai riflettuto a tua volta e perplessa mi hai chiesto “e se poi mi annoio?”.  Sapevo però che non ti saresti annoiata, rapita da tutte quelle cose che ti avrebbero portata ad assaporare due ore di calcio senza calcio. Così, subito dopo scuola, la tua serata da tifosa è iniziata al supermercato dove siamo andati a prendere i panini. Eravamo già in ritardo, io sono corso al banco del pane e ti ho lasciata con Silvia all’altezza delle merendine autorizzandoti a comprare un dolcetto. Quando vi ho reincontrate alla cassa avevate preso così tante schifezze che avremmo potuto offrirle a tutta la curva.

A volte accadono cose stupefacenti quando sto con te. Una di queste è stata trovare a primo colpo, quasi senza cercarlo, un parcheggio a 500 metri dall’Olimpico. Da lì, immersi nel mare rosso di sciarpe, magliette e bandiere, ci siamo lasciati trasportare ai nostri posti. Mentre tu ti guardavi attorno curiosa, Silvia se la prendeva con gli steward e i poliziotti che le dicevano “prego signora” facendola passare ai tornelli e ai controlli, convinti fosse tua madre.
In queste occasioni, anche se spesso abbiamo scorte di cibo che potrebbero sfamare la popolazione del Ciad, tu razioni il cibo con scrupolosa osservanza lasciandoti per i momenti più importanti le cose che ti piacciono di più e non cominciando mai a mangiare prima dell’effettivo inizio. Lo fai anche al cinema, per dire. Appena arrivati compriamo il barattolone di popcorn che tu custodisci gelosamente fino all’inizio del film. E spesso, anche dopo che il film è iniziato, mi chiedi “papi ma è iniziato?”, preoccupandoti che quello che stai vedendo non sia l’ennesimo trailer. Sei fatta così. Ti piace fare le cose con ordine. Ogni cosa al momento e al posto giusto. Così hai fatto anche allo stadio. Hai aspettando l’inizio per cominciare ad attaccare le tue riserve di stuzzichini e nel frattempo mi chiedevi delle bandiere, i nomi dei calciatori e mi guardavi stupita mentre cantavo a squarciagola Roma non si discute. Io ti ho messo la mia sciarpa tra le mani e tu, quasi senza pensarci, ti sei ritrovata a mimare modi e gesti di chi ti stava intorno che ormai ti aveva assunta a mascotte.

Abbiamo sofferto tanto. Una partita brutta e lenta. A tratti sfortunata. Chi soffriva più di tutti ero io che mi sentivo schiacciato tra la voglia di esplodere nei miei soliti eccessi di entusiasmo da stadio e il desiderio di non apparirti diverso dal solito. Così a ogni azione sbagliata, a ogni errore arbitrale, a ogni fallo subito, mentre il mondo intorno si lanciava in improperi e urla forsennate, io reprimevo velocemente dentro la frustrazione e rielaboravo nel minor tempo possibile la frase sconcia che avevo sulle labbra rendendola potabile. Così tu e il resto della curva, mi avete sentito urlare cose tipo “ma che cavolo!”, “arbitro stai attento!”, tanti piccoli e innocui mannaggia. 
Quando l’Atalanta ha segnato il primo gol lo stadio si è ammutolito. I giocatori hanno ripreso la palla, ritornando a centrocampo e dopo poco il gioco è ripreso. Tu non ti sei accorta di nulla. E solo dopo 10 minuti mi hai chiesto perché sul maxischermo accanto al nome dell’Atalanta fosse apparso un 1. Tempo qualche secondo e quell’uno è diventato un 2 mentre la cifra accanto al nome della nostra squadra rimaneva invariabilmente zero.
La partita è finita così. Con la gente che andava via schifata, Silvia che tentava di raccontare qualcosa di divertente e io che ti ho fatto salire in piedi sul sedile per farti ammirare lo stadio che lentamente perdeva il rosso e guadagnava in blu.

Vedi mi son chiesto davvero cosa ricorderai di quella giornata. A lungo ci avevo pensato anche prima, dicendomi che avresti conservato i cori, l’esultanza di un gol, l’impressione di far parte di qualcosa di enorme e lontanissimo dalla vita normale. Al di là di tutto, pensavo che portarti allo stadio sarebbe stata una cosa che avresti potuto raccontare oggi, adesso, ma anche tra tanti anni, ricordando la volta che a sette anni accompagnasti tuo padre a vedere la Roma. Di sicuro non immaginavo, mentre pensavo tutto questo, che nella tua mente potesse esserci una qualche forma di identificazione in ciò che è il mio mondo e nel quale ti immaginavo solo spettatrice. Invece il mattino dopo, mentre facevi colazione e io fissavo ossessivamente l’orologio alla parete convincendomi che non ce l’avremmo mai fatta ad arrivare in tempo a scuola, mi hai stupito, facendomi commuovere. Mi hai chiesto “Papi abbiamo perso per colpa mia?”. Ovviamente sono corso a rassicurarti, chiedendoti come potessi pensare una cosa così. Tu mi hai detto “perché non avevo la maglietta, non avevo la sciarpa e non conoscevo i cori”. Io ti ho guardato come si guarda un mago che sta fluttuando nell’aria senza trucco, ti ho stretta forte forte e nel momento esatto in cui realizzavo che avrei dovuto compilare anche per quella mattina il foglio di giustificazione per l’ingresso in ritardo a scuola, ti ho detto che quando sono con te io non perdo mai e la mia squadra, che siamo io e te, gioca e vince ogni anno il campionato, la Champions e la Coppa del Mondo. Tu mi hai sorriso probabilmente capendo solo una piccola parte delle cose che avevo detto e hai aggiunto “tu però avresti voluto dire un sacco di parolacce e non le hai dette”.

Allora ho realizzato che hai capito molto più di quello che cercavo di dire, hai compreso i miei sforzi, il mio desiderio di farti conoscere tutto ciò che amo, di condividere ogni cosa con te, cercando di trovare sempre un compromesso, un modo. 
Ho realizzato che non sono le imprecazioni mascherate male, i ritardi, e nemmeno i cori che non mi sono preoccupato d’insegnarti a poter gettare ombra sulla nostra squadra, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore.
Noi indossiamo una maglietta sempre pulita, e con lei scendiamo in campo ogni giorno. Non siamo spettatori ma campioni. Giochiamo la nostra lunghissima partita, tifiamo l’uno per l’altra senza conoscere esitazione. Affrontiamo il nostro stadio, l’erba falciata da poco, le luci sulle nostre teste, e iniziamo a correre con coraggio e tutta la fantasia di cui siamo capaci, quella che serve a rendere nuova e speciale ogni cosa.
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, e tu lo vedi, mi vedi. Mi dai fiducia. Come un procuratore mi osservi e dentro di te pensi il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette.

Ti voglio bene amore mio. Perché hai solo sette anni e non giudichi il tuo calciatore preferito nemmeno quando sbaglia un rigore a porta vuota.

Il tuo maglione mio

Ho dormito nel letto insieme alle briciole della tua colazione. Ti piace mangiare biscotti lì, è la tua maniera preferita di iniziare la giornata.
Tu fai così: sei capace di trascurare il fastidio, sai accettare il disagio fino a non considerarlo affatto.
Così come hai iniziato la tua giornata da me, hai affrontato anche il tuo primo giorno di scuola. A tuo modo: tra esitazione e curiosità. Vestita del tuo entusiasmo delicato e timido. Eri lì, dove sapevi di dover essere, semplicemente. Ti muovevi cauta e consapevole, ti ambientavi. Eri già capace di affrontare il tuo giorno senza importi e senza dimenticare chi sei, come sei. Senza forzature. Rispettandoti.
Allora ero solo io a sentire sulla pelle qualche briciola di disagio? Forse sono solo io a desiderare che tutto sia sempre comodo e semplice per te. Sono io a non rendermi conto che è già così? È già tutto alla tua misura, perché tu accetti gli istanti che vivi come fossero biscotti e mastichi le tue esperienze all’esatto ritmo della tua fame.

L’hai fatto anche dal dentista. Sei entrata sicura, camminando come tra le pareti di casa tua, incurante del fastidio che forse ti procureranno i gancetti del tuo apparecchio. Stai facendo qualcosa che forse cambierà un po’ il tuo sorriso, inconsapevole eppure certa che tutto cambierà in meglio. 
A volte mi lasci in bilico tra il desiderio, quasi il bisogno innato, di costruire un mondo perfetto intorno a te e la certezza che questo mondo esiste già, e tu lo abiti. Sei tu ad essere capace di vederlo così, capace di fidarti, pronta a rassicurarmi con un solo, quasi impercettibile gesto a movimento della tua espressione. Accenni un sorriso che si trasforma in parole e sembra dirmi “tranquillo papà, tutte le cose che non puoi fare, quelle che ti fanno sentire insicuro, quelle che neanche immagini possano essere importanti, quelle di cui credi di non essere capace, le stai già facendo. Le stiamo facendo insieme, ti basterà allontanare la paura per accorgertene”.
Allora le briciole sì, forse graffieranno un po’ le braccia girandoti tra le lenzuola, ma si tratta solo di solletico. Forse le briciole renderanno un po’ meno liscia la superficie dei nostri pensieri, ma in fondo è solo zucchero mischiato alla farina e al lievito.

Fai colazione come vuoi.
Inizia le tue cose come sai già fare.
Non smettere di insegnarmi a mangiare biscotti lasciando cadere briciole ovunque.

Culodritto

Quando siamo entrati a casa di Giacomo e Anne tu hai trascinato la tua valigetta fino al centro della stanza, hai fatto un giro a 360 gradi e hai esclamato “ma questa casa è piccolissima!”. Io ti ho fulminato con lo sguardo mentre Giacomo e Anne sono scoppiati a ridere. Tu non hai capito né le loro risate, né il mio sguardo e hai aggiunto: “ma come si fa a vivere in una casa così?”.
Lui allora ti si è avvicinato, per prenderti la valigia di mano e provare a spiegarti che a Parigi le case sono molto piccole ma che la gente si ingegna per renderle più vivibili, soppalcandole, arredandole su misura, riducendo all’essenziale le cose che servono per vivere.
Nel frattempo, io avevo raggiunto la finestra spalancata e sporgendomi sono rimasto folgorato, come fosse la prima volta, dal grigio bello di Parigi e dal Sacro Cuore che spuntava prepotente dietro all’ultimo palazzo a destra del mio sguardo. Alle mie spalle ho sentito lo scricchiolio del legno del soppalco accogliere i tuoi passi, mentre girandomi ti ho trovata affacciata a due metri d’altezza che mi facevi “ciao ciao”, ormai perfettamente integrata nella nostra casa parigina.

I tre giorni che sono seguiti sono volati come una parentesi leggera, tra baguette, croissant, quiches, la Senna, il palazzo dell’evoluzione, e cenette attorno al tavolino di Montmartre con prosciutto, salame, formaggi e vino. Tu osservavi ogni cosa e a me pareva di vederti così grande e indipendente da chiedermi se fossi tu a portare in giro me o io te. 
È stato così strano trovarsi per la prima volta all’estero, noi due soli. Mentre io ti racconto le cose che ricordo di Parigi e tu mi chiedi cosa significa “merci”, “aujourd’hui”, “toujours”. Poi ci fermiamo a comprare i biglietti della metro e io ripeto nella maniera migliore che posso la frase che ho tradotto di nascosto qualche minuto prima su google translate, osservando con la coda dell’occhio la tua espressione e riempiendomi il petto. Mi chiedo quanto di tutto questo rimarrà nella tua memoria, quando un giorno saprai raccontare del viaggio a Parigi che facesti a sette anni da sola con tuo padre. Quanto vorrei essere in quel momento che verrà per scoprire se sarò stato un padre divertente, coraggioso, simpatico, socievole, spigliato, il miglior padre del mondo, come ogni tanto mi dici.

Intanto, l’ultimo giorno andiamo alla Torre Eiffel che da mesi vuoi vedere, sin da quando hai cominciato regolarmente a vederla sullo sfondo di ogni puntata di Ladybug. Arriviamo sotto la torre e, come sospettavo, tu mi chiedi di salire in cima. Io allora ti propongo di prendere le scale perché, ti dico, “così potrai ricordarti della volta che tuo padre ti costrinse a scalare una torre alta 300 metri”. Tu mi dai retta e mi segui. Ci imbarchiamo allora nella nostra impresa, divertendoci a contare i gradini e scoprire solamente quando abbiamo superato la metà che il numero è scritto di dieci in dieci al lato della scalinata. Poi arriviamo al primo piano, per premio ci regaliamo una ciambella gigantesca nel bar con la vista sulla città e io ti propongo di proseguire almeno fino al secondo piano. Tu accetti ancora, stringendomi la mano. Al quattrocentisimo gradino però mi dici che non ne puoi più. Ci affacciamo allora alla balaustra e guardiamo fin dove lo sguardo riesce a vedere. Contempliamo Parigi, le nuvole che compongono animali giganteschi, lo strano sole che illumina i tetti.

Vedi, tesoro, ho pensato una cosa mentre eravamo sull’aereo di ritorno. La scrivo per non dimenticarla. Mi sono sempre addormentato istantaneamente ogni volta che sono salito su un treno o un aereo. Con te non è possibile perché vuoi che ti tenga compagnia e ti dica dettagliatamente cosa fare per non annoiarti. Così è andata anche stavolta. La mia testa, subito dopo il decollo, ha cominciato a penzolare e tu mi hai baciato, lasciandomi un bacio al sapore di Kinder Bueno sulla barba e chiedendomi di non dormire. Io allora ho preso il tappo della bottiglietta che avevamo davanti al sedile e ti ho detto “sotto mano di papà, dove sta qui o qua?”. Tu hai indovinato e a tua volta hai ripetuto il giochino. Quando è toccato di nuovo a me però ho lasciato che il tappo mi scivolasse sotto una gamba e ti ho chiesto di indovinare. Naturalmente non lo hai trovato e io non ti ho mostrato il vuoto che avevo pure nell’altra mano. Ho ripetuto lo scherzo per altre 10 forse 15 volte e tu ogni volta sbagliavi e ti arrabbiavi con te stessa per la sfortuna che avevi e mai, mai, hai pensato che anche l’altra mano potesse essere vuota. Fino a quando mi sono messo a ridere e ti ho rivelato lo scherzo. Ecco, amore, la fiducia cieca che hai in me è qualcosa di così unico e raro che probabilmente non esiste in nessun altro luogo della vita. Non so quando arriverà il momento in cui tutto questo si spezzerà e semplicemente dubiterai di me. Fino ad allora, io sarò il tuo eroe e potrò farti scalare 400 scalini della Torre Eiffel come fosse un gioco o convincerti che una mano chiusa contiene inevitabilmente un tappo. Tutto questo non ha nome ma è senz’altro la sensazione più bella che io abbia mai provato. Ecco, volevo farti una promessa anche se non so quanto saprò mantenerla. Volevo prometterti che non nasconderò mai più il tappo.

Per te

Quando avevo 16 anni usci L’albero, ficcandosi prepotentemente in ogni interstizio di pausa della mia vita di adolescente e riempiendo una miriade di pomeriggi, notti, mattine dei tre anni che seguirono. Lo ascoltai così tanto che, col passare del tempo, l’attesa per il disco successivo divenne angosciante. In fine arrivò il 10 maggio del 1999. Per comprare un disco dovevo prendere la macchina, affrontare i 30 km di curve che mi separavano dalla città, cercare parcheggio, evitando di graffiare o tamponare la macchina dei tuoi nonni, governare le pulsazioni del mio cuore per dosare abbastanza sangue nelle gambe e raggiungere il negozio di dischi in pieno centro.
Il negozio è ancora nella mia mente, così come il suo nome. Chissà se c’è ancora però. Era una botteguccia piccola con alcuni scaffali zeppi di cd, addossati l’uno all’altro e il bancone, bianco, a destra dell’entrata.

A me e tuo zio, per festeggiare l’ultimo anno di liceo, per quell’anno fu concesso di andare a scuola in macchina. Non era in realtà un vero regalo. Era più un favore che tuo nonno faceva a se stesso per evitare di dover coprire almeno un paio di volte la settimana gli 11 chilometri che separavano casa dalla scuola, nei giorni in cui l’autobus sarebbe partito più tardi. Non ricordo esattamente come andò quel lunedì ma, avendo vissuto tante altre giornate come quella, è probabile la dinamica sia stata la stessa di sempre. Te la racconterò allora così, come le altre volte. Lasciai tuo zio a casa dei nonni e probabilmente senza mangiare passai a prendere Filippo a casa sua. Insieme ci precipitammo in città. Entrammo da Top dischi, simulando indifferenza e nonchalance (all’epoca, come adesso, ci mancavano sia l’una che l’altra) e cominciammo a curiosare tra i cd esposti, non riuscendo comunque a concedere alcun tipo di interesse a nessun altro disco che quello
Il pezzo di pizza consumato senza troppa fame da Young Pizza, la passeggiata di rito lungo il corso, la consueta sosta alla casetta dei fumetti per osservare e avere tra le mani il mitico numero 1 di Dylan Dog, per quel giorno furono solo un lampo, un flash indistinto tra un viaggio di andata e una corsa di ritorno.

A casa, come ogni altra volta, rigirai numerose volte tra le mani il disco ancora incellophanato. Leggendo e rileggendo i titoli delle canzoni, le scritte piccole piccole, osservando con minuzia da incisore i dettagli dell’immagine di copertina. Poi la punta di una forbice infilata nella plastica. L’emozione di scoprire il dentro dell’oggetto, le pagine del libretto, ogni singolo dettaglio come un viaggio aspettato per 3 anni. E infine infilare il disco nel lettore, le cuffie alle orecchie, steso a letto, occhi chiusi, ascoltare, solo ascoltare.
L’albero mi aveva tenuto compagnia per così tanto tempo che Capo Horn non poteva riservarmi emozioni lontane. Ero tutto quello che sapevo. Ascoltai il disco la prima volta, poi la seconda, forse anche una terza. Probabilmente fino a quando non fui interrotto da tua nonna che mi intimava di scendere per la cena. Eppure quella che doveva essere una festa si rivelò un fallimento clamoroso. Perché nessuna delle tante aspettative che avevo riposto in quel disco era stata assecondata. Ero così deluso che quella sera non riuscii a mangiar nulla, continuando a chiedermi perché. E alla fine decisi di scrivere. 

Ero cresciuto con Jovanotti, sin dall’88 quando avevo poco più della tua età, e ascoltavo la cassetta di Jovanotti for president, implorando i nonni di comprarmi l’astuccio con la bandiera americana e la scritta “yo jovanotti”. Non era un cantante, né una star. Era uno di famiglia, dal quale non è concepibile ricevere delusioni.

Google, non ci crederai, ma esisteva da pochi mesi. Esisteva però Soleluna.com, nel quale c’era una casella per inviare messaggi. Scrissi una lunga mail di cui ho perso memoria. Ricordo però benissimo che concludevo con questa frase “ho passato gli ultimi 3 anni ascoltando L’albero e continuerò per i prossimi 3”. Poi invio.
Puoi immaginare la sorpresa quando il giorno dopo cascò nella mia casella email un messaggio proveniente da un certo Lorenzo Cherubini. 
Piangevo, tanto per fare una cosa nuova. Lorenzo mi diceva di essere dispiaciuto. Mi garantiva di avercela messa tutta. Mi proponeva di ascoltarlo ancora oppure chiedere al negoziante di riprendere il disco e ridarmi i soldi. Le lacrime che versai per l’emozione non furono nulla se confrontate a quelle che versai nei giorni successivi quando riascoltai ancora e ancora il disco e me ne innamorai perdutamente. Come avevo potuto giudicarlo così precipitosamente è un dubbio che non riesco a risolvere nemmeno oggi, a distanza di 20 anni esatti. Ma è una cosa che facciamo continuamente, la facciamo tutti.

Mi è tornata in mente questa storia ieri sera. La raccontavo a Agata e mentre la descrivevo, nel brillare dei suoi occhi indulgenti, ho pensato dovesse esserci un senso che mi era sfuggito per tutti questi anni. Poi Agata ha smesso di guardarmi e ha puntato gli occhi su un punto lontano a metà tra l’orizzonte e noi. Ha detto “dovresti riascoltarlo il Jovane” (lei lo chiama così). E così ho fatto questa mattina, dall’inizio alla fine, e alla terza volta che riascoltavo “Per te”, mi sono ricordato di domenica scorsa, quando io guardavo il derby alla tv e tu con la mia maglia di Dzeko addosso facevi i compiti. Io ogni tanto mi scaldavo per una traversa, un palo, o fuorigioco che non c’era. Tu interrompevi i tuoi compiti, ti giravi e mi urlavi “Papi stai davvero esagerando, è soltanto una partita”. Ecco, collegando tutti questi avvenimenti mi è venuto in mente che non potrò tornare indietro a tutte le volte che ho giudicato lapidariamente cose che all’apparenza mi sembravano stupide, superficiali, insensate, fatte male. Ma tu ad un certo punto mi hai insegnato che possiamo provare a farlo insieme. Perché mentre Luis Alberto al 58’ minuto pareggiava i conti e io urlavo come un disperato, tu hai deciso di fare una pausa perché probabilmente non ne potevi più di vedere tuo padre comportarsi come i maschi stupidi che pensano solo al calcio. Ti sei seduta allora sul divano accanto a me, hai cominciato ad osservare lo schermo e hai detto: “però la maglia del Lazio è molto bella”. Io ti ho fulminato con lo sguardo e tu hai sorriso.

Sono passati 20 anni dall’uscita di Capo Horn. La mia città è cambiata tantissimo, la Roma non vince un campionato da più o meno gli stessi anni, la macchina dei nonni rimane immacolata nonostante il tempo, Young Pizza si è allargato ed è diventato un ristorante enorme, Top dischi ha la stessa insegna di allora ma adesso vende soprattutto vinili e magliette, la casetta dei fumetti in Piazza Roma non c’è più anche se adesso ho il mitico numero 1 di Dylan Dog, il ragazzo che io ero e ascoltava “Per te” commosso ha avuto nel frattempo una figlia meravigliosa e ha finalmente capito quanto davvero è per te ogni cosa che c’è, ninna naaa ninna eee.

La verità

Mi sei mancata, tanto. Ma ti ho sentita così vicino che delle volte mi pareva di vederti e poterti parlare. E poi in genere ad un certo punto della giornata arrivavano le tue videochiamate. Io ficcavo il mio faccione nei 5 pollici del telefono e tu dall’altra parte sorridevi e mi chiedevi “stai camminando?”, anche se magari erano le nove di sera. Poi commentavi la mia barba lunga e mi facevi girare il telefono per farti vedere esattamente dov’ero.

Il giorno che stavo per arrivare alla fine, ero così commosso che ho cominciato a piangere a 5 chilometri dall’arrivo. Lì, a quella distanza, c’è l’ultima collina, il Monte do Gozo che in galiziano significa il monte della gioia perché da lì si ammira la vallata antistante ed è il luogo dove i pellegrini capiscono di essere arrivati alla meta e si lasciano andare ad una gioia disperata. È successa la stessa cosa anche a me, pur non vedendo nulla perché c’era nebbia e pioveva. Ho fatto comunque la piccola deviazione che mi ha portato nel punto più alto e mi sono fermato qualche minuto a contemplare la valle antistante avvolta nel bianco. Lì ho cominciato a piangere perché ho capito che ce l’avevo davvero fatta. Ho preso la discesa verso la città ma lentamente, lentissimo, perché non volevo finisse quella sensazione meravigliosa che mi riempiva il petto. Mi sentivo così pieno di gioia ed emozione, mentre le ginocchia tremavano ad ogni passo. E quando sono arrivato alla periferia della città, mi sono fermato sotto al cartello stradale con la scritta “Santiago” e volevo farmi un selfie ma tremavo e il telefono, per la pioggia, mi scivolava dalle mani. Una coppia è arrivata in quel momento ed era emozionata quanto me. Erano spagnoli e abbiamo cominciato a parlare come se avessimo fatto tutto il viaggio insieme, riempiendo le frasi dell’euforia di una vittoria. Veniva voglia di abbracciarsi ma ci siamo limitati a darci delle pacche sulle spalle, sugli zaini. Poi loro hanno scattato una foto a me e io a loro. Sono rimasto allora qualche minuto solo, a contemplare il cartello che avevo davanti. Ero arrivato, ce l’avevo fatta.

Mi sono ficcato le cuffie nelle orecchie e ho premuto play sulla canzone che avevo scelto per celebrare quel momento. E mentre mi addentravo lentamente, lentissimo, dentro la città vecchia continuavo ad ascoltare La verità. E mentre l’ascoltavo, ripetendo a memoria ogni singola strofa, mi rendevo conto di quanto non fossi più il protagonista di quella canzone, non più. Avevo scelto di percorrere il Cammino Primitivo, avevo sfidato sorte, montagne, clima e soprattutto me stesso e avevo vinto. Avevo fatto tutto da solo, per la prima volta. Ed ero fiero di me.
Ho percorso gli ultimi metri tra la gente che mi passava accanto indifferente, continuando a piangere e a stringere l’emozione nei manici delle racchette. E poi ho svoltato l’angolo ed è apparsa lì davanti a me, enorme e imperiosa, sontuosa e cinica, austera e brillante la Cattedrale. Era lì e sembrava fosse stata costruita esattamente per quel momento, nell’attesa che io potessi inchinarmi al suo cospetto e lasciarmi andare al mio ultimo passo. 
Ho lasciato che lo zaino che per lungo tempo era stata la mia casa crollasse al suolo, così come le racchette e mi sono accasciato anch’io. Ce l’avevo fatta e avevo vinto. 

Mancava un’ultima cosa però. Chiamarti per dedicarti quella vittoria. Ho allora preso il telefono e tra le lacrime ho composto il numero di tua madre. Hai risposto tu con il tuo “papi” squillante e io nascondendo l’emozione ti ho detto quasi urlando “amore ce l’ho fatta” e tu hai capito e mi hai detto “papi sei stato bravissimo” e io ho pensato che se avevo potuto percorrere 315 chilometri a piedi, arrivando addirittura a Santiago con un giorno d’anticipo, se avevo potuto superare ben 8 mila metri di dislivello, sopravvivere al dolore alle ginocchia, quello ai piedi, alle anche, alle spalle, alla schiena, alle cosce, ai polpacci e alle caviglie, se avevo camminato così tanto e così bene era perché tu eri sempre stata al mio fianco e in quel preciso istante ho realizzato che insieme a te potrò affrontare ogni altra impresa che la vita mi riserverà: perché se cammini da solo vai più veloce,
ma insieme vai più lontano.

C’è una cosa che il cammino mi ha insegnato e che davvero vorrei raccontarti: il tuo zaino è la tua casa perché contiene tutto quello di cui hai bisogno. Non può essere troppo pesante perché ti affosserebbe ma non puoi nemmeno svuotarlo perché non sopravviveresti. Lo zaino è una delle due certezze che hai, la seconda è che quando apri gli occhi al mattino dovrai camminare. Tutto il resto è incerto. Quando arriverai, cosa incontrerai per il cammino, cosa mangerai, dove, con chi, se pioverà farà freddo oppure un sole cocente ti brucerà le braccia, se incontrerai una fontana per rinfrescarti o un bar solitario per ristorarti, se cadrai facendoti male o se le tue gambe ti abbandoneranno, sono tutte incognite alle quali potrai dare risposta solo camminando, andando, come si dice in spagnolo. E tutto questo, è una metafora perfetta della vita. Nessuno sa esattamente dove ci porterà. Nello zaino ci sono i ricordi e tutta la nostra storia, l’altra certezza è che bisogna camminare. Perché il cammino è la meta. Cerca di ricordartelo, amore mio, tutte le volte che ti verrà voglia di pensare che arriverà un momento migliore. La vita è nonostante tutto, purtroppo, per fortuna, adesso.

La guerra è finita

Eravamo al parco. Quello attorno al cinema, vicino alla nuova casa che tua madre ha scelto per voi due. Tu avevi appena iniziato a girare allegramente su una macchina a pedali, percorrendo il tracciato immaginario che io ti avevo indicato dopo aver lasciato la mia carta d’identità all’omino del noleggio. Quello, vedendoti partire, ti ha urlato dietro “è vietato andare sull’erba” e tu, che sei ligissima alle regole, hai notato che nel mio circuito c’era un tratto sull’erba, fermandoti e rimanendo perplessa sul dove andare.
Avevamo appena finito l’aperitivo al bar. Tua madre aveva preso un cocktail alla frutta disgustoso, io uno spritz campari e tu un gelato e le patatine. Così mentre percorrevi il tuo circuito immaginario, ne ho approfittato per andare a fare la pipì. Ho aspettato passassi davanti alla nostra tribuna d’onore, ho finto una specie di ola, tu hai fatto ciao con la mano, lasciando che la tua macchina sbandasse un po’ e poi sono andato.

Quando sono tornato ho visto tua madre che parlava con un uomo. Non lo avevo mai visto prima ma non mi ci è voluto molto per capire dal tono e dallo sguardo che ci stava chiaramente provando. Mi sono avvicinato, con la camminata da bullo, mentre fingevo una fintissima nonchalance. Lui mi ha guardato arrivare, con la faccia di chi si chiede “chi sarà questo?”, tua madre ha detto solo il mio nome e io gli ho lasciato tendere la mano e tenerla sospesa per un tempo lunghissimo mentre guardavo te e ti incitavo inutilmente in una gara che vedevo solo io. Poi gliel’ho stretta, continuando a tenere gli occhi su di te che nel frattempo urlavi “vado velocissimo papà!”

Il tizio allora ha continuato a parlare con tua madre, piazzando se stesso in un ipotetico appuntamento futuro. Io mi sono allontanato di qualche passo e mentre con gli occhi ti seguivo, con le orecchie ero dentro la loro conversazione. Gli ho sentito dire “dai, ti scrivo, ci aggiorniamo, sì, va bene, facciamo nei prossimi giorni”. Poi è andato via. Tua madre allora mi si è avvicinata e mi ha chiesto se fosse ora di riconsegnare la macchina a pedali mentre tu ti addentravi sul pezzetto di percorso sull’erba con la faccia di chi stava rubando una caramella. Io ho risposto “quello ci stava provando”. Lei ha sorriso, del sorriso che le illumina il viso da quando è nata, e ha sussurrato soltanto “dici?”. Io ho finto sicurezza e aggiunto “non sono nato mica ieri?”. Lei ha guardato verso l’orizzonte, socchiuso gli occhi e sussurrato “tu no, ma io sì”. 

Così, mentre venivo a disincastrarti dalla macchina a pedali, ho pensato che avevo appena conquistato una delle vette più alte della mia vita: poter parlare con tua madre senza imbarazzo, ormai lontani dal nostro campo di battaglia, di altri uomini e donne. E ora, mentre ti scrivo, me la immagino mentre mi legge sotto la luce leggera di una lampada da tavolo e sorseggia piano la sua tisana. Poi, termina il racconto, sorride, prende il telefono e mi scrive un messaggio su whatsapp: “carino il nuovo racconto!”.

Piangi Roma

A Roma fa caldo e la notte si fa fatica a dormire. Per me che tengo le imposte della finestra chiuse è anche peggio. Ho paura che entri un geco in casa e la paura vince sul caldo e il bisogno di areazione. Non so se tu riesci a percepirla. Ogni tanto, quando siamo per strada di sera, ti indico un geco sulle pareti dei palazzi e ti dico “guarda!”. Lo dico forse più a me che a te, per sembrarti coraggioso e senza paura. Tu osservi la bestia ma non ti avvicini mai. A volte dici “che schifo!”, qualche altra “come è ciccione”, ma non ho ancora capito se ti terrorizzano come terrorizzano me oppure se tutto sommato ti lasciano indifferente. Una delle ultime imprese compiute in casa vostra fu proprio catturare un geco che si era intrufolato in casa. Tua madre, che ne ha un timore forse anche superiore al mio, lo vide attraversare la parete dietro alla televisione. Tu eri già a letto che dormivi. Io non lo vidi e provai a rassicurarla, convincendola che l’aveva sognato. Quando però lo vidi anch’io fu il panico. Due adulti che saltano sul divano per paura di una creatura piccola e innocua però viscida e disgustosa. Il mio terrore principale è sempre stato trovarmelo nel letto, sentire le sue zampette da rettile che percorrono le mie gambe, fino a infilarsi sotto la t-shirt e poi chissà salirmi sul viso.

Passai più di due ore con una scatola di scarpe vuota in mano, sentendomi Willy il coyote che tenta di catturare Beep-Beep che però è troppo veloce, furbo e praticamente imprendibile. Alla fine però riuscii a catturarlo, smontando mezza casa e incastrandolo su una parete del corridoio, dietro agli scaffali con i tuoi giocattoli. Queste cose non te le ho mai raccontate per non sembrarti debole e soprattutto per non trasmetterti paure. Nella mia mente ho sempre desiderato che tu diventassi una di quelle bambine che vanno a caccia di lucertole, le catturano a mani nude e le osservano da vicino con la perizia di uno zoologo. Naturalmente tu non diventerai mai ciò che io o qualcun altro sogniamo o abbiamo sognato. Per dire che ieri notte ero a letto che continuavo a rigirarmi per trovare una posizione per dormire ed ero forse in quello stadio in cui stai già dormendo ma sei ancora cosciente. Poi ad un tratto suona il telefono, mi alzo di scatto spaventato, lo afferro e leggo il nome di tua madre sullo schermo. Guardo l’ora: mezzanotte e mezza. Mi affretto a rispondere. Dall’altra parte del telefono sento solo silenzio. Ripeto “pronto”, poi il nome di tua madre, fino a quando sento la tua vocina dirmi “papà… mi manchi tanto”.

Tu e tua madre siete per qualche giorno in vacanza a Barcellona. Andate in giro, ogni tanto mi inviate foto in cui sembrate rilassate e divertite. C’eravamo già sentiti almeno due volte durante la giornata, mi avevi raccontato di aver visitato l’acquario, di un pesce che sembrava una conchiglia, del taxi, del caldo, del gelato spagnolo che è meno buono di quello di Roma. In nessuno di questi momenti mi eri sembrata triste o che stessi pensando a me. Eppure nel cuore della notte hai aperto gli occhi, afferrato il telefono di tua madre, chiesto a Siri di chiamarmi per dirmi che ti mancavo tanto e che non riuscivi a dormire, anche se sei partita solo da due giorni. Mi si è stretto il cuore e ho provato in tutti i modi a farti ridere, senza successo. Allora mi sono risdraiato a letto e ho cominciato a raccontarti di quanto manchi anche tu a me. Nel dormiveglia devo averti raccontato dei grandi esploratori, che sono uno dei miei cavalli di battaglia, del fatto che se non avessero afferrato a due mani il coraggio e affrontato la lontananza, non avrebbero fatto nessuna delle scoperte che hanno fatto e, insomma, di pensare che sto bene e sei sempre nei miei pensieri e che, a differenza dei grandi esploratori, tu puoi sempre prendere il telefono e chiamarmi o addirittura vedermi in videocall.  Devo averti tranquillizzata perché mi hai salutato come fai sempre quando mi saluti al telefono: dici “ok, ciao!” e attacchi senza aspettare il mio saluto di risposta. Ho appoggiato il telefono sul comodino. Il sonno era ormai passato. Ho allora afferrato il libro che ho accanto a letto e cominciato a leggere. È il libro che mi hai regalato per il mio compleanno, una graphic novel. Tua madre mi ha detto che lo hai scelto perché il tizio in copertina somigliava a me e la cosa assurda è che in ogni pagina che leggo mi ritrovo in maniera inquietante. Vado avanti per un po’ nella lettura, fino a quando volto pagina e trovo il tuo disegno piegato in due. Ci siamo io e te che ci teniamo per mano e sopra di noi campeggia un cuore giallo gigantesco che contiene la scritta “sei il papà migliore del mondo!”. Sorrido, mi commuovo un po’, penso ad alta voce: Tu sei la figlia migliore del mondo!