La verità

Mi sei mancata, tanto. Ma ti ho sentita così vicino che delle volte mi pareva di vederti e poterti parlare. E poi in genere ad un certo punto della giornata arrivavano le tue videochiamate. Io ficcavo il mio faccione nei 5 pollici del telefono e tu dall’altra parte sorridevi e mi chiedevi “stai camminando?”, anche se magari erano le nove di sera. Poi commentavi la mia barba lunga e mi facevi girare il telefono per farti vedere esattamente dov’ero.

Il giorno che stavo per arrivare alla fine, ero così commosso che ho cominciato a piangere a 5 chilometri dall’arrivo. Lì, a quella distanza, c’è l’ultima collina, il Monte do Gozo che in galiziano significa il monte della gioia perché da lì si ammira la vallata antistante ed è il luogo dove i pellegrini capiscono di essere arrivati alla meta e si lasciano andare ad una gioia disperata. È successa la stessa cosa anche a me, pur non vedendo nulla perché c’era nebbia e pioveva. Ho fatto comunque la piccola deviazione che mi ha portato nel punto più alto e mi sono fermato qualche minuto a contemplare la valle antistante avvolta nel bianco. Lì ho cominciato a piangere perché ho capito che ce l’avevo davvero fatta. Ho preso la discesa verso la città ma lentamente, lentissimo, perché non volevo finisse quella sensazione meravigliosa che mi riempiva il petto. Mi sentivo così pieno di gioia ed emozione, mentre le ginocchia tremavano ad ogni passo. E quando sono arrivato alla periferia della città, mi sono fermato sotto al cartello stradale con la scritta “Santiago” e volevo farmi un selfie ma tremavo e il telefono, per la pioggia, mi scivolava dalle mani. Una coppia è arrivata in quel momento ed era emozionata quanto me. Erano spagnoli e abbiamo cominciato a parlare come se avessimo fatto tutto il viaggio insieme, riempiendo le frasi dell’euforia di una vittoria. Veniva voglia di abbracciarsi ma ci siamo limitati a darci delle pacche sulle spalle, sugli zaini. Poi loro hanno scattato una foto a me e io a loro. Sono rimasto allora qualche minuto solo, a contemplare il cartello che avevo davanti. Ero arrivato, ce l’avevo fatta.

Mi sono ficcato le cuffie nelle orecchie e ho premuto play sulla canzone che avevo scelto per celebrare quel momento. E mentre mi addentravo lentamente, lentissimo, dentro la città vecchia continuavo ad ascoltare La verità. E mentre l’ascoltavo, ripetendo a memoria ogni singola strofa, mi rendevo conto di quanto non fossi più il protagonista di quella canzone, non più. Avevo scelto di percorrere il Cammino Primitivo, avevo sfidato sorte, montagne, clima e soprattutto me stesso e avevo vinto. Avevo fatto tutto da solo, per la prima volta. Ed ero fiero di me.
Ho percorso gli ultimi metri tra la gente che mi passava accanto indifferente, continuando a piangere e a stringere l’emozione nei manici delle racchette. E poi ho svoltato l’angolo ed è apparsa lì davanti a me, enorme e imperiosa, sontuosa e cinica, austera e brillante la Cattedrale. Era lì e sembrava fosse stata costruita esattamente per quel momento, nell’attesa che io potessi inchinarmi al suo cospetto e lasciarmi andare al mio ultimo passo. 
Ho lasciato che lo zaino che per lungo tempo era stata la mia casa crollasse al suolo, così come le racchette e mi sono accasciato anch’io. Ce l’avevo fatta e avevo vinto. 

Mancava un’ultima cosa però. Chiamarti per dedicarti quella vittoria. Ho allora preso il telefono e tra le lacrime ho composto il numero di tua madre. Hai risposto tu con il tuo “papi” squillante e io nascondendo l’emozione ti ho detto quasi urlando “amore ce l’ho fatta” e tu hai capito e mi hai detto “papi sei stato bravissimo” e io ho pensato che se avevo potuto percorrere 315 chilometri a piedi, arrivando addirittura a Santiago con un giorno d’anticipo, se avevo potuto superare ben 8 mila metri di dislivello, sopravvivere al dolore alle ginocchia, quello ai piedi, alle anche, alle spalle, alla schiena, alle cosce, ai polpacci e alle caviglie, se avevo camminato così tanto e così bene era perché tu eri sempre stata al mio fianco e in quel preciso istante ho realizzato che insieme a te potrò affrontare ogni altra impresa che la vita mi riserverà: perché se cammini da solo vai più veloce,
ma insieme vai più lontano.

C’è una cosa che il cammino mi ha insegnato e che davvero vorrei raccontarti: il tuo zaino è la tua casa perché contiene tutto quello di cui hai bisogno. Non può essere troppo pesante perché ti affosserebbe ma non puoi nemmeno svuotarlo perché non sopravviveresti. Lo zaino è una delle due certezze che hai, la seconda è che quando apri gli occhi al mattino dovrai camminare. Tutto il resto è incerto. Quando arriverai, cosa incontrerai per il cammino, cosa mangerai, dove, con chi, se pioverà farà freddo oppure un sole cocente ti brucerà le braccia, se incontrerai una fontana per rinfrescarti o un bar solitario per ristorarti, se cadrai facendoti male o se le tue gambe ti abbandoneranno, sono tutte incognite alle quali potrai dare risposta solo camminando, andando, come si dice in spagnolo. E tutto questo, è una metafora perfetta della vita. Nessuno sa esattamente dove ci porterà. Nello zaino ci sono i ricordi e tutta la nostra storia, l’altra certezza è che bisogna camminare. Perché il cammino è la meta. Cerca di ricordartelo, amore mio, tutte le volte che ti verrà voglia di pensare che arriverà un momento migliore. La vita è nonostante tutto, purtroppo, per fortuna, adesso.

Carnival

Amore mio, ti vedo ogni giorno più grande. Mi pare ieri che ti tenevo in braccio ed eri un batuffolo di cotone che faceva fatica a tenere gli occhi aperti e guardava senza vedere. Ti appoggiavi al mio petto e, con la fiducia di un neonato, ti lasciavi cullare e ti addormentavi. Ti tenevo ore in braccio, con le labbra appoggiate alla tua fronte, la destra dietro la tua schiena e la sinistra che ti sorreggeva solida.
Non scorderò mai il giorno in cui ti ho vista per la prima volta. Eri nel nido, tra gli altri bambini e dormivi beata nel tuo lettino enorme. Non scorderò mai quel giorno di marzo quando la porta a scomparsa della sala parto si aprì e vidi apparire tua madre su una barella, mentre veniva trasportata nel reparto. Pensavo dormisse, invece passandomi davanti alzò una mano e sorrise, come a dire “sono viva, stai tranquillo” e in quel sorriso riconobbi la ragazza che avevo incontrato nel corridoio della Facoltà di Lettere e Filosofia 10 anni prima. Non scorderò i tuoi primi passi, le tue prime parole, il tuo primo sorriso, le pappe, le ninne nanne, le notti insonni, le cacche, i pannolini, le pomate per gli arrossamenti. Non scorderò mai quando io e tua madre, con la perizia di un chirurgo, ti cambiammo la prima tutina, terrorizzati che ti si potesse rompere un braccio, una gamba o potessi riportare danni permanenti. Non scorderò mai il viaggio a 30 all’ora dall’ospedale a casa, i telefoni spenti per evitare radiazioni, le 4 frecce accese come portassi un carico eccezionale, la paura di frenare, il sudore sulla fronte, la carrozzina ancorata alla macchina da tutte le cinture di sicurezza dei sedili posteriori. La tua prima influenza, la corsa al pronto soccorso, il medico di guardia che ci osserva sconcertato e dice “è solo un po’ di febbre”.

Intanto però stai crescendo. Hai sette anni e ne dimostri qualcuno in più, soprattutto quando mi parli rivelandomi che la tua mente viaggia ad una velocità cui non sempre riesco a stare dietro.

Prima o poi soffrirai, amore mio, molto più di quanto avrai mai sofferto in tutta la tua vita. Soffrirai perché il ragazzo al quale hai affidato il tuo cuore lo spezzerà in due.
Soffrirai come non avrai mai immaginato si possa soffrire. Piangendo le lacrime che non avresti mai creduto i tuoi occhi avrebbero potuto contenere. E vorrai farti male. Fumerai, berrai, correrai nella speranza di inciampare e ferirti e guarderai un fiume invidiando la sua profondità.
Accadrà tutto questo e né tu, né io, né nessun altro potrà evitarlo.
Scrivo questa lettera perché quel giorno tu possa ritrovarla. Se così sarà, voglio farti trovare le strofe di un cantantautore che ancora non ti ho fatto ascoltare: 

Io se fossi Dio
non mi interesserei di odio e di vendetta
e neanche di perdono
perché la lontananza è l’unica vendetta
è l’unico perdono.

Ricordatelo quel giorno. Vorrai a tutti i costi sapere, scontrarti faccia a faccia con lui per avere risposte, sapere con chi ti ha tradito, per cosa ti ha lasciato. Evitalo, amore mio. Allontanati da lui e non provare a capire, perché non si può parlare con chi non vuole ascoltare e non si può esser visti da chi non è in grado di vedere. Penserai che insieme avevate risolto la congettura di Riemann. Per lui quello sforzo così grande sarà ormai soltanto un’addizione il cui risultato è del tutto incerto. Non fidarti di chi dice “è troppo tardi”, non è mai tardi per credere e va da sé che quando diventa tardi è perché in realtà non c’è mai stato tempo. C’è chi possiede un cuore grande, a volte gigantesco e chi il suo l’ha perso chissà quanto tempo prima e gli è rimasto conficcato nel petto un organo rinseccolito, non più grande di una nocciolina. Penserai come potrà sopportare il peso dei ricordi, gli stessi ricordi che ti staneranno ovunque proverai a scappare e stare. Ti chiederai “non può essere siano solo miei, parlino solo con me, inseguano solo me”. Ma non tormentarti e non riavvicinarti perché potrà solo ricordarti che non ci sarà mai più un futuro insieme. Rischierai di impazzire pensando a quanto è costato, quanto dolore e fatica hai pagato per stare con lui. Ma lui ormai è un guscio vuoto, una conchiglia che se avvicini all’orecchio ti darà solo l’impressione di sentire il suono delle onde ma quel suono è un trucco, un inganno. Ricordati ciò che ti dico: puoi sentire il suono delle onde anche in una conchiglia di porcellana che non ha mai visto il mare. 
Non dargli odio, perché l’odio è solo l’amore col segno meno davanti. Non dargli amore perché non lo merita e sarebbe come tentare di colorare il mare. L’amore per nessuno è di nessuno, ed è quindi inutile.

Dagli la tua distanza e sarà l’unica cosa che ti salverà.