Tempo d’estate

È stata dura tornare qui. È dura ogni volta che ci allontaniamo dai buoni propositi tornare a occuparcene. Un attimo soltanto. Una settimana. Un mese. Per sempre. Da una parte l’obbligo, dall’altra la fatica di rispettarlo. La pigrizia che fa della costanza brandelli di foglie secche al vento. 

“Come stai, amore?”, ti chiedo ogni tanto. Lo chiedo anche a Agata. Entrambe rispondete tra il sorpreso e il divertito “bene!”. Io capisco dentro l’intervallo impercettibile tra le due sillabe il vostro stato d’animo. Vi chiamo. Tirandovi la mano per tenervi salde nello stesso posto. Provare finalmente a parlarvi. Agata non ce la fa proprio a rilassarsi. Respira, ti guarda fisso in faccia, guarda pure me. Dice “allora?”. Tu stai zitta. Entrambe vorreste che fossi io a tirarci fuori dal pasticcio nel quale siamo. Non so dove guardare. Se guardo te faccio un torto a lei, se guardo lei, lo faccio a te. Mi divido lo sguardo, ma finisco per guardare a terra o da un’altra parte. Poi interrompo il silenzio e dico solo “vorrei che riuscissimo a star bene, tutti e tre insieme”. Vorrei, ci penso immediatamente, suona strano. Sembra quasi riconoscere l’impossibilità di ciò che viene dopo. Allora continuo sovrastando il sospiro di Agata. Ti guardo e finalmente abdico. “Amore io e Agata vogliamo che tu sia felice, non c’è felicità possibile se tu non stai bene”. Guardo Agata che sembra lontana e rassegnata e dico anche a lei che la sua felicità è il mio bisogno più grande e chiedo a te di rispettarla e contribuire a preservarla, perché nella felicità di Agata c’è anche la mia.

Finiamo per andarcene, perché la tua compagna di classe e suo padre ci aspettano al museo. Agata rimane dentro la porta, sguardo basso e un macigno nel petto. Io e te saliamo in ascensore e tu non sai come chiedermi cosa sia quella cosa che è successa. E in realtà faccio fatica anch’io a decifrarla. Rimaniamo sospesi nel silenzio per 7 piani. Poi tu trovi le parole per chiedermi se abbiamo litigato. Ti chiedo chi. Io, tu, Agata, rispondi. Ti dico di no, non abbiamo litigato. Abbiamo invece fatto una cosa grande. Ci siamo parlati, abbiamo provato per la prima volta a salire su quell’elefante indiano che sostava in mezzo al soggiorno da due anni. Ma l’elefante è gigantesco e noi non siamo bravi addomesticatori. Eppure avere anche solo capito che il pachiderma si stava prendendo tutto il nostro spazio è una rivoluzione. 

Ho una sola missione nella vita: far sentire al sicuro te e lei. Inevitabilmente però se costruisco un rifugio intorno a te, Agata ha l’impressione che per farlo rubi pezzi al rifugio che avevo cominciato  intorno a lei. E così fai anche tu, quando vedi che inchiodo un’altra asse nella parete del suo riparo. 
La soluzione sembrerebbe facile e rassicurante: unire i due ripari e farne uno solo nel quale stare tutti e tre. Convincere entrambe che ciò sia possibile, è complicato come può essere stato per Fermi dividere l’atomo. Io però mi ostino a sistemare assi, chiodi, malta e isolanti da una parte perché ho visto le carte segrete di questo progetto e lo conosco per quello che è: una villetta con l’affaccio al mare e il giardino florido dove ci sono piante e fiori per ogni stagione. Puntualmente però tu mi nascondi i chiodi, proprio quando mi servono. Oppure Agata guarda quel pezzetto di costruzione che ho tirato su e con la faccia schifata mi dice “è sbilenco!”. Altre volte invece vi trovo entrambe indaffarate a sistemare assi e montanti e mentre ridete e vi prendete in giro tiriamo su le pareti di un’intera stanza. 
Perché la verità è che questa casa somiglia molto alla vita: a volte è semplicissima e siamo come Forrest Gump mentre tutto gli è facile. Altre volte però pare di stare in mezzo all’oceano col motore della barca rotta e siamo improvvisamente in All is lost. 
Eppure pezzo dopo pezzo questa casa la stiamo tirando su, anche se certe volte né tu né lei riuscite a vedere nemmeno il terreno sul quale sta crescendo. Ed è robusta perché ha le fondamenta fatte di consapevolezza, i muri d’amore e il tetto d’accettazione. Ci abbiamo messo quasi un anno a fare le fondamenta; nel frattempo però stavamo già costruendo i muri e ora è tempo di darle un tetto. 
E il materiale di questo tetto è un materiale speciale, che può produrre ognuno di noi col suo impegno e la sua fede. Alcune tegole sono fatte di una monetina che cade varie volte sul pavimento e del sorriso che riconosce in esse il gioco di un bambino.  Altre hanno la forma di una porta chiusa, di noi due che parliamo a bassa voce, del bisogno di una figlia di sentire che suo padre sarà sempre solo per lei. Ma ci sono anche tegole fatte di caccole appallottolate e poggiate sul comodino dal mio lato del letto. Altre ancora, infine, hanno forma, peso e colore identico a tegole lasciate nel passato. Misurarle, soppesarle, confrontarle e sistemarle in un incastro geometrico perfetto è una cosa che potete fare solo voi due insieme.
È possibile che ci saranno tegole che sembreranno sempre dissonanti in questa trama: quelle desaturate dei baci e degli abbracci non dati e quelle degli abbracci e dei baci ostentati e rinnovati. Forse però capire che un bacio dato ferisce quanto uno non ricevuto, può aiutare a riequilibrare e ridistribuire queste tegole o troppo colorate o troppo grigie.

Quando sei partita per il tuo primo weekend scout eri terrorizzata dal non riuscire a dormire fuori casa. Io ti ho rassicurato come potevo, ti ho accompagnato fin lì e in un attimo in cui siamo rimasti soli, ho preso il portachiavi con l’omino che ho sempre attaccato al mazzo di casa e te l’ho dato. Ti ho detto “è il mio portafortuna”. Tu mi hai chiesto da quanto lo avevo e perché fosse fortunato. Ti ho detto soltanto che da quando lo porto in tasca la mia vita è cambiata. Non ti ho detto però, per non ferirti, che ce l’ho dal giorno in cui io e tua madre ci siamo lasciati. Solo da allora ho scoperto quanto amore potevi darmi e quanto potevo darne io a te. È sbocciata, cresciuta e divenuta forte la nostra unione. E poi è arrivata Agata e sono nato un’altra volta. 
Tu te lo sei ficcato in tasca e mi hai detto grazie. 
Quando il giorno dopo siamo venuti a prenderti, eri stravolta e felice. Eri anche più grande e matura. Mi hai ridato il portachiavi e confessato che ti aveva portato fortuna. Ho sussurrato “sono molto fiero di te” e tu hai risposto “anche io lo sono di te, perché sei riuscito a dormire lontano da me questa notte”. Ho pensato a quanto grande fossi diventata e ho continuato a rifletterci per giorni interi. Alla fine ho capito che è questa l’accettazione di cui è fatto il tetto. L’accettazione complicata e lenta ma anche forte e duratura che l’amore per l’altro esiste e prescinde dal nostro e non gli toglie niente.

Settembre

Cosa stai passando in questo momento? Come ti senti, cosa vivi, cosa vedi? Come immagini tuo padre? Dentro al tuo sguardo incontro la voglia di chiedere che soffoca dentro un sospiro. Mi avvicini, ti strusci a me come un gatto, insinuandoti tra le braccia per farti abbracciare e mi chiedi dieci, cento, mille volte se ti voglio bene. Ma certo che ti voglio bene amore mio. Hai presente quante stelle ci sono nell’universo? No, non puoi saperlo, non lo sa nessuno, in realtà. Immagina però di poterle contare e di avere un’astronave potentissima che ti permetta di andare oltre i confini del nostro sistema solare. E che arrivata lì, scopriresti che esistono altri universi e altre stelle, milioni di galassie e che i numeri a tua disposizione non finissero ancora. Bene, ti accorgeresti che tutto questo non basterebbe ancora a darti una misura del bene che ti voglio. 
Tu però socchiudi gli occhi e adagi la testa nell’incavo tra la mia spalla e il collo. Ti accarezzo i capelli e non dico più niente. Ti bacio ogni singolo filo di rame e faccio quel shhh sottilissimo e lunghissimo che facevo quando eri piccolissima per farti addormentare. Ma tu non dormi e rimani un po’ tra le mie braccia. Solo qualche attimo ancora prima di sparire tra le tue cose. 

Stai passando un brutto momento, mi hai detto. Perché hai il sospetto di una cosa e alcune tue amiche te ne hanno parlato e tu devi aver pensato che se te lo chiedono anche loro allora quella cosa non è più solo nella tua testa. È nelle teste e nelle vite anche di altre persone. E per questo deve essere probabilmente vera. Ma come chiedere a tuo padre di raccontarti perché la ragazza che ti era piaciuta così tanto, con la quale avevi legato, pensato potesse diventare la tua migliore amica, la stessa che ti aveva abbracciato e fatto sentire capita, amata, importante e unica, ora non è più solo tua? Allora resti in silenzio. Lasciando che quei pensieri passino dalla testa alla pancia, diventando sassi nello stomaco.
Amore parlami, dimmi cosa ti tormenta. “No, papi, non posso dirtelo”. E ci lasciamo alle spalle un’altra giornata della quale rimane il sospetto di non averti dato ciò di cui hai bisogno: parole, conforto, certezze. Ma l’amore è l’unico solvente col quale so sciogliere la paura.  E finisco per raccontarti come faccio forse troppo spesso, che dove c’è amore non può esserci paura, né tormento, né nulla che possa avere la faccia del male. E senza accorgemene ti sto dicendo ancora una volta che ti voglio bene e che ci sarò sempre. E faccio ben attenzione a non usare un però né un ma nel passaggio tra una frase e l’altra e aggiungo che voglio bene anche ad Agata. Le voglio bene e te lo dico con la stessa naturalezza con la quale ti racconterei una giornata al mare. E tu mi ascolti e abbassi gli occhi a terra, a fissare una mattonella del pavimento. E ti stringo forte e so che forse ti sto spezzando il cuore e ti tengo stretta per tenerlo insieme e non permettergli di cedere. Ti dico che lei ne vuole a me e ne vuole anche a te e so che, anche se ora ti sembra più difficile, tu ne vuoi a lei: te l’ho letto negli occhi così tante volte, da non aver alcun dubbio a riguardo. 

Poi rimaniamo fermi in una posa che mi riporta in testa un tuo padre più giovane e con i capelli più lunghi e tu che parevi uno di quegli animaletti appena nati, con gli occhi chiusi e nessun muscolo. Rimaniamo così fino a quando non ti senti forse colma dell’amore che ti sto riversando addosso e che ti bagna tramite le lacrime che ti raggiungono i capelli. Tu non ci fai quasi caso e mi chiedi “papà ma tu mi vuoi bene?” e io ti rispondo “hai presente quante stelle ci sono in cielo…” 

Sogna, ragazzo, sogna

Cara E,
abbiamo saputo che ultimamente ti stai chiedendo chi lasci davvero i regali nei cassettini del tuo calendario dell’avvento, perché qualcuno ha insinuato il dubbio. È una cosa triste. Sai, ogni volta che un bambino smette di credere in noi, non riusciamo più a entrare nella sua casa. Sappiamo che ti stai chiedendo perché veniamo a farti visita da così tanti anni nel periodo di Natale e perché, allo stesso tempo, non abbiamo mai visitato le case dei tuoi amici. Purtroppo non è una cosa che scegliamo noi. I bambini del mondo scelgono se aprirci i loro cuori, che sono le porte attraverso le quali troviamo la luce per muoverci al buio delle stanze, le chiavi grazie alle quali apriamo portoni, palazzi, fortini moderni. Tu hai scelto di credere, e questo ha creato la strada per arrivare fino al tuo calendario.
Chi c’è davvero dietro quel cioccolato, quelle caramelle, quei piccoli doni colorati che scopri ogni mattina al tuo risveglio è una domanda che solamente chi ha il cuore fermo può farsi. Cosa è vero? Cosa non lo è? Non fartelo mai spiegare da chi guarda il mondo solo attraverso gli occhi. Perché ha deliberatamente deciso di perdere una porzione di realtà che non sarà mai più in grado di afferrare.
Credi invece al tuo cuore e non dar retta a chi prova a condizionare i tuoi sogni. Il tuo cuore ha sempre ragione e tutte le favole, proprio tutte, sono vere. Sono vere finché tu le tieni in vita. 
Crescerai, stai già crescendo, diventerai presto una bambina matura, poi un’adolescente e poi una giovane donna. Le favole non ti abbandoneranno, cresceranno con te, trasformandosi con te. Un po’ alla volta si allontaneranno dalla fantasia diventando emozione, saranno una parte della tua essenza, la maniera in cui penserai e farai le cose di ogni giorno. 
Le tue favole di ieri e di oggi diventeranno reali; la forza di cui avrai bisogno, la sensibilità che ti servirà per voler bene, amare. Allora potrai smettere di credere, ma non sarà più importante. Perché la magia e la sorpresa ti avranno già resa una persona migliore. Troverai la tua lettura di ogni favola e ogni riga, ogni istante delle storie che avrai abitato diventerà metafora di bellezza, giustizia, coraggio. Simbolo del tuo saper vivere il mondo senza allontanarti dall’azzurro di tutte le cose possibili. Tu sarai dentro ogni fiaba, sarai il lupo e la principessa, la pianta di fagioli più alta che si sia mai vista, sarai un cane capace di volare e forse anche una fatina dispettosa, sarai tutti loro. 
Sarai capace di credere, saprai vedere una soluzione per tutte le cose, un rimedio per ogni tristezza, un piccolo miracolo dentro ogni gesto.
Saranno così tante e belle le cose che ti capiteranno da non riuscire più a distinguere quelle vere da quelle magiche. Ma cosa importa. Tutte le favole sono magiche. Tutte le favole sono possibili. Allora sono possibili anche le magie e se sono possibili sono vere. 
Non saranno le bacchette o le formule a farle capitare, sarai tu. Saranno le persone che il tuo cuore ha scelto, sarà tutta la fame d’incanto che stai nutrendo adesso e che non ti stancherai mai di alimentare.
Hai il diritto di continuare a crederci. E noi ti saremo sempre grati per averci ospitato e per continuare a farci vivere nel tuo cuore. Solo tu hai reso possibile tutto questo. Sogna più forte che puoi, chiudi gli occhi e resta in ascolto: li senti i nostri passetti felpati?

Ti vogliamo bene.
I tuoi amati Elfi  

Un bene dell’anima

Ho conosciuto Antonello a Lettere, il primo giorno. Eravamo in pochi, noi due stavamo a qualche posto di distanza e durante una pausa abbiamo cominciato a chiacchierare. Ci siamo incontrati alla lezione successiva, poi a quella dopo. In aula, al quarto appuntamento, si è aggiunto Gianluca. “È simpatico, è milanese”, Antonello me l’ha presentato così. Gianluca invece era di Pesaro, sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, oltre che coinquilino dei sette anni che seguirono. È stato lui a rivelarci, sbalordito e divertito, che il corso che stavamo seguendo ormai da due settimane non era quello che pensavamo. Avevamo confuso le aule e i docenti, senza renderci nemmeno conto che gli argomenti trattati erano lontanissimi da quelli che avremmo dovuto aspettarci. Continuammo comunque a frequentare, entrambi. Più per comodità che per reale convinzione.

Antonello era di Roma, abitava a San Giovanni, con i suoi. Veniva da noi ogni volta che poteva, a pranzo o a cena, a bere il caffè della nostra moka, a fare niente. Frequentava casa nostra come fosse sua; credo lo fosse. Non sono mai entrato completamente nel suo mondo, come esistesse una diga tra la nostra acqua e quella che scorreva nel tempo lontano da noi, ma questo non ha mai impedito alle nostre anime di abitare le stesse stanze. Lui invece conosceva perfettamente il nostro mare, al punto da sentirsi un fuorisede, come noi. 
Dopo la laurea, ci ritrovammo quasi inconsapevoli a fantasticare il Sudamerica. Non dimenticherò mai il giorno in cui andammo in motorino alla biglietteria delle Aerolineas Argentinas, in via Cavour. Negli astucci celesti un biglietto per Buenos Aires e uno di ritorno da Lima, piantato a quasi due mesi di distanza

Ti accompagno a scuola, piove e c’è traffico. La macchina copre l’asfalto a singhiozzi. Sonnecchi, accendo la radio. La voce di Lorenzo ti sorprende, ti cattura, ormai lo riconosci, anche nelle canzoni che non hai mai ascoltato. 
Che cos’è un amico, nessuno lo sa dire.  
Mi sorprendo anch’io, impantanato come sono a pensare queste cose.

Non vedevo Antonello da qualche anno quando quest’estate l’ho incontrato a Barcellona. Una telefonata, un appuntamento, un treno, un abbraccio lungo abbastanza da colmare gli anni trascorsi. E poi una giornata al sapore inconfondibile di ricordi e affetto. 
Lui vive lì, insieme a una ragazza col sorriso negli occhi. Sono belli insieme. Sono belli anche quando non sono insieme, accesi da una bellezza comune, che traspare in ogni cosa che pensano o fanno. Ho visto la loro casa, abbiamo mangiato insieme, ci siamo commossi rincorrendo i fotogrammi del viaggio tenuti in serbo per momenti come questo, svegliando la memoria e resuscitando i ragazzi che eravamo. 
Il giorno dopo io avrei cominciato il mio cammino verso Santiago. Prima che salissi di nuovo sul treno ci siamo abbracciati. Forte. Più forte. Mi ha detto  “buona fortuna”, solo questo. Valeva però come “buon viaggio”, come un “ci sentiamo”, oppure, senza sentirci, “ci incontriamo nei pensieri belli”. Valeva come “ti voglio bene”. Davvero. Credo si possa applicare al  bene, a volte, la stessa logica che si applica al dolore; lieve è quello che ha voce, grave quello muto.
Mi sono sentito al suo fianco proprio ieri, mentre leggevo una sua mail: nel suo racconto ho visto chiaramente la sua espressione, sempre uguale, solo un’insignificante manciata di anni in più e la preoccupazione di non sapere se ha fatto abbastanza a piegare un po’ la pelle intorno agli occhi e sulla fronte. Mi sono chiesto se gli ho mai raccontato davvero chi sono, come sto, cosa faccio. Gli ho parlato abbastanza di te?

Tu mi guardi, annuisci come se stessi leggendomi la mente e la memoria, io ti amo e spero che la mia espressione sappia comunicartelo. Sono così, ho l’ansia di saperti piena del mio bene, di  vederti sorridere davanti alle cose buffe che metto in scena per te, come quando eravamo a Parigi e in metro ho cominciato a urlare “sono stanco, non ce la faccio più, ti prego portami in braccio”, prima che tu potessi iniziare la tua lagna ormai nota. Ridevi, riconoscendoti nella mia esibizione, ridevi e ridevi, a me veniva da piangere. L’ansia di farti vedere un film della mia infanzia, e scoprirti a distanza di settimane fare ancora la mossa della gru di Karate Kid, o ripetere fino allo sfinimento una battuta che ci aveva fatto tanto ridere. 
Ho l’ansia di sorprenderti, sbalordirti al telefono quando ti chiamo e a volte, prima di dirti “ciao”, ti ripeto a memoria una frase della lettura che ti ha assegnato la maestra, sulla quale ti stai esercitando proprio in quel momento. No piccola, non ho poteri magici. Devo confessarti che c’è un gruppo whatsapp di scuola, nel quale ogni tanto una mamma chiede ai genitori di pubblicare la foto della lettura del giorno perché magari il figlio era distratto, o malato.

Sai, tesoro, adesso, in questa macchina, sul finire di questa canzone, mi sale una nuova ossessione. Voglio che la vita ti riservi amici come i miei. 
Come Antonello che vive a Barcellona, ma è come se abitasse ancora alla Caffarella. 
Come Gianluca, che si è appena trasferito a Mosca e mi manda foto della tomba di Gagarin, dimostrandomi di essere lontanissimo, eppure nello stesso luogo in cui sono io quando una notifica mi avvisa del fatto che mi sta pensando, che mi conosce come pochi, che non smette di  percorrere la nostra strada comune. 
Come Liberato che è a Londra da una vita, e ogni santa volta mi chiama dicendo “come stai?” al posto di “pronto”. Lui che una volta ha preso un aereo per capire cosa mi succedeva, e ha cenato da solo nella mia cucina perché io non avevo la forza di affrontare quella giornata, e mai, mai me l’ha ricordato. Lui che per i miei trent’anni mi ha regalato la colonna sonora della nostra storia, tutte le note, non una in meno, del nostro conoscerci. E adesso, a distanza di dieci anni, quel disco è incorniciato e poggiato sulla scrivania, pronto a uscire da questa casa e seguirmi ovunque andrò. Liberato quest’anno compirà quarant’anni, e io in fila a seguirlo, anche se non so se sono pronto e mi sento ancora il ragazzino al binario che lo portava in aeroporto e lo salutava col pugno alzato cantando in mezzo alla gente “fratello non temere che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria”, come c’entrasse davvero qualcosa. Chissà se lui se lo ricorda. Se sa che in ogni istante dei quasi 33 anni che ci conosciamo e di tutti quelli che verranno per me ne ha sempre avuti cento e ne avrà sempre solo sette.
Vorrei prometterti amici come quelli che ho io, irrinunciabili. Vederli crescere al tuo fianco, schierati dalla tua parte. Amici che ti stiano vicino, dentro. 
Amici capaci di essere te, ogni volta che tu non sai più chi sei. 

Arriviamo, scendo per primo e vengo ad aprire il tuo sportello. Le tue compagne riconoscono la mia macchina, ti salutano come se non ti vedessero da mesi, ti aspettano. Penso non sia necessario desiderare o prometterti niente. Hai già la tua vita, il tuo modo speciale di essere te stessa, riempi stanze di cuori e amore. Qualche giorno fa eri al parco, una tua amica stava piangendo, le sei andata vicino e le hai detto “adesso pensiamo intensamente a qualcosa di bello”. Eccolo il segreto dell’amicizia. L’hai scoperto. Dovremmo scrivere a Lorenzo questa sera, per farglielo sapere. 

Scendi dalla macchina, ci salutiamo. Ogni volta che ti lascio davanti scuola, tu mi baci distratta. Mentre stai entrando io ti chiamo e ti chiedo di darmi un bacio più forte, poi un altro e un altro ancora, fino a quando mi dici “papi devo andare”. La mia espressione supplichevole ti spinge di nuovo verso di me, un ultimo velocissimo bacio che si perde nel sorriso che ti stampi sulla bocca e ti porti in classe. Hai mai saputo che, dopo che sei entrata, rimango un sacco di tempo davanti scuola a guardare le mattonelle dell’atrio che hanno visto i tuoi passi un attimo prima? 

Come mai un casino sembra un posto perfetto.
Quanto abbiamo riso, e quanto rideremo.

Tutto tu vuoi

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo. Forse lo sei davvero. Questa bambina si chiama Ah. 
Proprio così, Ah. Come uno sbadiglio, come la prima nota di una risata, come dire “ho capito”. È un nome tra i sogni, la felicità e l’intelligenza. Secondo me è un nome bellissimo, e se fossi stato meno tradizionalista, se avessi avuto meno anni, idee più folli e l’ardire di seguirle, se tua madre non avesse saputo da sempre il tuo nome, adesso anche tu potresti chiamarti così.

Ah è nata in un giorno di pioggia sottilissima, aghi d’acqua tanto fini e innocui che non riuscivano a bagnare nessuno. Quel giorno il sole è sorto alle cinque e quarantasette minuti e tramontato inspiegabilmente due ore più tardi rispetto a quanto riportava l’almanacco. In quelle due ore Ah è rimasta quasi immobile nella sua culla, la sua mamma guardava oltre la finestra aspettando che la luce calasse, il suo papà guardava il suo cuore ormai perso, addormentato nel piccolissimo torace di Ah. Anch’io ho fatto questo nel tuo primo giorno di vita; guardavo te, instancabilmente, e guardavo il mio cuore scindersi come un atomo, diventare tuo, e crescere crescere. Crescere.
Ah non ha un’età precisa. Non è possibile stabilire quanti anni siano trascorsi dalla sua nascita. Fino al suo terzo compleanno ci sono state torte con candeline rosa, poi non più. Poi i pensieri e le parole di Ah hanno cominciato a evolversi in maniera spropositata, non appartenevano più a quelli di una bambina della sua età, non potevano essere contenuti in un numero. Cinque, sei, sette anni, nessuna di queste lancette le apparteneva. Tutto ciò che faceva era così stupefacente da non poter essere misurato, controllato. Il tempo non era più necessario. Lei ragionava con la saggezza di ottanta lune, comprendeva ciò che ai bambini viene celato, per proteggerli, si dice serva a proteggerli. Osservava apparentemente indifferente comportamenti che sarebbe stata presto in grado di ripetere con la precisione di un liutaio. Imparava termini mai usati da nessuno, disegnava mondi sconosciuti, abitati dalle persone a cui voleva bene. Disegnava enormi barche di zucchero e tendoni del circo in fiera nel cortile della sua casa. Al timone suo padre. Sul filo, sospeso tra una nuvola e una stella a trenta punte, suo padre. Marinaio ed equilibrista. E medico, dottore di tutte le malattie curabili con le caramelle. 
Ecco, queste cose possono sembrare sciocche. Ecco, non lo sono. Queste cose sono le stesse che fai tu, e credo le stesse che faccia ogni bambino del mondo, ma tu le fai meglio. Ogni bambino le fa meglio. 
Ogni bambino dal niente genera mondi irrazionali, eppure di quei mondi sa dire, raccontare, spiegare, con una logica convincente al punto da lasciare senza fiato il più illustre rettore universitario. Ogni bambino ha fermato il tempo il giorno in cui è nato. Tutti i bambini hanno rallentato la rotazione terrestre consentendo al sole di splendere più a lungo. È da qui che nasce l’espressione venire alla luce, non si tratta solo della luce fuori dal pancione delle loro mamme, è una luce speciale, un bacio dal cielo alla culla, lungo il tempo che serve a capacitarsi di quanto possa essere eccezionale il miracolo che avviene da sempre, eppure non riesce a perdere neanche una sfumatura d’ombra dello stupore che si trascina dietro a ogni respiro, passo, gesto.

Ti racconto questa cosa. Ah un giorno era a casa, era pomeriggio, sua madre le stava preparando il pane con la confettura di albicocche, le piacciono molto le albicocche. Suo padre non stava bene: solo un po’ di febbre, qualche starnuto. Ad Ah era stato detto di non avvicinarsi a lui, avrebbe potuto ammalarsi. Camminava appena, instabile, i passi strani dei cuccioli, che sollevano troppo le ginocchia e sembrano avanzare come muovendosi nel cerchio di una danza africana. Con quei passi è andata verso la stanza del suo papà, sua madre a rincorrerla per portarla indietro, invece non ce n’è stato bisogno. Ah si è fermata davanti alla porta, l’orecchio teso fino all’istante in cui un colpo di tosse è riuscito a sovrastare il volume basso della televisione, allora si è voltata, “tosse”, ha detto, l’espressione vagamente contrita andava trasformandosi in sollievo. “Tosse solo”, ha pronunciato queste due parole come a stabilire che era tutto a posto, tornando in cucina e sedendosi sullo sgabello, finalmente serena. Non so cosa siano le malattie per i bambini, un pericolo suppongo, intuiscono l’ipotesi degenerativa che si cela dietro quel termine, quella condizione. So che la premura e la dolcezza di Ah, che senza entrare, senza disturbare, si accerta che il suo papà sia malato ma ci sia, che stia bene in fondo, che la sua sia solo tosse, per me è una cosa così grande, dolce, così piena di protezione, interesse, e potrei andare avanti e riempire pagine di aggettivi, ma non lo farò. Dirò solo che per me sei tu, i tuoi baci piccolissimi, infiniti, pronti, come urgentissimi. La tua capacità d’intuire, sapere qual è il momento in cui quei baci mi servono davvero, e mi servono così tanto che non ricordo più di che colore fosse il mare, che sapore avessero le arance prima dei tuoi baci. 

Lascia che ti racconti ancora qualcosa. Ah ogni tanto canta qualche strofa della canzone preferita di suo padre, anche tu lo fai. È normale, va bene, facciamo finta che sia normale, ma non lo è. Ti piacciono canzoni diverse da quelle che ascolto io, eppure di tanto in tanto mi concedi di ascoltare dalla tua voce, che lo sai, è la mia voce preferita in assoluto, la versione live della colonna sonora di un pezzetto della mia vita. Non è normale quello che mi succede, non è normale come mi sento, dura un istante, un momento di comunione tra te, me e chi sono stato prima ancora che tu esistessi. Quell’istante non è normale.
Ah ha i suoi gusti, oltre alle albicocche le piacciono molto il cioccolato e la polenta che fa sua nonna in inverno, che è anche il piatto preferito di suo padre. Tu hai i tuoi gusti, ti piacciono le patatine e il gelato, non ti piace il cocomero. Allora, il cocomero piace a tutti. A tutti. È grande, tondo come un pallone da spiaggia, verde come una zebra se le zebre facessero la fotosintesi, e poi è rosso, dentro è sorprendentemente rosso, questo basta a renderlo fantastico. Poi c’è il fatto che il cocomero non lo trovi dal fruttivendolo tutti i giorni, come le carote, no, devi aspettare l’estate, il caldo, la fine della scuola, allora il cocomero diventa prezioso e spensierato, freschezza dopo tanto sudare. Il cocomero piace a tutti, per forza. Ma a te no. E neanche a me. Capisci? Vogliamo tornare a dire che è normale anche questo? Va bene. È normale. È normale solo se non sei un padre però. Altrimenti è magia, è qualcosa di mio che è cresciuto dentro te, qualcosa che non potevo immaginare fino al giorno in cui hai rifiutato quella fetta rossa e hai fatto la stessa faccia che credo di aver fatto io la prima volta in cui qualcuno mi ha messo davanti un cocomero dicendomi di assaggiarlo. Dicendomi che era buono, troppo buono.

Ah, e questo non è il nome di quella bambina. Ah adesso è il mio sbadiglio, il prologo di ogni volta che sogno di averti con me, è la prima nota della mia risata quando mi rendo conto che non ho bisogno di sognare, tu ci sei. 
È la parte più vera di me che comprende quanto meravigliosa sia la vita. Ah, ho capito. È questo il senso di tutto.
La tua vita, e la mia dentro la tua.

Favole al telefono

C’è una cosa che non ti ho mai raccontato. È una cosa di cui non so se vergognarmi. Durante il mio ultimo periodo a casa con voi ero così confuso da non sapere cosa sarebbe successo nell’intervallo di pochi minuti. Vivevo una vita sospesa, come in attesa che accadesse qualcosa o che qualcun altro potesse decidere per me la cosa giusta da fare.
Non te lo ricorderai perché eri troppo piccola o forse un giorno, sorprendendomi per l’ennesima volta, mi racconterai di come hai vissuto quei giorni terribili.
Durante quelle sere, ti mettevo sempre io a letto. Tu sceglievi meticolosamente un libro dalla libreria e io mi sedevo sulla poltrona e cominciavo a leggere.

Ecco, la cosa che volevo raccontarti è questa. In quelle sere prima di dormire io registravo la mia voce che leggeva le tue storie preferite. Non so esattamente per quale ragione. Certo non avrei immaginato che un giorno quelle registrazioni mi avrebbero fatto compagnia.
Nel tempo questa cosa era finita chissà dove nei ricordi e l’avevo quasi rimossa. Me ne sono ricordato improvvisamente qualche giorno fa.
Stavo facendo un trekking sui Lucretili e mentre percorrevo gli ultimi 2 chilometri verso la vetta del Monte Gennaro, nel folto di un tratto di foresta, mi è venuta improvvisamente in mente.
Ho percorso l’ultimo pezzo arrancando un po’ e accusando un dolore lato alla gamba sinistra ma sono arrivato in cima senza troppa fatica.
In vetta non c’era nessuno. Mi sono arrampicato sul cubo di sassi e cemento che sorregge la croce di ferro e seduto sul ciglio. C’era vento e anche se faceva caldo si stava bene. Con le gambe penzoloni e l’orizzonte sterminato tutto intorno, ho rovistato nello zaino per trovare il telefono. Mi sono ficcato le cuffie nelle orecchie e, scalando una selva di messaggi vocali mai inviati, ho finalmente trovato i file che cercavo e premuto play su “Zeb”.

La storia è incentrata su una piccola zebra che va al campo estivo per la prima volta nella sua vita. È sconsolata e triste perché dovrà lasciare i suoi genitori e teme di non farcela a stargli lontano per così tanto tempo. La mamma e il papà hanno allora l’idea di imprimere i loro baci sui dei foglietti che arrotolano come caramelle e ficcano dentro una scatola. Così, ogni volta che Zeb sarà triste, potrà tirare fuori dalla scatola un bacio-caramella e sentirsi meno lontano da casa. La cosa funziona a tal punto che durante la prima notte di viaggio, non solo Zeb ma l’intera compagnia di zebre usa i baci-caramella per consolarsi e sopravvivere alla malinconia.
La mia voce nelle cuffie legge l’ultima frase del libro e poi ti dice “Adesso si dorme” e la tua risponde “ma è già finita? Era troppo corta”, poi la registrazione si interrompe.

Mi sfilo le cuffie dalle orecchie. Il vento mi soffia in faccia ricordi e tristezza. Chissà a chi apparteneva la voce che leggeva quella favola, chissà che pensieri si portava dietro. Pur avendo quasi dimenticato quella favola, devo aver interiorizzato a tal punto i suoi precetti da farli miei. Non so nemmeno dire quante volte in questi due anni ti ho sentita dire “papà quando sono con te mi manca mamma e quando sono con lei mi manchi tu”. Una domanda alla quale rispondo sempre allo stesso modo: anche tu mi manchi tesoro, ma nei pensieri di mamma e papà tu ci sei sempre, anche quando non siamo con te. Esattamente come noi siamo sempre nei tuoi, non lo scordare mai.