Settembre

Cosa stai passando in questo momento? Come ti senti, cosa vivi, cosa vedi? Come immagini tuo padre? Dentro al tuo sguardo incontro la voglia di chiedere che soffoca dentro un sospiro. Mi avvicini, ti strusci a me come un gatto, insinuandoti tra le braccia per farti abbracciare e mi chiedi dieci, cento, mille volte se ti voglio bene. Ma certo che ti voglio bene amore mio. Hai presente quante stelle ci sono nell’universo? No, non puoi saperlo, non lo sa nessuno, in realtà. Immagina però di poterle contare e di avere un’astronave potentissima che ti permetta di andare oltre i confini del nostro sistema solare. E che arrivata lì, scopriresti che esistono altri universi e altre stelle, milioni di galassie e che i numeri a tua disposizione non finissero ancora. Bene, ti accorgeresti che tutto questo non basterebbe ancora a darti una misura del bene che ti voglio. 
Tu però socchiudi gli occhi e adagi la testa nell’incavo tra la mia spalla e il collo. Ti accarezzo i capelli e non dico più niente. Ti bacio ogni singolo filo di rame e faccio quel shhh sottilissimo e lunghissimo che facevo quando eri piccolissima per farti addormentare. Ma tu non dormi e rimani un po’ tra le mie braccia. Solo qualche attimo ancora prima di sparire tra le tue cose. 

Stai passando un brutto momento, mi hai detto. Perché hai il sospetto di una cosa e alcune tue amiche te ne hanno parlato e tu devi aver pensato che se te lo chiedono anche loro allora quella cosa non è più solo nella tua testa. È nelle teste e nelle vite anche di altre persone. E per questo deve essere probabilmente vera. Ma come chiedere a tuo padre di raccontarti perché la ragazza che ti era piaciuta così tanto, con la quale avevi legato, pensato potesse diventare la tua migliore amica, la stessa che ti aveva abbracciato e fatto sentire capita, amata, importante e unica, ora non è più solo tua? Allora resti in silenzio. Lasciando che quei pensieri passino dalla testa alla pancia, diventando sassi nello stomaco.
Amore parlami, dimmi cosa ti tormenta. “No, papi, non posso dirtelo”. E ci lasciamo alle spalle un’altra giornata della quale rimane il sospetto di non averti dato ciò di cui hai bisogno: parole, conforto, certezze. Ma l’amore è l’unico solvente col quale so sciogliere la paura.  E finisco per raccontarti come faccio forse troppo spesso, che dove c’è amore non può esserci paura, né tormento, né nulla che possa avere la faccia del male. E senza accorgemene ti sto dicendo ancora una volta che ti voglio bene e che ci sarò sempre. E faccio ben attenzione a non usare un però né un ma nel passaggio tra una frase e l’altra e aggiungo che voglio bene anche ad Agata. Le voglio bene e te lo dico con la stessa naturalezza con la quale ti racconterei una giornata al mare. E tu mi ascolti e abbassi gli occhi a terra, a fissare una mattonella del pavimento. E ti stringo forte e so che forse ti sto spezzando il cuore e ti tengo stretta per tenerlo insieme e non permettergli di cedere. Ti dico che lei ne vuole a me e ne vuole anche a te e so che, anche se ora ti sembra più difficile, tu ne vuoi a lei: te l’ho letto negli occhi così tante volte, da non aver alcun dubbio a riguardo. 

Poi rimaniamo fermi in una posa che mi riporta in testa un tuo padre più giovane e con i capelli più lunghi e tu che parevi uno di quegli animaletti appena nati, con gli occhi chiusi e nessun muscolo. Rimaniamo così fino a quando non ti senti forse colma dell’amore che ti sto riversando addosso e che ti bagna tramite le lacrime che ti raggiungono i capelli. Tu non ci fai quasi caso e mi chiedi “papà ma tu mi vuoi bene?” e io ti rispondo “hai presente quante stelle ci sono in cielo…” 

La valigia

Questa città, il paese dei tuoi nonni, casa mia, casa di tua madre, il mercoledì e il giovedì, i fine settimana alterni, gli oggi però, i domani da un’amichetta, il cinema, il pattinaggio, poi doccia e subito a letto e la cena? La cena, è vero. I giocattoli da me, quelli che non sappiamo più dove mettere e regaliamo di nascosto perché se te ne accorgessi ne faresti una tragedia, i grembiuli di scuola, lo zaino con le rotelle (e per fortuna), la cintura di sicurezza (amore, te l’allacci da sola?), la merenda, la spesa, il cappotto, la sciarpa, il cappello che fa freddo, la canottiera (amore, mettiti la canottiera nei pantaloni, per favore). 
Sei innegabilmente una bambina con una valigia in mano. Un po’ lo sono tutti i bambini. Eternamente scarrozzati da una parte all’altra del quartiere, della città, del mondo per riempire ore e mezze di attività sportive, ludiche, ricreative, sociali, scientifiche, linguistiche, emozionali, comportamentali, agonistiche, ingegneristiche, spaziali. La tua valigia è mediamente piena di piccoli oggetti che scegli con cura nello spostarti da una casa all’altra. Un quadernino, una penna, qualche peluche preso solo apparentemente a caso dal cassettone dei peluche che hai sotto al letto, un binocolo o una lente di ingrandimento, uno squishy, un gioco da tavolo, delle carte, qualche volta una barbie o una lol, delle figurine, altri pupazzi senza nome. Tutte cose che rimangono regolarmente nella sacca in cui le hai infilate, adagiate accanto alla porta e che, mi rendo conto, servono probabilmente come àncora tra una casa e l’altra. Prima di dormire – è una cosa alla quale ormai sono abituato (ammesso che ci si possa davvero abituare a questo) – mi dici spesso “mi manca mamma”. Io sminuisco senza farlo davvero. Ti prendo un po’ in giro. Poi ti consolo dicendoti “ma la vedrai domani/dopodomani” oppure ti passo il mio telefono e ti dico di chiamarla. Tu mi permetti di consolarti e qualche volta, qualche volta soltanto, dici “quando sono con te mi manca lei e quando sono con lei mi manchi tu”. Io a questo non ho mai imparato a rispondere e non imparerò probabilmente mai. Fingo di non essere colpito, ti racconto storie di bambini che hanno genitori che vivono o lavorano lontano, che vedono davvero raramente. Provo a farti ragionare sulla fortuna che hai nell’avere due genitori uniti, solidali, vicini, di quanto tu possa stare con me o con tua madre senza limitazioni o privazioni, di quanto sia bello poter fare qualche volta anche cose insieme, di quanto tutto questo non sia affatto scontato anche in una famiglia normale. Raramente mi sembri soddisfatta, forse un po’ rassicurata, non soddisfatta.
Nei giorni successivi a quelli in cui sei da me, ripercorro le stanze di casa osservando il tuo fantasma che saltella tra il salotto e la cucina, che si raggomitola sul letto per guardare un cartone animato, che appare all’improvviso alle mie spalle mentre sto lavando i piatti per farmi “bu!”, che è in bagno interminabili ore per fare la cacca, seduto alla scrivania in una posa da contorsionista per fare i compiti. Raccolgo le cose che hai lasciato sparse in giro, sistemo i disegni che inevitabilmente (e per fortuna) hai lasciato e qualche volta trovo qualche sorpresa. L’altra mattina, per esempio, passavo l’aspirapolvere in camera e nella fessura tra la parete e l’armadio ho trovato un pacchetto di confetti. Non c’era finito per caso, lo avevi nascosto tu, proprio lì. Sono confetti alla menta a forma di gessetti (uguali uguali a quelli che servono per scrivere alla lavagna). Te li hanno lasciati gli elfi in una delle caselle del tuo calendario dell’avvento. Eri un po’ delusa perché quando li hai assaggiati hai scoperto che erano alla menta. Mi sono immaginato che avresti voluto portarli a scuola, mostrarli orgogliosa alle tue amiche, inscenare una scenetta divertente nella quale li avresti presentati come gessetti per scrivere e poi davanti allo sconcerto generale ne avresti morso uno. La menta rendeva impossibile tutto ciò. Così me li hai lasciati a casa, spiegandomi che, in fondo, gli elfi non possono sempre indovinare. A me questo è bastato per pensare che quel sacchetto trasparente fosse a mia disposizione. Tanto è bastato anche ad Agata che, a dire la verità, me li aveva lasciati perché potessi farteli avere tramite gli elfi e che di suo ne andava già matta. È per questo che dopo qualche giorno hai ritrovato il pacchetto sulla mia scrivania decimato della metà dei gessetti. L’hai visto, hai pesato l’entità del danno sul palmo della mano e hai fatto quella faccia che fai quando vuoi fingere di essere arrabbiata. Hai detto quel “papi” con la a lunghissima e mi hai spiegato che gli elfi li avevano portati a te i gessetti, non a me. Mi hai fatto uscire dalla stanza e quando sono rientrato i gessetti erano spariti. 
Ecco, te lo scrivo qui. Magari lo leggerai tra qualche anno, quando i gessetti saranno scaduti. Nel frattempo li ho solo spostati per passare l’aspirapolvere. Poi li ho rimessi lì. Prima però ne ho mangiato uno. Uno solo, davvero.

La guerra è finita

Eravamo al parco. Quello attorno al cinema, vicino alla nuova casa che tua madre ha scelto per voi due. Tu avevi appena iniziato a girare allegramente su una macchina a pedali, percorrendo il tracciato immaginario che io ti avevo indicato dopo aver lasciato la mia carta d’identità all’omino del noleggio. Quello, vedendoti partire, ti ha urlato dietro “è vietato andare sull’erba” e tu, che sei ligissima alle regole, hai notato che nel mio circuito c’era un tratto sull’erba, fermandoti e rimanendo perplessa sul dove andare.
Avevamo appena finito l’aperitivo al bar. Tua madre aveva preso un cocktail alla frutta disgustoso, io uno spritz campari e tu un gelato e le patatine. Così mentre percorrevi il tuo circuito immaginario, ne ho approfittato per andare a fare la pipì. Ho aspettato passassi davanti alla nostra tribuna d’onore, ho finto una specie di ola, tu hai fatto ciao con la mano, lasciando che la tua macchina sbandasse un po’ e poi sono andato.

Quando sono tornato ho visto tua madre che parlava con un uomo. Non lo avevo mai visto prima ma non mi ci è voluto molto per capire dal tono e dallo sguardo che ci stava chiaramente provando. Mi sono avvicinato, con la camminata da bullo, mentre fingevo una fintissima nonchalance. Lui mi ha guardato arrivare, con la faccia di chi si chiede “chi sarà questo?”, tua madre ha detto solo il mio nome e io gli ho lasciato tendere la mano e tenerla sospesa per un tempo lunghissimo mentre guardavo te e ti incitavo inutilmente in una gara che vedevo solo io. Poi gliel’ho stretta, continuando a tenere gli occhi su di te che nel frattempo urlavi “vado velocissimo papà!”

Il tizio allora ha continuato a parlare con tua madre, piazzando se stesso in un ipotetico appuntamento futuro. Io mi sono allontanato di qualche passo e mentre con gli occhi ti seguivo, con le orecchie ero dentro la loro conversazione. Gli ho sentito dire “dai, ti scrivo, ci aggiorniamo, sì, va bene, facciamo nei prossimi giorni”. Poi è andato via. Tua madre allora mi si è avvicinata e mi ha chiesto se fosse ora di riconsegnare la macchina a pedali mentre tu ti addentravi sul pezzetto di percorso sull’erba con la faccia di chi stava rubando una caramella. Io ho risposto “quello ci stava provando”. Lei ha sorriso, del sorriso che le illumina il viso da quando è nata, e ha sussurrato soltanto “dici?”. Io ho finto sicurezza e aggiunto “non sono nato mica ieri?”. Lei ha guardato verso l’orizzonte, socchiuso gli occhi e sussurrato “tu no, ma io sì”. 

Così, mentre venivo a disincastrarti dalla macchina a pedali, ho pensato che avevo appena conquistato una delle vette più alte della mia vita: poter parlare con tua madre senza imbarazzo, ormai lontani dal nostro campo di battaglia, di altri uomini e donne. E ora, mentre ti scrivo, me la immagino mentre mi legge sotto la luce leggera di una lampada da tavolo e sorseggia piano la sua tisana. Poi, termina il racconto, sorride, prende il telefono e mi scrive un messaggio su whatsapp: “carino il nuovo racconto!”.

Sei il mio vice-sceriffo preferito!

Fare il padre è il mestiere più difficile del mondo. Quando poi sei un genitore separato, tutto è più complicato perché il tempo che passo con te sto con te senza interruzioni, senza distrazioni. Quando si è in due, uno dei due può permettersi il lusso delle pause. Quando si è soli, tutto è più complicato. Lo è, a maggior ragione, quando il rapporto è inframmezzato da giorni di distanza, in cui non ci vediamo. Il tempo che passiamo insieme deve colmare quello perso e recuperare le cose che non ci siamo detti, quelle che non abbiamo fatto, pur senza interrompere la tua routine quotidiana fatta di scuola, amiche, attività ludico-ricreative-sportive. Una fatica tremenda insomma. A tal punto che quando ci fermiamo (generalmente accade prima di mettersi a letto), è come riprendere fiato dopo una corsa. Ti guardo, tu ti rilassi, finisci di raccontarmi le cose che ti tornano in mente, io ti accarezzo i capelli e diventiamo solo padre e figlia, una storia da raccontare, un futuro da costruire.
Ho sempre provato a non farti sentire molta differenza tra lo stare con tua madre e lo stare con me. Ti porto al parco, ti inseguo mentre corri sui pattini, ti vengo in soccorso quando mi chiami e l’acuto della tua voce che implora “papà” copre distanze siderali.   

Però non volevo dire dello stare insieme. Volevo raccontarti e sorprendermi di qualche pomeriggio fa, quando siamo andati a vedere Toy Story 4 al cinema.
Non saprei descrivere esattamente perché, ma abbiamo entrambi una straordinaria passione per Toy Story. Il tuo personaggio preferito è Woody, seguito da Jessie. Il mio è senza dubbio Buzz Lightyear, anche se quello che mi fa ridere di più è Rex. Credo che il tuo essere affezionata a Woody sia dovuto alla sicurezza che trasmette, quel suo saper tenere sempre tutto sotto controllo, far regnare l’armonia tra i giocattoli e far vincere sempre l’amicizia. Somiglia molto al tuo modo di essere o, per lo meno, all’idea del mondo che mi racconti. Odii quando c’è un po’ di discordia tra le tue amiche o quando qualcuna di loro impazzisce e comincia a prendere in giro te o qualcun’altra del gruppo. Non è dovuto all’incapacità di vivere il conflitto quanto alla sua totale incomprensione. Per te non c’è mai ragione di litigare e quando succede ci rimani così tanto male che gli altri fanno fatica a capire il tuo disorientamento. Vorresti che le cose si rimettessero a posto, in qualunque modo e che l’armonia regnasse sempre, senza intoppi.
Io adoro invece Linghtyear perché sento che mi somiglia molto. È silenzioso, spesso in disparte ma non si tira mai indietro quando c’è bisogno d’aiuto e rivela doti e capacità straordinarie. Il suo non capire le batture o non saper leggere sempre la realtà, il suo vivere in un presente bidimensionale, diviso tra ciò che avviene per tutti gli altri e un mondo fatto di basi e razzi spaziali, missioni interplanetarie e poteri cosmici che nessun altro vede, è molto mio. 

Ci commuoviamo sempre al cinema o a casa davanti ai film che ci piacciono. Generalmente la nostra commozione non è sincronizzata. Su di te fanno effetto soprattutto le ingiustizie. Io mi commuovo quasi sempre per gli abbandoni o gli addii.
In Toy Story 4 c’è una scena in cui una bambina si è persa al luna park. È dietro una parete, piange, è disperata. È bloccata dalla paura e non sa cosa fare né come. Woody la vede e insieme a Gabby Gabby decide di aiutarla. Gabby Gabby le si avvicina furtiva, poi prende la posa da bambola, tira il cordino del suo disco vocale. La bambina si volta, la vede, l’abbraccia e trova la forza per uscire dall’ombra e chiedere aiuto. È stato più o meno a questo punto che tu hai cominciato a piangere a dirotto. Ti sei buttata tra le mie braccia e piangevi di un pianto inconsolabile. Io volevo a tutti i costi calmarti, anche perché piangevi a singhiozzi e tutto il cinema avrà pensato che ti stavo menando, ma purtroppo stavo piangendo anch’io e ogni frase che provavo a dire sotto voce mi moriva in gola strozzata dalla commozione. Ci siamo allora solo abbracciati e lasciati consolare dal calore delle braccia. Ecco, in momenti come questi penso che essere padre sia la cosa più bella e unica del mondo. Ed è talmente mia che va verso l’infinito e oltre.  

Favole al telefono

C’è una cosa che non ti ho mai raccontato. È una cosa di cui non so se vergognarmi. Durante il mio ultimo periodo a casa con voi ero così confuso da non sapere cosa sarebbe successo nell’intervallo di pochi minuti. Vivevo una vita sospesa, come in attesa che accadesse qualcosa o che qualcun altro potesse decidere per me la cosa giusta da fare.
Non te lo ricorderai perché eri troppo piccola o forse un giorno, sorprendendomi per l’ennesima volta, mi racconterai di come hai vissuto quei giorni terribili.
Durante quelle sere, ti mettevo sempre io a letto. Tu sceglievi meticolosamente un libro dalla libreria e io mi sedevo sulla poltrona e cominciavo a leggere.

Ecco, la cosa che volevo raccontarti è questa. In quelle sere prima di dormire io registravo la mia voce che leggeva le tue storie preferite. Non so esattamente per quale ragione. Certo non avrei immaginato che un giorno quelle registrazioni mi avrebbero fatto compagnia.
Nel tempo questa cosa era finita chissà dove nei ricordi e l’avevo quasi rimossa. Me ne sono ricordato improvvisamente qualche giorno fa.
Stavo facendo un trekking sui Lucretili e mentre percorrevo gli ultimi 2 chilometri verso la vetta del Monte Gennaro, nel folto di un tratto di foresta, mi è venuta improvvisamente in mente.
Ho percorso l’ultimo pezzo arrancando un po’ e accusando un dolore lato alla gamba sinistra ma sono arrivato in cima senza troppa fatica.
In vetta non c’era nessuno. Mi sono arrampicato sul cubo di sassi e cemento che sorregge la croce di ferro e seduto sul ciglio. C’era vento e anche se faceva caldo si stava bene. Con le gambe penzoloni e l’orizzonte sterminato tutto intorno, ho rovistato nello zaino per trovare il telefono. Mi sono ficcato le cuffie nelle orecchie e, scalando una selva di messaggi vocali mai inviati, ho finalmente trovato i file che cercavo e premuto play su “Zeb”.

La storia è incentrata su una piccola zebra che va al campo estivo per la prima volta nella sua vita. È sconsolata e triste perché dovrà lasciare i suoi genitori e teme di non farcela a stargli lontano per così tanto tempo. La mamma e il papà hanno allora l’idea di imprimere i loro baci sui dei foglietti che arrotolano come caramelle e ficcano dentro una scatola. Così, ogni volta che Zeb sarà triste, potrà tirare fuori dalla scatola un bacio-caramella e sentirsi meno lontano da casa. La cosa funziona a tal punto che durante la prima notte di viaggio, non solo Zeb ma l’intera compagnia di zebre usa i baci-caramella per consolarsi e sopravvivere alla malinconia.
La mia voce nelle cuffie legge l’ultima frase del libro e poi ti dice “Adesso si dorme” e la tua risponde “ma è già finita? Era troppo corta”, poi la registrazione si interrompe.

Mi sfilo le cuffie dalle orecchie. Il vento mi soffia in faccia ricordi e tristezza. Chissà a chi apparteneva la voce che leggeva quella favola, chissà che pensieri si portava dietro. Pur avendo quasi dimenticato quella favola, devo aver interiorizzato a tal punto i suoi precetti da farli miei. Non so nemmeno dire quante volte in questi due anni ti ho sentita dire “papà quando sono con te mi manca mamma e quando sono con lei mi manchi tu”. Una domanda alla quale rispondo sempre allo stesso modo: anche tu mi manchi tesoro, ma nei pensieri di mamma e papà tu ci sei sempre, anche quando non siamo con te. Esattamente come noi siamo sempre nei tuoi, non lo scordare mai. 

L’Internazionale

Le maestre della tua classe hanno deciso di mettere in scena per la recita di fine anno una rielaborazione di Inside Out e, dopo alcuni provini, hanno assegnato le parti.
Tu sei tornata a casa triste e malinconica, raccontando che ci eri rimasta male perché ti era toccata la Noia mentre tu avresti voluto con tutta te stessa essere l’Amore. Mi ha fatto sorridere il fatto che nel tuo mondo non stai interpretando una parte quanto piuttosto assumendo quel ruolo nella vita. Questo ti ci ha fatto rimanere male, forse perché deve essere scattato in te un meccanismo mentale per il quale devi aver pensato che affidandoti quella parte per le tue maestre sei una bambina noiosa.

Io, per farti ridere, ti ho detto che ti avrei visto meglio come La Lagna ma non ha attecchito poi tanto.
Mi sono così fermato a riflettere un secondo su quanto siamo diversi e, ancora, sulle cose che io avrei sempre voluto per te, sin dal primo momento che ti ho vista.
Il mio puffo preferito, quando avevo più o meno la tua età, era brontolone. Pur amando esageratamente la perfetta armonia che regnava a pufflandia, mi piaceva da morire il suo brontolio di sottofondo, quell’imperituro io odio le puffragoleio odio le festeio odio l’estate, mi pareva il modo migliore di non essere omologato alla massa dei puffi che accettavano passivamente l’andirivieni delle giornate. Che poi, brontolone il più delle volte si limitava a lamentarsi ma, di fatto, si allineava alle regole come tutti gli altri. 

Io mi sentivo simile a lui. Nel mio mondo di bambino, banale e un po’ noioso, provavo con tutto me stesso a respingere la banalità delle giornate con il mio “io odio”, pur restando ligiamente dentro al sentiero delle regole. Sono cresciuto allo stesso modo, alternando periodi di ribellione a stasi che potevano durare lunghissimi mesi. Forse pure per questo, se mi avessero assegnato la parte della noia lo avrei probabilmente trovato divertente e mi avrebbe fatto sentire fuori dal coro.
Eppure – e per fortuna – tu non sei me. E, nonostante gli ingenui tentativi di ricercare in te parti di me, è da quando sei piccolissima che tento, con la complicità di tua madre, di inculcarti valori, passioni, ideali che siano il più universali possibili, ben al di là dei miei che si sono scontrati quasi sempre col cinismo e il disincanto. 

Quando eri ancora nella pancia di tua madre – per dire – spesso la sera ci sdraiavamo uno accanto all’altro a letto, io le scoprivo la pancia, bussavo delicatamente e ti parlavo. Una delle prime cose che avevo comprato per te, era un carrillon che produceva le note de L’Internazionale. Chiedevo la tua attenzione e mi immaginavo te, piccolissima e svelta, che avvicinavi l’orecchio alla parete della pancia. Io avviavo il carrillon e cominciavo a cantare sottovoce Compagni avanti il gran partito noi siamo dei lavoratori

Tutto è cominciato così, con le note di una canzone senza tempo. Sin da allora, avrei voluto per te solo il meglio: lealtà, sincerità, onestà, altruismo. Cose che provo (proviamo) a farti vedere e sperimentare in ogni singolo istante delle tue giornate.
Così, se oggi quando andiamo in giro non mi sorprendo se ti vedo ficcare nello zaino la Costutuzione italiana per bambini, forse non dovrei sorprendermi nemmeno perché nella recita di fine anno vorresti essere l’amore. 

Pink moon

Hai un problema con una tua compagna di classe. Il punto è che non si tratta di una compagna qualunque, perché Federica la conosci da quando sei nata. Siete cresciute insieme, per quanto non abbiate mai avuto una frequentazione assidua. Vi incontravate al parco sotto casa la domenica, ogni tanto organizzavamo un’uscita o una cena con i suoi genitori, tutte quelle cose che l’hanno fatta diventare ai tuoi occhi (e forse anche ai nostri), la tua migliore amica.
Cominciate le elementari, te la sei ritrovata in classe.
Il problema è che Federica è sadica e anche un po’ narcisista. Ti cerca, vuole stare con te, ti fa un sacco di moine, fintanto che tu stai giocando o sembri interessata ad altro o ad altri. Se però è lei a giocare con altre bambine e tu ti avvicini dicendo “posso giocare con voi?”, lei ti risponde secca di no, che non sei la benvenuta. Facendoti rimanere continuamente male.

Oltre questo, mi racconti, Federica ama ficcarti in situazioni imbarazzanti, nelle quali lei passa per la buona, vincente, simpatica e tu per la frignona. Vale, per esempio, per le volte che ti provoca e non appena tu reagisci lei scappa dalla maestra per riportare la sua versione dei fatti.
Qualche giorno fa, Federica ha avuto la bellissima idea di venirti a raccontare quanto sia bello avere una sorellina più piccola. “Vedi”, deve averti detto, “avere una sorellina più piccola è meraviglioso, perché vuole sempre giocare con te, non ti senti mai sola e puoi prenderti cura di lei”. Tu, mi sono immaginato, sei rimasta ad ascoltare e le hai fatto dire. Il punto è che a Federica non bastava raccontare qualcosa che sapeva ti faceva male ed ha quindi rincarato la dose dicendoti che purtroppo tu una sorellina non potrai mai averla, visto che i tuoi genitori sono separati. A quel punto sei scoppiata a piangere e sei corsa a raccontarlo alla maestra che ha voluto sentire le versioni di entrambe e ha deciso alla fine che andava aperta una grande finestra sulle coppie separate. Ti ha allora illuminata, smontando l’enorme castello che faticosamente io e tua madre abbiamo costruito in due anni da genitori separati, raccontandoti che a volte le mamme e i papà litigano. Certe volte poi, litigano così tanto che diventa necessario andare a vivere in due case diverse perché non possono più stare nella stessa casa. 

Queste cose ce le hai raccontate solamente dopo una settimana che io e tua madre ti vedevamo strana. Eri assorta, distratta, non riuscivi ad impegnarti nei compiti e spesso ti arrabbiavi eccessivamente per cose relativamente piccole. Alla fine, hai vuotato il sacco e io mi sono sentito come se avessi scalato una montagna altissima e fossi quasi arrivato in cima. Davanti a me comincio ad intravedere la vetta e uno scorcio di orizzonte sereno e sterminato. Poi mentre sto percorrendo l’ultimo tratto di sentiero, spunta qualcuno di lato, mi mette lo sgambetto e io precipito rotolando giù per la cresta della montagna. Questo perché ci sono voluti quasi due anni per convincerti che le mamme e i papà non necessariamente litigano quando decidono di vivere in case diverse. Così come non necessariamente smettono di volersi bene e certo non smettono di volerne ai propri figli. È solo che, come ti ho raccontato tante volte, le cose cambiano, si trasformano, diventano diverse da prima. Nessuno ci può fare niente, perché semplicemente succede. È così che è successo all’amore che tua madre e tuo padre provavano: non è morto, si è solo trasformato. Mamma e papà si vogliono bene e sopra ogni cosa ne vogliono a te. 

Una cosa però, la prossima volta che Federica ha qualcosa da dirti, tappati le orecchie e dille “Non me ne frega niente di quello che mi devi dire! Ora vallo a dire alla maestra!”.

Because the night

Adoro quando sei al parco con le tue amichette, mi vedi arrivare da lontano, fai quella corsa a perdifiato per venirmi incontro e saltarmi in braccio, poi torni dalle tue amiche a giocare per qualche altro minuto e poi dici loro “stasera sono a Testaccio”. Mi fa ridere tantissimo.

Il tragitto da casa di tua madre a casa mia occupa di solito lo spazio di circa venti minuti. In questo spazio chiacchieriamo. Ti chiedo di raccontarmi di scuola oppure generalmente non c’è bisogno di chiederti niente perché tu rompi subito il silenzio dicendo “papi lo sai…” e cominci uno dei tuoi racconti fittissimi, nei quali spesso faccio fatica a raccapezzarmi e sono costretto, di tanto in tanto, a interromperti, facendoti spazientire, per chiedere aggiunte di trama.

Se però durante il tragitto ti vedo stanca oppure ti chiedo di raccontarmi qualcosa e tu mi dici di non averne voglia, allora ti dico “ti faccio ascoltare un pezzo che mi piace un sacco” e ne approfitto per caricare su spotify tutti i miei gruppi preferiti, mentre ti spio dallo specchietto retrovisore per vedere la faccia che fai. È così che ti ho dato in pasto tutta la mia musica migliore. Ti ho fatto ascoltare Jimi Hendrix, i Cream, i Doors, gli Who, i Led Zeppelin, i Credeence, i Free, i Ten Years After, i Blue Oyster Cult, i Velvet Underground. Ho spostato l’attenzione sul grunge e hai conosciuto i Pearl Jam, i Soundgarden, i Nirvana, gli Smashing Pumpkins, i Red Hot Chili Peppers, gli Screaming Trees e gli Alice in chains. Il cantautorato italiano: Guccini, De Andrè, De Gregori, Battiato, Gianmaria Testa, Fossati, Lolli, Daniele e Vecchioni. I grandi classici Neil Young, il boss, Johnny Cash, Lou Reed, Dylan, Bowie. Poi alla rinfusa gli Smiths, i Clash, i Radiohead, i REM, Jeff Buckley. Poi ho pensato che se avessi continuato così avresti pensato che le donne non hanno alcun accesso all’olimpo musicale di tuo padre e allora ultimamente ho cominciato a farti sentire Alanis Morissette, Dolores O’Riordan, i Fairport Convention, Janis Joplin. Ecco, di solito in tutti questi casi tu ascolti, anche con una certa curiosità, poi non mi dici niente fino al momento in cui io ti chiedo “allora? Ti è piaciuto?”. E tu rispondi distrattamente “mmm, sì”, mai particolarmente convinta.

Ultimamente pensavo di aver trovato qualcosa che avesse smosso qualcosa in te quando ho messo su Because the night di Patti Smith, perché mi hai chiesto di riascoltarla. E io felicissimo l’ho fatta ripartire dall’inizio, e poi di nuovo. Alla fine della terza esecuzione, mi hai chiesto di cosa parla la canzone e io l’ho fatta ripartire ancora una volta e ti ho tradotto qualche stralcio del testo. Pensavo che a quel punto mi avresti detto “papà questa canzone mi piace tantissimo”. Invece mi hai detto che era carina. “Come? Solo carina?” Ti ho chiesto io, ma tu eri già da un’altra parte. 

Poi però qualche giorno fa eravamo a casa mia e mi hai detto “papà vuoi sentire la mia canzone preferita?”. “Certo”, ti ho risposto, pensando che avresti tirato fuori una canzone della colonna sonora di uno dei tuoi film di animazione. Hai allora afferrato il mio telefono che era già collegato alla cassa bluetooth, aperto Spotify e senza farti scorgere hai digitato il titolo di una canzone. Dopo qualche secondo sono partite le note di una canzone che non conosco, tu hai afferrato un microfono immaginario – come ho visto fare solamente ad un’altra persona nella mia vita – e cominciato a cantare a squarciagola:

Un po’ mi manca l’aria che tirava 
O semplicemente la tua bianca schiena… nananana 
E quell’orologio non girava 
Stava fermo sempre da mattina a sera. 
come me lui ti fissava 
Io non piango mai per te 
Non farò niente di simile, no mai… nononono 
Si, lo ammetto, un po’ ti penso 
Ma mi scanso 
Non mi tocchi più
Solo che pensavo a quanto è inutile farneticare 
E credere di stare bene quando è inverno e te 
Togli le tue mani calde 
Non mi abbracci e mi ripeti che son grande, 
mi ricordi che rivivo in tante cose… nananana 

Perché la verità è che io posso provare a corromperti con tutte le mie più grandi hit e forse prima o poi troverò qualcosa che colpirà la tua attenzione e magari ti piacerà ma, al di là di tutto, tu sei una persona, con la sua individualità, il suo libero arbitrio e, soprattutto, i suoi gusti. 

E nonostante Tiziano Ferro, è davvero meraviglioso che sia così.
Presto però ti farò conoscere il blues.