Putesse essere allero

Putesse essere allero e m’alluccano dint’e recchie
e je me sento viecchio
putesse essere allero cu mia figlia mbraccio
che me tocca ‘a faccia e nun me’ fa guardà

Del tuo bisnonno conservo un orologio col cinturino in metallo, il ricordo di una conversazione in spagnolo, risalente ai tempi in cui ero in erasmus in Spagna, le serate trascorse, da piccolo, a guardare insieme i film di Bud Spencer e Terence Hill e l’immagine di lui scavato dalla malattia e disteso a letto durante il nostro ultimo incontro. Parlava pochissimo e le volte che parlava emetteva una specie di mugugno che solo la tua bisnonna riusciva ad interpretare, nonostante fosse quasi sorda. A tutti noi sembrava invece di non conoscere la sua voce e non sapere quasi mai cosa volesse dire. Non credo però sia stato per questo che non ho mai saputo nulla di lui. Spesso infatti avevo l’impressione fosse in attesa. Eppure non sono mai riuscito a chiedergli niente.

Ho pensato al tuo bisnonno il 25 aprile scorso. Mi ero fatto fare i panini con la mozzarella e il prosciutto, i tuoi preferiti, avevo caricato in macchina il plaid, il frisbee, la palla e le carte da UNO e ti ho detto “andiamo a fare un pic-nic”. Poi, mentre eravamo all’ombra di un albero, e le mie palpebre giocavano alle calamite, tu mi sei salita sopra e hai poggiato la schiena nell’incavo delle mie ginocchia unite. Allora mi è parso fosse il momento di parlarti della Liberazione

È sempre difficile aprire queste parentesi storiche perché noi adulti tendiamo a dare troppe cose per scontate e finiamo per impelagarci in racconti che aprono voragini che, nel tentativo di colmare, ci fanno perdere l’obiettivo iniziale.

Così ti ho detto “sai che oggi è un giorno davvero speciale? È il giorno più importante dell’anno”. Allora tu mi hai chiesto se era più importante di Natale e io ti ho risposto di sì, “ma più importante del tuo compleanno?” e io ti ho detto di nuovo di sì, allora sei rimasta perplessa e hai detto titubante “ma più importante anche del mio compleanno?”. Guardando il terrore serpeggiare nei tuoi occhi, ho risposto “beh non quanto il tuo compleanno”. 

Ho cominciato dai capisaldi che già conosci: la guerra, i cattivi e gli oppressi. Poi ho introdotto i buoni e alla fine ho fatto vincere questi ultimi che, nella tua ricostruzione, sono andati di casa in casa a liberare gli italiani perché erano rimasti chiusi dentro per colpa dei cattivi che avevano chiuso a chiave da fuori, avevano incendiato tutto intorno e se ne stavano per strada a sbellicarsi dalle risate. In qualche modo però ha funzionato e hai tirato un bel respiro di sollievo.

A questo punto di ogni storia mi chiedi se io c’ero. Quando ti rispondo di no, vai a salire di generazione “e i nonni?”. “i nonni, nemmeno”. “E i tuoi nonni?”. Sì, i miei nonni c’erano, ti ho detto, e ti ho raccontato l’unica cosa che ho sempre saputo di mio nonno. E cioè che aveva una ferita di arma da fuoco sulla spalla, che i cattivi gli avevano sparato e un proiettile gli aveva passato la spalla da parte a parte. Tu hai voluto sapere tutti i dettagli e io ho potuto raccontarti soltanto quel poco che conoscevo. Mi hai chiesto se mio nonno aveva un buco sulla spalla e se ci si poteva guardare dentro, come un buco nel muro. Me lo hai chiesto mentre piangevi, perché – mi hai spiegato – ti dispiaceva tantissimo. 

Mi ha colpito davvero tanto che nel tuo mondo le ferite non si rimarginano mai, quasi a restare indelebili negli anni. Mi sono immaginato una scena un po’ macabra, di mio nonno durante uno dei pranzi della domenica, con la camicia sporca di sangue all’altezza della ferita. Eppure ti ho spiegato, dopo una pausa, che le ferite – tutte le ferite – guariscono sempre. A volte sono così profonde e complesse che richiedono molto tempo e cure. Noi guardiamo di solito la ferita e tendiamo a pensare che quel buco non ci abbandonerà mai, resterà per sempre lì col suo carico enorme di dolore e frustrazione. Ma col tempo, anche il buco più profondo guarisce. Ciò che resta è una piccola impronta, una specie di alone che chiamiamo cicatrice, che ci resta impressa sulla pelle, quasi a ricordarci quanto dolore è costato guarire.

“Ecco”, ti ho detto, “il 25 aprile è la nostra cicatrice”, lo abbiamo impresso sul calendario, a ricordarci ogni anno quanto dolore e sofferenza sia costato guarire dal male profondo che avevamo dentro. 

Mi hai sorriso, come solo tu sai fare, e mi hai detto “avrei voluto conoscere tuo nonno”, io ho risposto solo “già” ma dentro ho pensato “anch’io”.

Because the night

Adoro quando sei al parco con le tue amichette, mi vedi arrivare da lontano, fai quella corsa a perdifiato per venirmi incontro e saltarmi in braccio, poi torni dalle tue amiche a giocare per qualche altro minuto e poi dici loro “stasera sono a Testaccio”. Mi fa ridere tantissimo.

Il tragitto da casa di tua madre a casa mia occupa di solito lo spazio di circa venti minuti. In questo spazio chiacchieriamo. Ti chiedo di raccontarmi di scuola oppure generalmente non c’è bisogno di chiederti niente perché tu rompi subito il silenzio dicendo “papi lo sai…” e cominci uno dei tuoi racconti fittissimi, nei quali spesso faccio fatica a raccapezzarmi e sono costretto, di tanto in tanto, a interromperti, facendoti spazientire, per chiedere aggiunte di trama.

Se però durante il tragitto ti vedo stanca oppure ti chiedo di raccontarmi qualcosa e tu mi dici di non averne voglia, allora ti dico “ti faccio ascoltare un pezzo che mi piace un sacco” e ne approfitto per caricare su spotify tutti i miei gruppi preferiti, mentre ti spio dallo specchietto retrovisore per vedere la faccia che fai. È così che ti ho dato in pasto tutta la mia musica migliore. Ti ho fatto ascoltare Jimi Hendrix, i Cream, i Doors, gli Who, i Led Zeppelin, i Credeence, i Free, i Ten Years After, i Blue Oyster Cult, i Velvet Underground. Ho spostato l’attenzione sul grunge e hai conosciuto i Pearl Jam, i Soundgarden, i Nirvana, gli Smashing Pumpkins, i Red Hot Chili Peppers, gli Screaming Trees e gli Alice in chains. Il cantautorato italiano: Guccini, De Andrè, De Gregori, Battiato, Gianmaria Testa, Fossati, Lolli, Daniele e Vecchioni. I grandi classici Neil Young, il boss, Johnny Cash, Lou Reed, Dylan, Bowie. Poi alla rinfusa gli Smiths, i Clash, i Radiohead, i REM, Jeff Buckley. Poi ho pensato che se avessi continuato così avresti pensato che le donne non hanno alcun accesso all’olimpo musicale di tuo padre e allora ultimamente ho cominciato a farti sentire Alanis Morissette, Dolores O’Riordan, i Fairport Convention, Janis Joplin. Ecco, di solito in tutti questi casi tu ascolti, anche con una certa curiosità, poi non mi dici niente fino al momento in cui io ti chiedo “allora? Ti è piaciuto?”. E tu rispondi distrattamente “mmm, sì”, mai particolarmente convinta.

Ultimamente pensavo di aver trovato qualcosa che avesse smosso qualcosa in te quando ho messo su Because the night di Patti Smith, perché mi hai chiesto di riascoltarla. E io felicissimo l’ho fatta ripartire dall’inizio, e poi di nuovo. Alla fine della terza esecuzione, mi hai chiesto di cosa parla la canzone e io l’ho fatta ripartire ancora una volta e ti ho tradotto qualche stralcio del testo. Pensavo che a quel punto mi avresti detto “papà questa canzone mi piace tantissimo”. Invece mi hai detto che era carina. “Come? Solo carina?” Ti ho chiesto io, ma tu eri già da un’altra parte. 

Poi però qualche giorno fa eravamo a casa mia e mi hai detto “papà vuoi sentire la mia canzone preferita?”. “Certo”, ti ho risposto, pensando che avresti tirato fuori una canzone della colonna sonora di uno dei tuoi film di animazione. Hai allora afferrato il mio telefono che era già collegato alla cassa bluetooth, aperto Spotify e senza farti scorgere hai digitato il titolo di una canzone. Dopo qualche secondo sono partite le note di una canzone che non conosco, tu hai afferrato un microfono immaginario – come ho visto fare solamente ad un’altra persona nella mia vita – e cominciato a cantare a squarciagola:

Un po’ mi manca l’aria che tirava 
O semplicemente la tua bianca schiena… nananana 
E quell’orologio non girava 
Stava fermo sempre da mattina a sera. 
come me lui ti fissava 
Io non piango mai per te 
Non farò niente di simile, no mai… nononono 
Si, lo ammetto, un po’ ti penso 
Ma mi scanso 
Non mi tocchi più
Solo che pensavo a quanto è inutile farneticare 
E credere di stare bene quando è inverno e te 
Togli le tue mani calde 
Non mi abbracci e mi ripeti che son grande, 
mi ricordi che rivivo in tante cose… nananana 

Perché la verità è che io posso provare a corromperti con tutte le mie più grandi hit e forse prima o poi troverò qualcosa che colpirà la tua attenzione e magari ti piacerà ma, al di là di tutto, tu sei una persona, con la sua individualità, il suo libero arbitrio e, soprattutto, i suoi gusti. 

E nonostante Tiziano Ferro, è davvero meraviglioso che sia così.
Presto però ti farò conoscere il blues.