Stagioni

Oggi è l’anniversario della morte di Guevara. 9 ottobre 1967, 54 anni fa. È anche il compleanno di una mia compagna di classe del liceo. Me lo ricordo per la coincidenza dei due anniversari.

Scrivevo per lei. Scrivevo tantissimo per lei, come faccio adesso per te e per Agata, attraverso questo blog. Avevo 15 anni, poi 16, poi forse anche 17 e le scrivevo poesie, piccoli racconti, stralci di romanzi, qualunque cosa potesse farmi tornare a scuola il giorno dopo e sussurrarle “ho scritto una cosa”. Gliela passavo, sapendo che quel foglietto stampato ad aghi sarebbe rimasto un segreto tra noi due. Lei lo leggeva durante le ore di biologia o di italiano, non so. E alla ricreazione o all’uscita mi avvicinava senza guardarmi mai negli occhi. Sorrideva, fissava un punto del cielo attraverso la finestra della classe e sussurrava “mi è piaciuto”, portando lo sguardo al pavimento e arrossendo un po’. Tutto qua. Poi tornava dalla sua compagna di banco, io dai miei. Altro giro, altra corsa. 
Non credo abbia mai saputo davvero quanta dedizione dedicassi a quegli appuntamenti né quanto di me scoprisse in ogni riga che riceveva in dono. Non credo avesse mai nemmeno saputo quanto mi piacesse e quanto dolce trovassi i suoi gesti delicati e mai invasivi nel ringraziarmi e allo stesso tempo chiedermi “ancora” senza mai chiederlo davvero. Eravamo legati da un foglio leggero di tabulato a modulo continuo. Continuo come il rapporto che avevamo instaurato. Io le raccontavo della mia adolescenza per tramite di costruzioni contorte e arricchite da parafrasi di canzoni. Lei nei suoi silenzi e in quello sguardo timido e triste mi lasciava entrare nel suo mondo che capivo tanto simile al mio. Tanto vicini eppure così lontani.

L’ultima volta che l’ho sentita eravamo entrambi all’università. Io a Roma, a studiare Lettere senza convinzione, lei a costruirsi una carriera da ingegnere a Napoli. Era lo stesso giorno di oggi e la chiamai per farle gli auguri di compleanno. Le dissi che era l’ultima volta che le avrei fatto gli auguri senza riceverli. Non sapevo di certo che quello scherzo sarebbe diventato una profezia. Negli ultimi tempi la sua tristezza leggera si era condensata e compattata, trasformata in ghiaccio. Sentivo che c’era qualcosa che non andava nella sua voce ma non me ne parlò come non me ne aveva mai parlato prima. Di lì a qualche giorno mi rubarono il telefono e con esso tutti i numeri che all’epoca erano custoditi dentro la sim (proprio così). Non ebbi mai più modo di scriverle o sentirla, lei non si fece mai più viva. Ricordo bene come a distanza di qualche anno da allora un mio amico mi parlo dell’esistenza di Facebook. Me lo fece vedere, me ne parlò con l’entusiasmo di ogni rivoluzione anche se io non ne rimasi particolarmente attratto. Mi iscrissi lo stesso per cercarla. Non la trovai, non trovai nemmeno la sua compagna di banco, né nessuno dei pochi che avrebbero potuto ridarmi il suo numero. Ma all’epoca probabilmente su Facebook eravamo in 3: io, il mio amico e Zuckerberg.

Per molti anni l’ho dimenticata, tenuta isolata in un angolo cieco della mia storia, fino a stamattina. 
Avevo intenzione di ritornare a scriverti. Farlo dopo così tanto tempo, dopo un milione di rimandi e mille tentativi mentali andati a male. Sapevo solo di volerlo e doverlo fare. Ho aperto il computer, poi Word. E mentre la barretta bianca sottile ha cominciato a lampeggiare pressante, sapevo che avrei raccontato di te, di Agata, degli sviluppi meravigliosi che sta prendendo la nostra vita ultimamente. Poi però l’icona di Calendar mi ha ricordato che oggi è 9 ottobre. Come la morte di Guevara, ho pensato, e il compleanno della mia amica forse ingegnere. Tutto il resto è venuto da sé. A far due conti a spanne, credo siano passati proprio 20 anni da quell’ultima volta. Una cosa incredibile e assurda, passare 20 anni senza notizie di una persona a cui hai voluto così tanto bene, dalla quale hai ricevuto tanto bene. Viene da chiedersi chi fossimo l’uno per l’altra e chi erano le persone rimaste incastrate in un tempo così lontano. Se oggi avessi un soldino per un desiderio, lo spenderei per chiederle se è felice, se ha trovato quello che cercava e mai mi ha rivelato. E se di quel soldino rimanesse una piccola porzione ancora utile allora lo spenderei per farmi raccontare com’era quando la mattina le portavo un racconto che avevo scritto la notte soltanto per lei. 

Ovunque tu sia e qualunque cosa tu stia facendo, amica mia, buon compleanno!

Point Blank

Non so dirti esattamente da quanto e come aspettassi questo momento. Ansia, come sempre, un po’ di emozione, tanta frenesia e la solita vecchia tentazione di disseminare check point giù per la mia vita. Questo è uno di quelli. Quelli importanti, significativi, probabilmente con la bandierina un po’ più grande delle altre.
Negli anni, me lo sono immaginato in tanti modi diversi, a seconda dell’euforia o della tristezza che riempiva il liet motiv della mia esistenza nel momento in cui mi fermavo a riflettere. “Affitterò una villa con piscina, magari in Umbria o in Toscana, e ci inviterò per tre giorni tutti i miei amici”, pensavo, immaginandomi probabilmente una di quelle feste hollywoodiane, con il patron che esce in vestaglia dalla magione, mentre una platea di bikini e bermuda lo attende a bordo piscina. Lo festeggerò buttandomi col paracadute, organizzerò una braciolata in montagna, un viaggio esotico, voglio arrivarci col tatuaggio di Moby Dick sull’avanbraccio sinistro. E poi le cose che avrei voluto fare prima di questo traguardo: finire un romanzo, leggere Infinite Jest, rileggere il Quijote, imparare a suonare la batteria o la chitarra (o entrambe), comprare una V7, trovare un lavoro migliore, viaggiare, assistere almeno a un concerto del Boss, di Dylan, di Vedder, incontrare finalmente il Maestro e chiedergli di firmarmi Radici. Di quante cazzate mi sono riempito la testa in tutti questi anni. Cose futili, a volte superficiali, insensate, certamente non importanti. A volte ho davvero l’impressione di essere il ragazzino che raccontava tua madre. Quello che si riempie la bocca e il cuore di voli d’airone ma che non sa volare nemmeno come un tacchino. Ogni tanto ci penso. Mi chiedo chi sia davvero questo quarantenne con i capelli da tagliare e la barba a chiazze, gli occhiali vecchi perché quelli nuovi sono diventati a loro volta più vecchi e graffiati, sei, sette chili di troppo e un continuo programma di ambizioni e progetti che rimangono puntualmente dentro la scatola incellophanata appena afferrata dallo scaffale. Non sono i giorni come quelli che racconta il boss in fila uno dopo l’altro? Io in fila metto le scintille della mia testa, lame di luce che escono dal coperchio sopra al quale il gigante si è seduto. E a volte quel coperchio è proprio chiuso, altre sigillato, e qualche volta, ormai solo qualche volta, riesce a scivolare di pochi millimetri di lato, lasciando che il suo contenuto trabocchi un poco, esaurendosi però nell’attimo esatto in cui lo intravedo appena. Quanto è pessimista tuo padre. Imparerai, se non lo hai già fatto, a riconoscere questo pessimismo, forse anche ad amarlo o a sorriderne. Spero però non ti appartenga mai perché è una gabbia che disegni da solo e dentro la quale ti chiudi a doppia mandata ingoiando la chiave. Sembra un ambiente confortevole e piacevole perché ti fornisce tutto ciò di cui hai bisogno: le rassicurazioni e la certezza che peggio è sempre più comodo e nella migliore delle ipotesi, se ti sarai sbagliato, sarà andata tutto sommato meglio di quanto avevi puntato. Non è un modo per vincere sempre? È così che sono cresciuto, sin da quando avevo più o meno la tua età. Mi dicevo: se abbasso le mie aspettative al minimo, tutto quello che verrà sarà meglio e quindi sarò felice. E così facendo limitavo al minimo i danni collaterali, costringendo sogni e ambizioni a nuotare in una pozzanghera di fango. Ma non puoi scappare sempre e prima o poi chi sei ti trova. 

Faccio ancora spesso molti degli errori del passato. Qualche volta confondo il passato col presente. A volte sono così stupido da vederci dentro il futuro. Ma ciò che rimane al di là di questi momenti isolati in cui quasi mi esercito ad essere malinconico come in una parte che interpretavo in uno spettacolo andato in scena tanti anni fa, è un prato di trifogli e margherite. Io mi sdraio con un filo d’erba in bocca e le mani incrociate dietro la nuca a contare le nuvole che passano nel cielo, mentre tutto intorno è pieno di quadrifogli che aspettano solo di essere trovati. Ogni tanto mi alzo, per ammirare la visuale orizzontale. Certe volte corro. Altre cammino piano, pianissimo. Ciò che mi piace di più al mondo è stendere le braccia, come faceva Montella dopo un gol, alzare la testa al vento e chiudere gli occhi. Di solito faccio un passo in avanti e inciampo. Quando riapro gli occhi ho un quadrifoglio dritto davanti agli occhi. Io mi dico che è stata fortuna o caso ma dentro so che è soltanto destino. Perché nel destino di ognuno c’è scritta la propria felicità. Sai che una volta avevo paura di pronunciare questa parola? La chiamavo serenità, come fosse la stessa cosa. 
Ho raccolto un mazzo di quadrifogli e tutto ciò che voglio è continuare a starmene qui a sentire il vento sulla pelle, il sole nei pori, l’erba umida sotto i polpastrelli, il profumo della primavera che abita il mio epitelio olfattivo. Non ho bisogno di niente perché niente mi serve e, sai, mercoledì è un giorno come un altro, bello come tutti gli altri. Vedi, te lo volevo dire da tanto tempo, amore mio, e ci giravo intorno, certe volte ci saltavo sopra. Ora che però mi rigiro questo quadrifoglio meraviglioso tra le dita, mi dico che non ha nessun senso continuare a non dirlo. Sono innamorato. Ecco, l’ho detto. 

Piccola città

Qualche volta mi fermo dopo una lunga corsa, mentre ho raggiunto una radura nel folto di un bosco. Guardo da ogni lato e mi pare che quel posto non abbia strade o direzioni, sia come isolato dal resto del mondo e rimane un mistero come io l’abbia raggiunto. C’è pace, fa fresco, si sta bene. La luce del sole filtra dall’alto degli alberi, si sentono gli uccelli che cantano e il materasso di foglie accumulate da millenni sotto i piedi dà la piacevole sensazione di un luogo mai visto e accogliente. Allora resto fermo per un po’. Bevo un sorso d’acqua. Guardo gli alberi come in attesa di sentirli parlare. Viene voglia di stendersi sotto il più grande di loro, ospitale e protettivo. E sto quasi per farlo, quando mi stana il dubbio che restare porterebbe con sé anche i pericoli e i misteri della notte. Allora mi muovo, ignorando quanto sia poi bello godersi l’istante di pausa che divide una corsa dall’altra, il prima dal dopo. Scelgo una direzione e la seguo e dopo qualche istante la radura è diventata un punto indistinguibile nel passato di un’escursione, irraggiungibile da me e da chiunque altro, per chissà quanto.
È andata così anche domenica scorsa. Mauro mi ha chiesto di ritornare in montagna. Io ero al supermercato mentre ascoltavo il suo vocale. Mi sono fermato davanti al banco dei salumi e ho chiesto del prosciutto e due panini. Avevo così tanta voglia di tornare in montagna che mi tremavano le ginocchia dall’emozione. Eppure, dopo pochissimi chilometri dall’inizio del sentiero, ho capito che le mie gambe non erano più le stesse che mi avevano portato per così tanti chilometri fino a Santiago, soltanto qualche mese fa. E il mio cuore non pompava lo stesso sangue e la mia testa non era in grado di guardare l’orizzonte indovinando il cammino, la cima, l’arrivo. Ero improvvisamente stanco e per la prima volta da quando ho imparato ad amare la montagna, ho avuto voglia di tornare indietro. 

Mauro aveva calcolato male le distanze e invece di affidarsi ad una mappa, aveva delegato a un’app il compito di condurci lungo il percorso ad anello che cingeva la montagna. Io mi ero invece affidato a lui. Dopo qualche chilometro di sentiero dolce tra i pascoli, abbiamo tagliato nel bosco, perdendo ogni traccia di segnavia. Se era la vetta che cercavamo, dovevamo andare verso l’alto e così abbiamo cominciato letteralmente a scalare un dirupo di faggi. Ero così stanco che alla terza volta che sono scivolato, ritrovandomi lungo sulle foglie marroni e nere e gli arbusti spezzati dal mio peso, ho pensato che non mi sarei mai più rialzato. Eppure, come accade spesso in montagna, nonostante tutto, arrivi in cima. Lì c’erano altre tre persone attorno alla croce che hanno subito cominciato a parlare con Mauro. Io ho poggiato lo zaino, ho aspettato che tornasse per mangiare insieme a lui e poi, senza una parola, mi sono steso e addormentato. Ero convinto di avere già affrontato la parte dura del cammino, quando la montagna ti mette alla prova e ti chiede di dimostrarle se davvero meriti la sua vetta. Mi sbagliavo. Il ritorno è stato come una ritirata in un territorio disseminato di trappole. L’app di Mauro ci ha portato lontanissimi dall’inizio del cammino, per poi farci tagliare attraverso l’ennesimo bosco fittissimo di faggi, giù in picchiata lungo la cresta della montagna. Le ginocchia stavano impazzendo e l’unica racchetta che avevo portato, non mi aiutava a evitare che scivolassi, slittando per metri sulle foglie umide del sottobosco. Poi Mauro, che era più avanti di me, ha urlato “eccolo, lo abbiamo trovato!”, intendendo il sentiero. Io non ho risposto, limitandomi a seguirlo. 

È stato poco dopo che, senza rendermene conto, ho scoperto di essere arrivato nella stanza della pace. I faggi puntavano verso l’alto chiudendo la stanza sotto una volta puntinata di scintille. A terra foglie e radici, come un dipinto medievale. Gli uccelli nascosti fischiettavano allegri e io ero solo. Mi sono seduto su un masso, guardandomi attorno come dentro le mura di casa. Non c’era porta d’ingresso né via d’uscita. Era l’inizio e la fine. Dove devo andare? Ho chiesto senza paura agli alberi che non hanno risposto o forse sì, senza che potessi ascoltarli. E a quelle voci senza suono avrei voluto chiedere tante altre cose. Chissà se fossi rimasto ancora, se non avessi improvvisamente pensato che la notte, i lupi o altri pericoli, sarebbero arrivati di lì a poco per sbranarmi. Chissà se sarei riuscito ad ascoltare i consigli degli alberi, cedere quella stanchezza riprendendo linfa e vigore. Ho invece inventato una direzione e l’ho seguita, reincontrando Mauro poco dopo e lasciandomi trascinare verso l’arrivo.

Perché ti racconto tutto questo, oggi? Forse perché, amore, a volte le pause ti trovano anche se non le cerchi ma il fatto che ti trovino non le rende necessariamente utili. Vorrei insegnarti a riconoscerle e amarle, dare loro l’attenzione che chiedono, e prender da loro tutto ciò che vogliono offrirti. Ma siamo ciò che ricordiamo e spesso, troppo spesso, paure, ansie e tentennamenti ci spingono verso una direzione, anche quando c’è una radice di faggio a forma di sedile pronta ad accoglierci per lasciarci riprendere forza e fiato. Ecco, solo per dirti, amore mio: qualche volta fermarsi è utile, necessario, certe volte persino meglio. Fermarsi per guardare e riconoscersi ancora capaci di stupirsi della bellezza del paesaggio, del verde delle foglie, del calore della luce, del conforto di un’ombra, del ristoro di un sorso d’acqua. 

Costruire

Esattamente un anno fa cominciavo a scriverti queste lettere. Sentivo che ogni istante della vita che trascorrevamo insieme e di quella parte di esistenza durante la quale eravamo distanti, aveva una quantità di informazioni che sarebbero andate perse se non le avessi catturate e impresse da qualche parte. Fotografie, fotogrammi o piccole clip del girato dei nostri giorni insieme e lontani. Cominciai allora a scriverti, immaginandoti come interlocutore presente e futuro. Ho sempre provato a essere più onesto che potevo. Mai romanzando, anche quando la tentazione di farci apparire più belli e divertenti e simpatici era forte. Siamo solo io e te, tu e io. E abbiamo riempito quaranta lettere in un anno: dodici mesi, cinquantaquattro settimane, trecentosessantasei giorni, ottomilasettecentoottantaquattro ore della nostra vita.

Sai, avevo ragione. In queste lettere sono rimasti appiccicati un sacco di ricordi che avremmo perso. Alcuni, immagino, li avrei persi solo io. Altri tu. Altri ancora entrambi. Sono invece qui dentro. A distanza di un solo anno, li ho ritrovati già, sfogliando queste lettere sin dall’inizio e ho provato quella sensazione che si prova quando ritrovi una foto del passato, la guardi e rivedi quella maglietta che indossavi e improvvisamente ti ricordi quanto le eri affezionato, quando o come l’avevi avuta, alcuni dei giorni nei quali l’avevi addosso. Ho un ricordo così. Di una maglietta blu elettrico dell’Energie che avevo durante il primo o secondo anno del liceo. Blu, con delle righe rosse che percorrevano perpendicolari le spalle e la E che aveva la forma di una freccia sul petto. Tamarrissima, diremmo oggi. Eppure mi ci sentivo un figo. La mettevo negli ultimi giorni di scuola. Elasticizzata e aderente (allora potevo permettermelo), sopra ai miei pantaloni strappati alle ginocchia e con i capelli a spazzola ingellati, mi sentivo gli occhi delle ragazzine della mia classe addosso e stavo bene.

Siamo stati bene allo stesso modo in molte delle storielle che ho raccontato finora. In alcune appariamo davvero buffi. Mi commuove un po’ leggere a ritroso le cose che ci sono successe nell’ultimo anno e sorrido quando sembriamo una coppia consumata del cinema che fa gag esilaranti. Se fossimo ad un pranzo di un matrimonio e questo fosse il mio discorso agli sposi, direi una di quelle frasi che si sentono sempre in questi casi: “quante ne abbiamo passate insieme!”. Belle ma anche brutte. Qui dentro, infatti, ci sono anche tante lacrime che insieme e separati abbiamo versato.
Quando sarai grande e le leggerai, ci ritroverai dentro i miei tentativi goffi di farti imparare a riconoscere Bruce Springsteen, la passione per Guccini, i disegni belli e quelli che abbiamo rovinato, le delusioni che ti hanno rifilato alcune tue amiche, alcuni dei giochi che facevamo, le passeggiate per Roma, la paura del virus, il rapporto con tua madre, molti dei ricordi del mio passato (alcuni dei quali affioravano proprio mentre ti scrivevo), la nascita di un nuovo amore, gli attimi belli e emozionanti del vostro primo incontro, i nostri tic, i film, le canzoni, la montagna, le favole, i giocattoli, le macchine fotografiche e la fotografia, i libri, i compiti, la scuola, gli amici, i desideri, il futuro e il passato (quello bellissimo e quello tristissimo), i dolci, le seratine speciali e i toast a colazione, le matite colorate e i pennarelli, le punte spezzate, la nostra numerosa famiglia, i viaggi, la nostra casa, le paure e le speranze, Roma e la Roma, le risate, i sorrisi e le lacrime, le domande, i racconti, le ninnenanna, la mia passione per le liste, l’amore, tutto il nostro amore.

Quando avevo più o meno la metà degli anni che ho oggi, scrivevo già racconti. Quando li finivo, li firmavo con le miei iniziali e appuntavo il giorno e l’ora esatta con la scritta “per chi dovesse viaggiare nel tempo”. In quell’appunto, c’era la possibilità per il me del futuro che avrebbe ritrovato quei racconti molti anni dopo, di sapere con esattezza l’attimo irripetibile che li aveva partoriti e, soprattutto, la consapevolezza che in quell’attimo c’era un pensiero per lui, una specie di saluto dal passato.

Sono le 8 e cinquantasette minuti del 3 aprile 2020. Sono nella mia stanza e ti sto scrivendo la quarantesima lettera di una serie iniziata un anno fa. Ciao, figlia del futuro. 

Un bene dell’anima

Ho conosciuto Antonello a Lettere, il primo giorno. Eravamo in pochi, noi due stavamo a qualche posto di distanza e durante una pausa abbiamo cominciato a chiacchierare. Ci siamo incontrati alla lezione successiva, poi a quella dopo. In aula, al quarto appuntamento, si è aggiunto Gianluca. “È simpatico, è milanese”, Antonello me l’ha presentato così. Gianluca invece era di Pesaro, sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, oltre che coinquilino dei sette anni che seguirono. È stato lui a rivelarci, sbalordito e divertito, che il corso che stavamo seguendo ormai da due settimane non era quello che pensavamo. Avevamo confuso le aule e i docenti, senza renderci nemmeno conto che gli argomenti trattati erano lontanissimi da quelli che avremmo dovuto aspettarci. Continuammo comunque a frequentare, entrambi. Più per comodità che per reale convinzione.

Antonello era di Roma, abitava a San Giovanni, con i suoi. Veniva da noi ogni volta che poteva, a pranzo o a cena, a bere il caffè della nostra moka, a fare niente. Frequentava casa nostra come fosse sua; credo lo fosse. Non sono mai entrato completamente nel suo mondo, come esistesse una diga tra la nostra acqua e quella che scorreva nel tempo lontano da noi, ma questo non ha mai impedito alle nostre anime di abitare le stesse stanze. Lui invece conosceva perfettamente il nostro mare, al punto da sentirsi un fuorisede, come noi. 
Dopo la laurea, ci ritrovammo quasi inconsapevoli a fantasticare il Sudamerica. Non dimenticherò mai il giorno in cui andammo in motorino alla biglietteria delle Aerolineas Argentinas, in via Cavour. Negli astucci celesti un biglietto per Buenos Aires e uno di ritorno da Lima, piantato a quasi due mesi di distanza

Ti accompagno a scuola, piove e c’è traffico. La macchina copre l’asfalto a singhiozzi. Sonnecchi, accendo la radio. La voce di Lorenzo ti sorprende, ti cattura, ormai lo riconosci, anche nelle canzoni che non hai mai ascoltato. 
Che cos’è un amico, nessuno lo sa dire.  
Mi sorprendo anch’io, impantanato come sono a pensare queste cose.

Non vedevo Antonello da qualche anno quando quest’estate l’ho incontrato a Barcellona. Una telefonata, un appuntamento, un treno, un abbraccio lungo abbastanza da colmare gli anni trascorsi. E poi una giornata al sapore inconfondibile di ricordi e affetto. 
Lui vive lì, insieme a una ragazza col sorriso negli occhi. Sono belli insieme. Sono belli anche quando non sono insieme, accesi da una bellezza comune, che traspare in ogni cosa che pensano o fanno. Ho visto la loro casa, abbiamo mangiato insieme, ci siamo commossi rincorrendo i fotogrammi del viaggio tenuti in serbo per momenti come questo, svegliando la memoria e resuscitando i ragazzi che eravamo. 
Il giorno dopo io avrei cominciato il mio cammino verso Santiago. Prima che salissi di nuovo sul treno ci siamo abbracciati. Forte. Più forte. Mi ha detto  “buona fortuna”, solo questo. Valeva però come “buon viaggio”, come un “ci sentiamo”, oppure, senza sentirci, “ci incontriamo nei pensieri belli”. Valeva come “ti voglio bene”. Davvero. Credo si possa applicare al  bene, a volte, la stessa logica che si applica al dolore; lieve è quello che ha voce, grave quello muto.
Mi sono sentito al suo fianco proprio ieri, mentre leggevo una sua mail: nel suo racconto ho visto chiaramente la sua espressione, sempre uguale, solo un’insignificante manciata di anni in più e la preoccupazione di non sapere se ha fatto abbastanza a piegare un po’ la pelle intorno agli occhi e sulla fronte. Mi sono chiesto se gli ho mai raccontato davvero chi sono, come sto, cosa faccio. Gli ho parlato abbastanza di te?

Tu mi guardi, annuisci come se stessi leggendomi la mente e la memoria, io ti amo e spero che la mia espressione sappia comunicartelo. Sono così, ho l’ansia di saperti piena del mio bene, di  vederti sorridere davanti alle cose buffe che metto in scena per te, come quando eravamo a Parigi e in metro ho cominciato a urlare “sono stanco, non ce la faccio più, ti prego portami in braccio”, prima che tu potessi iniziare la tua lagna ormai nota. Ridevi, riconoscendoti nella mia esibizione, ridevi e ridevi, a me veniva da piangere. L’ansia di farti vedere un film della mia infanzia, e scoprirti a distanza di settimane fare ancora la mossa della gru di Karate Kid, o ripetere fino allo sfinimento una battuta che ci aveva fatto tanto ridere. 
Ho l’ansia di sorprenderti, sbalordirti al telefono quando ti chiamo e a volte, prima di dirti “ciao”, ti ripeto a memoria una frase della lettura che ti ha assegnato la maestra, sulla quale ti stai esercitando proprio in quel momento. No piccola, non ho poteri magici. Devo confessarti che c’è un gruppo whatsapp di scuola, nel quale ogni tanto una mamma chiede ai genitori di pubblicare la foto della lettura del giorno perché magari il figlio era distratto, o malato.

Sai, tesoro, adesso, in questa macchina, sul finire di questa canzone, mi sale una nuova ossessione. Voglio che la vita ti riservi amici come i miei. 
Come Antonello che vive a Barcellona, ma è come se abitasse ancora alla Caffarella. 
Come Gianluca, che si è appena trasferito a Mosca e mi manda foto della tomba di Gagarin, dimostrandomi di essere lontanissimo, eppure nello stesso luogo in cui sono io quando una notifica mi avvisa del fatto che mi sta pensando, che mi conosce come pochi, che non smette di  percorrere la nostra strada comune. 
Come Liberato che è a Londra da una vita, e ogni santa volta mi chiama dicendo “come stai?” al posto di “pronto”. Lui che una volta ha preso un aereo per capire cosa mi succedeva, e ha cenato da solo nella mia cucina perché io non avevo la forza di affrontare quella giornata, e mai, mai me l’ha ricordato. Lui che per i miei trent’anni mi ha regalato la colonna sonora della nostra storia, tutte le note, non una in meno, del nostro conoscerci. E adesso, a distanza di dieci anni, quel disco è incorniciato e poggiato sulla scrivania, pronto a uscire da questa casa e seguirmi ovunque andrò. Liberato quest’anno compirà quarant’anni, e io in fila a seguirlo, anche se non so se sono pronto e mi sento ancora il ragazzino al binario che lo portava in aeroporto e lo salutava col pugno alzato cantando in mezzo alla gente “fratello non temere che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria”, come c’entrasse davvero qualcosa. Chissà se lui se lo ricorda. Se sa che in ogni istante dei quasi 33 anni che ci conosciamo e di tutti quelli che verranno per me ne ha sempre avuti cento e ne avrà sempre solo sette.
Vorrei prometterti amici come quelli che ho io, irrinunciabili. Vederli crescere al tuo fianco, schierati dalla tua parte. Amici che ti stiano vicino, dentro. 
Amici capaci di essere te, ogni volta che tu non sai più chi sei. 

Arriviamo, scendo per primo e vengo ad aprire il tuo sportello. Le tue compagne riconoscono la mia macchina, ti salutano come se non ti vedessero da mesi, ti aspettano. Penso non sia necessario desiderare o prometterti niente. Hai già la tua vita, il tuo modo speciale di essere te stessa, riempi stanze di cuori e amore. Qualche giorno fa eri al parco, una tua amica stava piangendo, le sei andata vicino e le hai detto “adesso pensiamo intensamente a qualcosa di bello”. Eccolo il segreto dell’amicizia. L’hai scoperto. Dovremmo scrivere a Lorenzo questa sera, per farglielo sapere. 

Scendi dalla macchina, ci salutiamo. Ogni volta che ti lascio davanti scuola, tu mi baci distratta. Mentre stai entrando io ti chiamo e ti chiedo di darmi un bacio più forte, poi un altro e un altro ancora, fino a quando mi dici “papi devo andare”. La mia espressione supplichevole ti spinge di nuovo verso di me, un ultimo velocissimo bacio che si perde nel sorriso che ti stampi sulla bocca e ti porti in classe. Hai mai saputo che, dopo che sei entrata, rimango un sacco di tempo davanti scuola a guardare le mattonelle dell’atrio che hanno visto i tuoi passi un attimo prima? 

Come mai un casino sembra un posto perfetto.
Quanto abbiamo riso, e quanto rideremo.

Sui fallimenti e i successi – parte seconda

Sin da quando avevi pochi giorni di vita, ti sei addormentata al suono delle mie canzoni. Dopo alcuni tentativi, la scelta è caduta e rimasta su La Locomotiva che è diventata la mia ninna nanna per te.
Non saprei davvero quantificare in sette anni quante volte te l’ho cantata. Milioni probabilmente. E funzionava e non ha mai fallito. Persino oggi, che non hai più bisogno di ninne nanne per addormentarti, quando ti vedo un po’ triste o distratta, poco propensa a prender sonno, o preoccupata per qualcosa, mi basta accennare Non so che viso avesse e neppure come si chiamava, perché tu immediatamente resetti i pensieri e rientri in una dimensione di ascolto e quiete.
È quindi abbastanza normale che per te Francesco Guccini è stato da sempre come uno di famiglia. Negli anni è stato il signore con la barba, “quello che canta la mia ninna nanna”, il cantante preferito di papà, per poi diventare da un certo punto in poi Francesco Guccini e basta.

Per questo, quando qualche giorno fa ti ho detto “sono andato a trovare Guccini”, tu non hai fatto la faccia basita e sconvolta che hanno fatto le altre persone alle quali ho raccontato questa impresa senza senso. Semplicemente perché devi aver pensato la stessa cosa che avresti pensato se ti avessi detto “sono andato a trovare i nonni”. Io però volevo raccontartelo perché tenevo a condividere con te una delle amarezze più profonde della mia vita, anche per dimostrarti che purtroppo le delusioni esistono. Eccome se esistono.
Tu mi hai chiesto “ma quando ci sei andato e con chi?”. Io ti ho detto i nomi dei miei due amici che mi avevano accompagnato e tu hai aggiunto “e io dov’ero?”, come a dire “e perché mai non mi hai portato con voi!?”. In fine, mi hai chiesto perché ci sono andato. Io ti ho detto “Hai presente il disco de La Locomotiva? Volevo che me lo firmasse e lo dedicasse a noi due”.

Siamo partiti un giovedì mattina molto presto. Roma-Pavana fanno quasi 400 chilometri. Arrivati lì, ci siamo fermati nell’unico bar del paese, abbiamo preso un caffè con estrema disinvoltura e quando io mi sono schiarito la voce, il barista ha alzato un braccio e indicato una casa bianca in fondo alla discesa, a dimostrare che caffè come quelli ne aveva serviti migliaia in tutta la sua carriera. Finita la discesa, abbiamo varcato un cancello verde, poi percorso un vialetto in ciottoli e arrivati davanti ad un portone che io ho riconosciuto immediatamente come quello che avevo visto in molte foto su internet. Il portone era aperto. Io mi sono affacciato dentro e con la voce tremante ho detto “Maestro!”. È arrivata subito dopo una donna. Ci ha sorriso educatamente e si è detta molto dispiaciuta perché il Maestro era fuori casa e sarebbe tornato solo il giorno dopo. Io ho ringraziato e le ho lasciato la bottiglia di Mater Matuta che avevo portato da Roma e rivolgendomi ai miei amici ho solo detto “andiamo”. Alla fine del vialetto, i miei amici mi hanno dato entrambi una pacca sulla spalla e uno dei due ha sussurrato “certo la bottiglia potevamo tenercela”. Io ho capito quanto fossero delusi pure loro, anche se ufficialmente erano lì solo per accompagnarmi in questa impresa di cui mi avevano sentito parlare da almeno vent’anni. 

A distanza di due settimane ci abbiamo provato di nuovo. A parte il bar, la scena d’esordio è stata più o meno identica, con la differenza che stavolta la stessa donna ci ha detto che sì, il maestro era in casa ma non voleva essere disturbato perché stava lavorando con il suo editor al suo nuovo libro. Mentre ci diceva questo noi eravamo nel cortile all’aperto, senza ombrello, e stava diluviando. Io ho detto “ma noi eravamo già venuti due settimane fa”. Come se questo ci desse qualche credito in più. Lei allora ci ha indicato un punto al piano terra della casa, riferendoci che al di là della finestra avremmo visto il Maestro. Ci siamo avvicinati in punta di piedi, lo abbiamo visto seduto su una sedia mentre stava lavorando con un’altra persona. Io ho bussato al vetro, lui ha alzato lo sguardo, sorriso e fatto ciao con la mano. Dopodiché ha ripreso come nulla fosse a fare quello che stava facendo. Tuo padre è rimasto qualche secondo a guardare dentro, immobile davanti ad una finestra, con la pioggia che gli bagnava il giubbotto e un disco stretto sotto al braccio. Poi gli altri due lo hanno tirato via.

Ti racconto tutto questo mentre la radio della macchina suona un pezzo di Guccini. Tu ascolti molto avidamente e alla fine mi chiedi, come fai sempre, “e poi?”, pensando ci sia un seguito. In realtà, ti dico, non c’è un poi. Nel senso che ce ne siamo tornati a Roma e i miei amici mi hanno giurato che non ripeteranno una terza volta l’impresa. Ti spiego che sono molto deluso e che davvero non sono certo di volerla ripetere nemmeno io. Provo ad imbarcarmi in una lettura sulla capacità di saper dire basta e accontentarsi ma tu mi fermi subito e mi dai una lezione che non dimenticherò mai. Mi dici, con un tono che ti fa sembrare molto più grande, intanto che tu ci tieni ad avere quel disco firmato e che – precisi – ci scriva chiaramente che è per entrambi. Poi che non si fa tutta quella strada per niente e che, dici quasi urlando, la prossima volta dovrò dire alla signora della porta che se il Maestro non c’è, quanto meno mi dia il suo numero di telefono, così potrò chiamarlo e mettermi d’accordo direttamente con lui per non tornare a vuoto. In fine, se dovesse avere ancora da lavorare, dovrò bussare più forte alla finestra e urlare “hey! Io ho fatto tanta strada apposta per te! Apri!”.

La morale stavolta non devo raccontarla io a te. È così evidente.

Because the night

Adoro quando sei al parco con le tue amichette, mi vedi arrivare da lontano, fai quella corsa a perdifiato per venirmi incontro e saltarmi in braccio, poi torni dalle tue amiche a giocare per qualche altro minuto e poi dici loro “stasera sono a Testaccio”. Mi fa ridere tantissimo.

Il tragitto da casa di tua madre a casa mia occupa di solito lo spazio di circa venti minuti. In questo spazio chiacchieriamo. Ti chiedo di raccontarmi di scuola oppure generalmente non c’è bisogno di chiederti niente perché tu rompi subito il silenzio dicendo “papi lo sai…” e cominci uno dei tuoi racconti fittissimi, nei quali spesso faccio fatica a raccapezzarmi e sono costretto, di tanto in tanto, a interromperti, facendoti spazientire, per chiedere aggiunte di trama.

Se però durante il tragitto ti vedo stanca oppure ti chiedo di raccontarmi qualcosa e tu mi dici di non averne voglia, allora ti dico “ti faccio ascoltare un pezzo che mi piace un sacco” e ne approfitto per caricare su spotify tutti i miei gruppi preferiti, mentre ti spio dallo specchietto retrovisore per vedere la faccia che fai. È così che ti ho dato in pasto tutta la mia musica migliore. Ti ho fatto ascoltare Jimi Hendrix, i Cream, i Doors, gli Who, i Led Zeppelin, i Credeence, i Free, i Ten Years After, i Blue Oyster Cult, i Velvet Underground. Ho spostato l’attenzione sul grunge e hai conosciuto i Pearl Jam, i Soundgarden, i Nirvana, gli Smashing Pumpkins, i Red Hot Chili Peppers, gli Screaming Trees e gli Alice in chains. Il cantautorato italiano: Guccini, De Andrè, De Gregori, Battiato, Gianmaria Testa, Fossati, Lolli, Daniele e Vecchioni. I grandi classici Neil Young, il boss, Johnny Cash, Lou Reed, Dylan, Bowie. Poi alla rinfusa gli Smiths, i Clash, i Radiohead, i REM, Jeff Buckley. Poi ho pensato che se avessi continuato così avresti pensato che le donne non hanno alcun accesso all’olimpo musicale di tuo padre e allora ultimamente ho cominciato a farti sentire Alanis Morissette, Dolores O’Riordan, i Fairport Convention, Janis Joplin. Ecco, di solito in tutti questi casi tu ascolti, anche con una certa curiosità, poi non mi dici niente fino al momento in cui io ti chiedo “allora? Ti è piaciuto?”. E tu rispondi distrattamente “mmm, sì”, mai particolarmente convinta.

Ultimamente pensavo di aver trovato qualcosa che avesse smosso qualcosa in te quando ho messo su Because the night di Patti Smith, perché mi hai chiesto di riascoltarla. E io felicissimo l’ho fatta ripartire dall’inizio, e poi di nuovo. Alla fine della terza esecuzione, mi hai chiesto di cosa parla la canzone e io l’ho fatta ripartire ancora una volta e ti ho tradotto qualche stralcio del testo. Pensavo che a quel punto mi avresti detto “papà questa canzone mi piace tantissimo”. Invece mi hai detto che era carina. “Come? Solo carina?” Ti ho chiesto io, ma tu eri già da un’altra parte. 

Poi però qualche giorno fa eravamo a casa mia e mi hai detto “papà vuoi sentire la mia canzone preferita?”. “Certo”, ti ho risposto, pensando che avresti tirato fuori una canzone della colonna sonora di uno dei tuoi film di animazione. Hai allora afferrato il mio telefono che era già collegato alla cassa bluetooth, aperto Spotify e senza farti scorgere hai digitato il titolo di una canzone. Dopo qualche secondo sono partite le note di una canzone che non conosco, tu hai afferrato un microfono immaginario – come ho visto fare solamente ad un’altra persona nella mia vita – e cominciato a cantare a squarciagola:

Un po’ mi manca l’aria che tirava 
O semplicemente la tua bianca schiena… nananana 
E quell’orologio non girava 
Stava fermo sempre da mattina a sera. 
come me lui ti fissava 
Io non piango mai per te 
Non farò niente di simile, no mai… nononono 
Si, lo ammetto, un po’ ti penso 
Ma mi scanso 
Non mi tocchi più
Solo che pensavo a quanto è inutile farneticare 
E credere di stare bene quando è inverno e te 
Togli le tue mani calde 
Non mi abbracci e mi ripeti che son grande, 
mi ricordi che rivivo in tante cose… nananana 

Perché la verità è che io posso provare a corromperti con tutte le mie più grandi hit e forse prima o poi troverò qualcosa che colpirà la tua attenzione e magari ti piacerà ma, al di là di tutto, tu sei una persona, con la sua individualità, il suo libero arbitrio e, soprattutto, i suoi gusti. 

E nonostante Tiziano Ferro, è davvero meraviglioso che sia così.
Presto però ti farò conoscere il blues.