T’immagini

C’è stato un tempo nel quale ogni chiamata con tua nonna aveva una durata prestabilita che non superava mai, dico mai, i due minuti e mezzo. Anche il plot di queste telefonate era invariabile, suonava più o meno così:

– Come va?
– Bene e a voi?
– Tutto bene.
– Avete mangiato?
– Sì e tu?
– Non ancora, tra poco.
– Che tempo c’è?
– Ha piovuto. Ora sole, lì?
– Sole.
– Avete deciso quando venire?
– Non lo so, spero presto.

Poi arrivava il momento dei saluti che era introdotto da una lunga serie di miei “vabbè dai” che annunciavano la fine della conversazione. Mediamente due/tre volte la settimana, a orari fissi, in tarda serata e spesso anche domenica all’ora di pranzo. Nel frattempo, correvano via interi spezzoni di vita nostri e loro di cui reciprocamente ignoravamo l’esistenza. Se tua nonna veniva ricoverata in ospedale, che so per dei controlli, un nervo infiammato, una cisti, io non lo sapevo; se tuo nonno piantava o raccoglieva fagioli, ceci, patate, pomodori, zucchine o melanzane, io non lo sapevo; se i tuoi nonni facevano un viaggio, spostavano una parete di casa, compravano un divano nuovo o mandavano in assistenza la tv o la lavatrice, io non lo sapevo. Se tu cadendo ti sbucciavi un ginocchio, se imparavi ad andare in bicicletta senza rotelle o a pattinare, se ti regalavo un fumetto e ti trovavo seduta in bagno a leggerlo voracemente, loro non lo sapevano; Se io ricevevo una promozione o una gratificazione a lavoro, se mi iscrivevo a un corso per approfondire qualche argomento, prendevo la patente della moto, andavo allo stadio e vincevo oppure tornavo a casa depresso perché avevamo perso male, stai pur certa che loro non lo sapevano. In compenso però conoscevo benissimo la loro dieta e le condizioni climatiche di quel pezzo d’Italia. 

Probabilmente tutto ciò ti suona strano e non nostro. Perché è contrapposto a una realtà attuale molto diversa, fatta di lunghe telefonate, di racconti dettagliati, di risate, approfondimenti, riflessioni, domande. Che cosa è cambiato io non saprei dirlo completamente. Posso raccontarti che prima ancora che tu la conoscessi, un giorno Agata prese il mio telefono e inviò un messaggio a tua nonna scrivendole “ti voglio bene” seguito da un cuore. Io non lo avevo mai scritto e non lo avevo nemmeno mai detto. Posso dirti che prima ancora che tua nonna e Agata si incontrassero di persona già facevano lunghe chiacchierate al telefono il cui argomento principale eravamo io e te. Posso dirti che, senza rendermene conto, un giorno ti chiesi di andare dai nonni prendendoci due giorni da scuola e da lavoro e mentre tornavamo stavamo già entrambi progettando il viaggio successivo e che da allora raramente lasciamo trascorrere più di tre o quattro settimane senza ritornare. E, infine, posso raccontarti di come dopo quasi 40 anni trascorsi in un silenzio devastante, una domenica ci siamo seduti a tavola e ho chiesto a tua nonna se ci raccontava come aveva conosciuto tuo nonno. Così, d’improvviso, mentre sciorinava sulla tavola apparecchiata il suo racconto d’altri tempi, ho distolto lo sguardo dai suoi occhi allegri e commossi e l’ho lasciato sorvolare tutt’intorno. Ho visto Agata rapita e divertita, ho visto tuo nonno imbarazzato e contento, tua cugina che sorrideva, te che ascoltavi con un orecchio e con le mani ti avvinghiavi a Agata. Ho visto me in mezzo a tutti noi e improvvisamente ho fatto una scoperta che mi ha lasciato senza fiato: questa è la mia famiglia ed è la famiglia più bella del mondo. 

C’è un merito in tutto ciò: di Agata, tuo, dello psicanalista, di San Paolo, della pazienza dei tuoi nonni, di tante altre combinazioni fortunate che hanno portato a questa riscoperta. La verità è che il merito stesso è della vita che prende a volte direzioni insensate, anche se mai sbagliate, e che ti porta a fare magari un tragitto lunghissimo per arrivare dove saresti potuto arrivare con un semplice saltello, esattamente dove la risposta a tutte le domande fa capolino in ogni storia (e la nostra non fa certo eccezione): lì dove sta l’amore. 
Nel nostro bagno di casa, la tazza che contiene gli spazzolini recita “la vita può esser capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti”. Forse non ho ancora la capacita completa per capire tutto ciò che è successo finora, so però per certo che ho avuto la più straordinaria fortuna si potesse desiderare. Non fortuna di caso, casualità. Ma fortuna di benedizione, salvezza, grazia. Questa fortuna ha tanti nomi e tante facce: la tua, quella di Agata, quella di nonno e nonna, degli zii, delle cugine, degli amici. E la mia.

Point Blank

Non so dirti esattamente da quanto e come aspettassi questo momento. Ansia, come sempre, un po’ di emozione, tanta frenesia e la solita vecchia tentazione di disseminare check point giù per la mia vita. Questo è uno di quelli. Quelli importanti, significativi, probabilmente con la bandierina un po’ più grande delle altre.
Negli anni, me lo sono immaginato in tanti modi diversi, a seconda dell’euforia o della tristezza che riempiva il liet motiv della mia esistenza nel momento in cui mi fermavo a riflettere. “Affitterò una villa con piscina, magari in Umbria o in Toscana, e ci inviterò per tre giorni tutti i miei amici”, pensavo, immaginandomi probabilmente una di quelle feste hollywoodiane, con il patron che esce in vestaglia dalla magione, mentre una platea di bikini e bermuda lo attende a bordo piscina. Lo festeggerò buttandomi col paracadute, organizzerò una braciolata in montagna, un viaggio esotico, voglio arrivarci col tatuaggio di Moby Dick sull’avanbraccio sinistro. E poi le cose che avrei voluto fare prima di questo traguardo: finire un romanzo, leggere Infinite Jest, rileggere il Quijote, imparare a suonare la batteria o la chitarra (o entrambe), comprare una V7, trovare un lavoro migliore, viaggiare, assistere almeno a un concerto del Boss, di Dylan, di Vedder, incontrare finalmente il Maestro e chiedergli di firmarmi Radici. Di quante cazzate mi sono riempito la testa in tutti questi anni. Cose futili, a volte superficiali, insensate, certamente non importanti. A volte ho davvero l’impressione di essere il ragazzino che raccontava tua madre. Quello che si riempie la bocca e il cuore di voli d’airone ma che non sa volare nemmeno come un tacchino. Ogni tanto ci penso. Mi chiedo chi sia davvero questo quarantenne con i capelli da tagliare e la barba a chiazze, gli occhiali vecchi perché quelli nuovi sono diventati a loro volta più vecchi e graffiati, sei, sette chili di troppo e un continuo programma di ambizioni e progetti che rimangono puntualmente dentro la scatola incellophanata appena afferrata dallo scaffale. Non sono i giorni come quelli che racconta il boss in fila uno dopo l’altro? Io in fila metto le scintille della mia testa, lame di luce che escono dal coperchio sopra al quale il gigante si è seduto. E a volte quel coperchio è proprio chiuso, altre sigillato, e qualche volta, ormai solo qualche volta, riesce a scivolare di pochi millimetri di lato, lasciando che il suo contenuto trabocchi un poco, esaurendosi però nell’attimo esatto in cui lo intravedo appena. Quanto è pessimista tuo padre. Imparerai, se non lo hai già fatto, a riconoscere questo pessimismo, forse anche ad amarlo o a sorriderne. Spero però non ti appartenga mai perché è una gabbia che disegni da solo e dentro la quale ti chiudi a doppia mandata ingoiando la chiave. Sembra un ambiente confortevole e piacevole perché ti fornisce tutto ciò di cui hai bisogno: le rassicurazioni e la certezza che peggio è sempre più comodo e nella migliore delle ipotesi, se ti sarai sbagliato, sarà andata tutto sommato meglio di quanto avevi puntato. Non è un modo per vincere sempre? È così che sono cresciuto, sin da quando avevo più o meno la tua età. Mi dicevo: se abbasso le mie aspettative al minimo, tutto quello che verrà sarà meglio e quindi sarò felice. E così facendo limitavo al minimo i danni collaterali, costringendo sogni e ambizioni a nuotare in una pozzanghera di fango. Ma non puoi scappare sempre e prima o poi chi sei ti trova. 

Faccio ancora spesso molti degli errori del passato. Qualche volta confondo il passato col presente. A volte sono così stupido da vederci dentro il futuro. Ma ciò che rimane al di là di questi momenti isolati in cui quasi mi esercito ad essere malinconico come in una parte che interpretavo in uno spettacolo andato in scena tanti anni fa, è un prato di trifogli e margherite. Io mi sdraio con un filo d’erba in bocca e le mani incrociate dietro la nuca a contare le nuvole che passano nel cielo, mentre tutto intorno è pieno di quadrifogli che aspettano solo di essere trovati. Ogni tanto mi alzo, per ammirare la visuale orizzontale. Certe volte corro. Altre cammino piano, pianissimo. Ciò che mi piace di più al mondo è stendere le braccia, come faceva Montella dopo un gol, alzare la testa al vento e chiudere gli occhi. Di solito faccio un passo in avanti e inciampo. Quando riapro gli occhi ho un quadrifoglio dritto davanti agli occhi. Io mi dico che è stata fortuna o caso ma dentro so che è soltanto destino. Perché nel destino di ognuno c’è scritta la propria felicità. Sai che una volta avevo paura di pronunciare questa parola? La chiamavo serenità, come fosse la stessa cosa. 
Ho raccolto un mazzo di quadrifogli e tutto ciò che voglio è continuare a starmene qui a sentire il vento sulla pelle, il sole nei pori, l’erba umida sotto i polpastrelli, il profumo della primavera che abita il mio epitelio olfattivo. Non ho bisogno di niente perché niente mi serve e, sai, mercoledì è un giorno come un altro, bello come tutti gli altri. Vedi, te lo volevo dire da tanto tempo, amore mio, e ci giravo intorno, certe volte ci saltavo sopra. Ora che però mi rigiro questo quadrifoglio meraviglioso tra le dita, mi dico che non ha nessun senso continuare a non dirlo. Sono innamorato. Ecco, l’ho detto. 

Tre vite

Amore, 
Oggi è Natale, lo aspetti da almeno due mesi. Forse dallo scorso anno. È arrivato come tutte le cose; prima lontanissime, poi tra le mani. 
Stai per svegliarti, manca solo qualche minuto. Già ti vedo. Scalza, corri fino all’albero con gli occhi grandissimi di certezza e stupore, ti siedi sulle radici trasformate in regali per te e ridi, ridi con le braccia che afferrano uno dei pacchi per scuoterlo, ridi guardandomi a cercare un compagno con cui dividere la tua gioia. 

Sei tu. 
Così sicura che la notte abbia compiuto il suo miracolo, eppure sorpresa di assistere alla magia che si compie ancora. 
Il Natale sei tu. Piena di certezza e stupore, e gioia.
E sei così bella che io non so dirlo. 
Allora rido, rido anch’io. 
E potrei dire altro, tanto altro. Adesso, aspettando di sentire i tuoi passi, osservando la porta da cui ti vedrò uscire. Potrei dirti cose importanti, interessanti anche. Invece starò zitto fino a quando aprirai gli occhi su questo giorno, immaginandoti. 
Certo che al mio cuore mancherà un battito e alla mia gola un respiro vedendoti comparire. 
Stupito del fatto che al mio cuore mancherà un battito e alla mia gola un respiro, vedendoti comparire.
Certo della tua gioia, stupito ancora una volta di quanto la tua felicità possa essere potente, e perfetta, sempre nuova, capace di posarsi sulla mia pelle e proteggermi da ogni cosa. Ogni cosa.

Questa lettera sarà breve. Sta per finire.
Solo un istante per ricordarti di fare quella corsetta verso di me e saltarmi al collo quando avrai finito di scartare i tuoi regali, perché credo che oggi, solo oggi, potrei anche rischiare di perdere due battiti e due respiri, e sopravvivere. E sentirmi così bene. Così bene.
Mia piccola fortuna, mia certezza stupore e gioia, buon Natale.