Roma capoccia

So che ti pare tutto complicato adesso. Più che complicato, a tuo sfavore. Hai l’impressione – penso – che ti stia trattando male, trascinando in qualcosa che non hai voluto né scelto e per il quale non ti ho dato alternative. Nonostante stia passando intere ore a raccontarti quanto fortunata tu sia, non riesci a toglierti di dosso l’aura di tristezza e nostalgia che ti lega a un passato recente nel quale eravamo in due, ovunque e comunque. Ora invece siamo in tre e ti sta bene, a volte anche benissimo. Ma è l’idea che ti fa star male e con la quale non riesci a venire a compromessi. L’idea che 2 non sarà mai più 2 e 3 non è divisibile per 2. Perché il tuo 2 è fatto di passeggiate, risate, scorribande, complicità, sponde nelle quali le nostre palle rimbalzano da un lato all’altro, finendo qualche volta in buca ma un istante dopo sono di nuovo sul tappeto verde pronte a rotolare allegre. Da un paio d’anni c’è però una palla in più sul nostro tavolo da gioco. È una palla verde, non so dire se sia il 6 pieno oppure il 14 mezzo. Gioca insieme a noi che siamo certamente l’1 pieno e il 9 mezzo, entrambi gialli come il sole dell’inno della Roma. Il che vuol dire che se Agata è il 6 sta tra le mie palle, se invece è il 14 sta con le tue. 

Il punto è che tu finora hai sempre pensato che Agata giocasse campionati interi con me quando tu non ci sei ma solo alcune sessioni comuni in tre, ogni tanto, senza scadenza. Invece col tempo ti ho fatto capire che voglio Agata nella nostra squadra, tutti i giorni, in un girone che non è né mio, né tuo ma nostro. Ma non è facile, come non è stato facile far nessuna delle cose che abbiamo fatto insieme e solo poi sono diventate normali. Così ti pare assurdo e complicato lasciare il nostro tavolo per passare a giocare su un tavolo nel quale possiamo muoverci meglio tutti e tre. È per questo che ti arrabbi con me e mi dici che non ne vuoi sapere. Eppure mi basta ritornare a casa e trovarvi sotto la stessa coperta abbracciate mentre guardate Maria De Filippi, per capire che non c’è nulla a tuo svantaggio in quello che stiamo facendo. Ma non riesco a convincerti che sia la cosa migliore, di fidarti di me, che ci sarò sempre e tra noi due non cambierà mai nulla a prescindere dal tappeto verde sul quale giochiamo. Fidati di me, ti ripeto fino allo sfinimento. Ma non ce la fai a sentirmelo ripetere e ti volti dal lato del finestrino mentre ti porto a scuola. 

Voglio raccontarti una cosa anche se so mi odierai perché come sempre riduco tutto a una metafora calcistica. Lo scorso dicembre giocavamo in casa contro l’Inter. Era una di quelle partite toste nelle quali sai che può succedere tutto e non escludi nemmeno il miracolo. Io, oltre al mio normale attaccamento al calcio e all’orgoglio di tifoso, speravo doppiamente di tornare a casa con una vittoria sulle labbra. Lo speravo perché Agata odia l’Inter, per ragioni sue e un po’ complicate da spiegare qui. Odia l’Inter e ama la Roma, ma soltanto perché ama me. Così volevo tornare a casa e entrare dicendo “Pelato di merda piglia e porta a casa!” che è una frase in codice che l’avrebbe fatta ridere e gioire, ubriaca insieme a me dell’euforia di una vittoria insperata. 

Insomma, loro primi in classifica, noi impantanati in una mezza classifica senza onore né gloria ma dentro la pancia dello stadio era chiara a tutti la voglia che avevamo di vincerla. Alla fine del primo tempo eravamo però già sotto di tre gol e i nostri si passavano la palla senza convinzione e senza costruire. Il disegno era di quelli sconcertanti che avrebbero potuto rivelare una disfatta simile a quella recente di Bodo o quelle più antiche e non meno pesanti contro Barcellona, Bayern, Manchester o Fiorentina. Per fortuna o per pietà dell’avversario, la partita non ha subito quella piega e a un quarto d’ora dalla fine è successo qualcosa che non avrei mai immaginato e che non avevo mai visto prima. Eravamo sconfitti, senza alcuna possibilità di recuperare il risultato. Persi in una stagione mediocre, senza ambizioni e senza midollo. Eppure la curva prende a cantare un coro che in breve contagia tutto lo stadio: Ale ale Roma ale, Ale ale Roma ale. A ripetizione, senza fine e senza senso. La partita era persa e anche le ambizioni della stagione eppure tutto lo stadio cantava a squarciagola quel coro, come una nenia infinita, dolce, malinconica, viva. Ale ale Roma ale, fino all’ultimo minuto di gioco, fino al triplice fischio dell’arbitro e oltre. Non esisteva più lo stadio, non esisteva la partita, né la sconfitta. Esisteva solo la Roma e la sua gente. Nessuno cantava più per ciò che avveniva o poteva avvenire in campo. Tutti, indistintamente, cantavano per ciò che avevano nel cuore, per la Roma. Fino a quel momento, non avevo mai capito esattamente cosa significasse il titolo del nostro inno “Roma non si discute, si ama”. Fino a quel momento, non avevo mai cantato veramente il mio amore per la Roma, insieme a migliaia di altre persone che non conosco e non conoscerò mai. Cantavo, piangevo, incespicavo nelle poche sillabe di quel ritornello, poi ricominciavo. Cantavo, piangevo, amavo. Una passione così duratura, lunga, che legava il 90 per cento della mia esistenza a una squadra. Un bambino di 7 anni che scopre il calcio, un quarantenne felice che ama allo stesso modo e con la stessa forza di cent’anni fa.

Perché ti ho raccontato questo? Non lo so esattamente ma so per certo che significa qualcosa. Perché ti può sembrare di vincere o che tu abbia tutte le carte in regola per sperarci. A volte puoi anche perdere sonoramente, prendere schiaffi che ti suoneranno nelle orecchie per tutta la vita. Ma l’amore, l’amore non finisce mai e io te lo canterò sempre, fino all’ultimo respiro che mi sarà concesso per ricordartelo, ricordarti che al di là delle sconfitte o delle vittorie, esiste sempre l’amore. Anche se adesso ti sembra banalotto e già sentito, fidati di me. Perché questo amore è tutto ciò che ci rimarrà nei momenti complicati che ci sono e che verranno. L’unico calmante che ci farà sentire di nuovo bene quando ci sentiremo soli, in ansia, preoccupati o tristi. Il coraggio che ci servirà quando avremo paura. Fidati di me, perché sono il tifoso più accanito, più assiduo, più scalmanato che c’è.

Una come te

Hai una capacità incredibile di contrastare l’ingiustizia. Una specie di piglio che non ti abbandona fino a quando non dimostri, rimanendo senza fiato, il torto che hai subito. Il fatto è che qualche volta questi torti non sono affatto torti ma semplici situazioni nelle quali ti trovi e credi di subire. Storie attraverso le quali ti contrapponi agli altri e ritieni di incassare anche lì dove non ci sono contrapposizioni. Imbarchi la rabbia che va a nozze col tuo orgoglio, e cominci un’arringa che usi come un grimaldello per forzare la serratura di chi ti sta di fronte. Ascolti, o fai finta di ascoltare, poi ritorni esattamente al punto di partenza, cominciando una nuova frase con “sì, però”. 
Mi fai un po’ ridere e allo stesso tempo arrabbiare. Provo con la pazienza di un bonzo a spiegarti che le cose non stanno esattamente come le hai viste tu, mi interrompi e ritorni sul punto ma se provo a interromperti io allora vuol dire che non ti ascolto e faccio il prepotente. Una partita a ping pong nella quale tu interpreti Forrest Gump e io me stesso (e anche nella vita reale non ho mai colpito più di tre volte consecutive la pallina che arrivava nella mia parte di campo).
È per questo che l’altro giorno ti ho detto per scherzare che quando sarai grande ti pagherò l’università solo per iscriverti a Giurisprudenza. Se non lo farai, ti ho detto, farai bene a cercarti un lavoro per pagarti gli studi. Tu hai riso probabilmente senza capire. Poi mi hai chiesto perché penso che dovresti diventare un avvocato da grande e ti ho risposto che solo gli avvocati si accaniscono così tanto nei confronti delle cause perse. Stavolta ho riso io e tu sei rimasta a riflettere guardando da una parte. La mia ansia è venuta in tuo soccorso e mi ha fatto dire che stavo scherzando e avrai il sacrosanto diritto di scegliere tutto ciò che vorrai, tranne sposare un laziale. Stavolta abbiamo riso entrambi.

La mia professoressa di matematica al liceo voleva mi iscrivessi a Matematica. Credo avrebbe accettato anche Ingegneria o Fisica. Quando, dopo l’esame di maturità, le dissi che mi sarei iscritto a Lettere mi guardò come fossi la pozzanghera d’olio di una bottiglia che ti è appena scivolata di mano schiantandosi sul pavimento. Disse “Perché sprecare una mente scientifica a Lettere?”.  Io sorrisi amaro e non risposi ma lasciai che quella domanda mi ossessionasse per tutta l’estate e usasse la mia mano per mettere una croce su una Facoltà scientifica al momento dell’iscrizione. Scelsi Informatica per far contenta lei, mio padre che voleva mi iscrivessi a Economia, me stesso a cui piacevano i computer. Nessuno dei tre in realtà trovò soddisfazione nella scelta fatta e dopo un anno in cui cercai disperatamente di capire cosa si studiasse nel Corso che avevo scelto, diedi un colpo di mano e tornai sulla scelta iniziale. Ma a quel punto era di nuovo tardi per tutto. Avevo perso un anno, la borsa di studio e pure un bel po’ di stima. Mi iscrissi sì a Lettere ma puntai verso l’ennesimo ripiego. Ero a Roma, capitale dell’archeologia mondiale. In questo vidi il prospero futuro lavorativo che mi avrebbe accolto dopo la laurea, soppiantando per sempre le ambizioni letterarie che mi avevano tenuto compagnia fin lì. Fu un errore naturalmente. Perché non servì molto tempo per capire che di archeologia, reperti e stratigrafia mi interessava ben poco. Ma stavolta era davvero troppo tardi per cambiare ancora e con un po’ d’ostinazione sono arrivato fino alla fine del percorso. 

Sai già che ti racconterò questa storia altre centotrentamila volte prima che ti iscriverai davvero all’università. Sempre che tu voglia fare l’università o che per allora esista ancora il mondo che conosciamo. Ma so che probabilmente anche allora non saprò rispondere alla domanda “quindi cosa avresti voluto fare?”, riempiendo la risposta di forse e ipotesi e voli di gallina su interessi  più o meno accattivanti. La verità è che c’è un mondo da scoprire ma quel mondo non è fuori ma dentro di te. Esplorarlo è il viaggio più misterioso e affascinante della vita. 

Celia de la Serna

È morto Maradona. Così, di punto in bianco, è arrivata questa notizia che è diventata l’unica notizia di cui parlare. Mi hai chiesto in macchina chi fosse Maradona. E io mi sono riempito il petto di orgoglio per essere il primo a parlartene. Diego Armando Maradona, ho iniziato, con l’aria dei racconti epici che – almeno per ora – ti fanno ancora cambiare posizione e allungare le orecchie a sentire la favola in arrivo. Era un bambino poverissimo, da piccolo. Talmente povero che la sua famiglia spesso non aveva cibo per tutti e sua madre doveva fingere un mal di pancia per lasciare cibo a sufficienza per i figli. Aveva un sogno, diventare un calciatore professionista e giocare un mondiale. Fece molto di più: vinse un mondiale e divenne il calciatore più forte di tutti i tempi. Perché? ti ho chiesto a quel punto. E tu hai risposto perché era molto forte o perché aveva un gran talento. E io ti ho detto che l’una e l’altra cosa non bastano a diventare il migliore e realizzare un sogno. Per realizzare un sogno serve fede. Credere incessantemente, ovunque e comunque al sogno, anche quando la povertà, la miseria, l’immensità talvolta insensata del mondo che viviamo fa di tutto per convincerti che quel sogno è più misero di te, ridicolo come solo i sogni sanno essere, inutile come un calzino spaiato. 
Tu hai fatto quella cosa meravigliosa che vorrei non smettessi mai di fare. Hai guardato fuori dal finestrino, lasciando che macchine, autobus e motorini popolassero per un secondo la tua vista e poi, senza guardare, mi hai detto: io vorrei diventare Akela da grande. E io mi sono commosso un po’, come al solito, quando riscopro che sei la cosa più bella e importante e preziosa che la vita m’abbia donato. E trattenendo un singhiozzo in gola, ti ho detto semplicemente che mi pareva perfetto. 

Sai, amore, volevo raccontarti una cosa che forse nessuno, oltre tuo zio, sa. Quando ero piccolo odiavo Maradona. Lo odiavo perché aveva reso ridicole tutte le altre squadre che giocavano contro la sua, compresa la mia Roma. Lo odiavo perché aveva trascinato il Napoli verso vittorie che nessuno avrebbe mai potuto nemmeno immaginare. Lo odiavo perché mi faceva sentire umiliato, come umiliati erano probabilmente tutti gli altri che stavano dall’altra parte del campo. Ma il problema vero è che non puoi giocare con Dio. Dio è sopra ogni cosa. Puoi stare a guardare e godere dei prodigi che ti offre ma pensare soltanto di metterti al suo livello, giocarci addirittura contro è una bestemmia indicibile. Così io pagai lo stesso prezzo di superbia di tutti gli altri che non si arresero all’evidenza. Convinsi mio padre a portarmi in giro con la mia bandiera giallorossa il giorno stesso in cui tutto il mondo si tingeva d’azzurro. Urlando come un cretino “Roma, Roma, Roma” fuori dal finestrino, mentre l’unica cosa che davvero avrei voluto fare era far parte di quel sogno che improvvisamente e senza fatica Dio aveva regalato agli umani. 

Ecco, te lo volevo raccontare per due ragioni: la prima è che arrendersi ai miracoli non è mai segno di debolezza; la seconda è che se il tuo sogno è grande e vero e autentico travolgerà chiunque e qualunque cosa lo ostacoli, anche i detrattori.  

L’estate addosso

È un periodo complicato, vero amore? Hai voluto sapere di più su me e Agata e io, nella mia maniera strampalata, forse anche arrangiata, ti ho detto quello che sentivo. E mentre dicevi “non voglio” capivo che entrambi in quel momento stavamo crescendo. Non è questo il punto di arrivo di una cosa cominciata tanto tempo fa? 
Non c’era tensione nelle parole che sceglievo mentre la mia bocca te le rivolgeva. Non c’era ansia, né paura. Ma soltanto la voglia di aprirti la porta di una stanza dentro la quale non sopportavo non fossi ancora entrata. Per lo meno, non fossimo ancora entrati insieme.
La tua compagna di classe racconta dall’inizio della scuola di avere un ragazzo. Dice che è più grande di voi, che frequenta un’altra scuola e che mentre siete a mensa, qualche volta, vi spia dalla finestra. Questo gli permette di conoscervi ad uno ad uno. Subito la tua classe si è divisa tra chi crede alla storia del fidanzato e chi non ci crede. Tu stai nel mezzo. Un po’ perché non riesci a mettere davvero a fuoco una cosa che non vedi e che di per sé ha tanti elementi che non ti tornano (ma se questo bambino va a scuola allora come può vederci dalla finestra mentre siamo a mensa?). Dall’altra però c’è la fiducia cieca che riponi nelle tue amiche, nelle persone, nel mondo in generale e che semplicemente ti impone di credere.

Di base, volevi sapere cosa significasse davvero innamorarsi. E allora senza essermelo mai preparato mi sono trovato a raccontarti qualcosa che non sapevo nemmeno di sapere. Ti ho detto che l’amore è qualcosa che riguarda chiunque, senza età e senza filtri e nasce come un fiore selvatico, senza seme, in posti dove non avresti mai creduto potesse nascere qualcosa. D’improvviso c’è e quel fiore cresce e vive alimentandosi della sua stessa e sola vita. Succede alle persone. Si vedono un giorno, poi un altro giorno, e nasce in ognuno dei due una specie di curiosità. “Wow anche a te piace il fegato alla piastra?”, “ma davvero tifi per la Roma?”, “Oddio è incredibile che anche a te faccia schifo il cocomero”. Cose così, forse banali. Poi questa scoperta diventa voglia, quasi frenesia di far sapere all’altro quali sono le cose che a te piacciono: “devi assolutamente vedere A proposito di Davis!”, “ti è piaciuto?”, “Sì, ti prego vediamo insieme I ponti di Madison County”. E ti rendi conto che quell’emozione che tu provi è la stessa che prova l’altro nel farti entrare nel suo mondo, mentre prende confidenza col tuo. E improvvisamente, senza che tu abbia capito come, hai voglia di sapere tutto dell’altro e senti quasi l’angoscia, un’angoscia piacevole e totalizzante, di raccontare ogni cosa di te. E vorresti che vedesse ogni posto che hai visto e incontrasse ogni persona che conosci, e mangiasse e bevesse ogni cosa che hai mangiato e bevuto da quando sei nato. E capisci che ogni singolo atomo che riempie la tua vita ora riguarda anche lui e anche il minimo sussurro della sua è indelebilmente tuo. E ogni minuto che passi con lui è uguale al più bel giorno d’estate che tu abbia mai vissuto. Ecco, ti ho detto, succede una cosa così. E quando due persone si incontrano e scoprono che tutto questo è vero per entrambi, allora quel fiore selvatico è già nato e se ne sta al sole a riempirsi di linfa vitale e beatitudine. 

Tu sei rimasta zitta a metà tra il divertito e il sorpreso. Anche se dentro probabilmente hai avuto paura. Paura che tutto questo possa toglierti ciò che è tuo, tuo e basta, tuo e di nessun altro. E io l’ho capito, abdicando alle convinzioni che tutto possa essere facile e lineare. Perché di facile e lineare nella vita non c’è niente. Ma allo stesso tempo so – lo so per certo – che l’amore potrà convincerti che tuo padre ci sarà sempre e ti amerà ovunque e comunque con la stessa forza del primo giorno. Perché l’amore smuove le montagne e trasforma il deserto in aiuole fiorite. Non aver paura, amore mio. Perché dove c’è bene non può esserci male e l’amore non si può dividere ma soltanto moltiplicare.    

Promettimi una vita bella

Abbiamo finito di leggere Harry Potter e la Pietra Filosofale. 
L’abbiamo iniziato qualche mese fa e da subito siamo rimasti intrappolati nelle maglie della storia. A puntate, di settimana in settimana, ci siamo inoltrati nel racconto, scoprendoci tristi ogni volta che siamo stati costretti a chiudere il mondo magico del libro per andarcene a dormire. Rimandare alla settimana successiva la lettura è stata spesso una vera tortura. Tuttavia, il racconto ci ha tenuti inchiodati per tante settimane e ci chiamava, come fossimo obbligati a continuare perché Harry, Hermione e Ron potessero portare a conclusione la loro avventura.
Non abbiamo abbandonato il libro nemmeno quando la tua amica di scuola ha provato a spoilerare qualche particolare di questa storia o di quelle che compongono la restante saga. Non lo abbiamo lasciato quando tua madre ti ha regalato il cofanetto dei primi quattro film e tu, combattuta, hai deciso di vedere il primo, e poi lo hai rivisto il giorno dopo e il giorno dopo ancora, mentre ci mancavano forse soltanto tre capitoli per concludere la nostra storia. Sai, ho pensato sarebbe finita lì. Invece sei tornata da me dicendomi “io so delle cose” con un sorrisetto furbo, e hai voluto, preteso, nonostante tutto, continuare a leggere il nostro libro, non tanto perché ti piacesse continuare a galleggiare in quella storia o perché volessi farmi contento, perché eri davvero convinta che leggere avrebbe potuto rivelarti scoperte sensazionali ed emozioni del tutto nuove, comunque nuove. E perché tu sai, sai già che un libro non è solo la storia che racconta.

Allora ti ho proposto di fare come faccio sempre quando sto per finire un romanzo che mi piace tanto. Smetto la lettura al penultimo capitolo e mi lascio il rash finale per un momento nuovo, pulito, lontano da tutto il resto. Così, la sera abbiamo salutato Harry e i suoi amici mentre erano nella stanza della botola e il giorno successivo, subito dopo pranzo, ci siamo sdraiati sul letto e stretti l’uno all’altra ci siamo lasciati riprendere per mano e accompagnare fino alla fine. Mentre leggevo facevo una fatica tremenda per continuare. Mi interrompevo. Fingevo pause inesistenti. Mi schiarivo la voce, per riprendere fiato e sciogliere quel nodo alla gola di emozione e lacrime. Tu eri addosso a me, io usavo la mano sinistra per stringerti, per sentire che eravamo insieme, un libro ci teneva nello stesso posto, sopra lo stesso materasso e in un mondo che è stato di molti ma a me sembrava solo nostro. Noi due, ancorati alla più grande passione che abbiamo in comune.

Qualche anno fa ho letto un libro di Pennac. Parlava di come instillare la passione per le storie nei figli. Avevo poco più di vent’anni, nessunissima idea di avere figli nella vita. Eppure misi mentalmente da parte quelle pagine, promettendomi che il giorno in cui avessi avuto un bambino l’avrei riaperto. Non l’ho mai riletto ma ricordo benissimo il racconto; leggi a tuo figlio, diceva. Leggi finché puoi e un giorno ti strapperà di mano il libro perché non gli basterà più starti ad aspettare e vorrà continuare da solo, per sé, finché ne avrà la forza. Ci ho ripensato ieri, quando ti ho trovata al telefono che rileggevi ad alta voce Piccole donne crescono ad Agata che ti ascoltava rapita. Solo tu, lei, il suono della tua voce sicura e una storia nella quale non vuoi smettere di galleggiare. Ho appoggiato una spalla alla porta e pensato quanto fossi bella e quanto fosse meraviglioso il nostro mondo.

Credo di aver versato più lacrime per i libri che ho letto che per i dolori che realmente ho provato fino a oggi nella vita. Ho amato e odiato tantissimi racconti, molti dei quali, sta tranquilla, ti rifilerò presto. In questi giorni di paura ansia e insicurezza, mi sento come un vecchio al tramonto dei sui giorni che si commuove per molto poco. Piango al telefono con tua nonna, senza rendermene conto, mi muoiono le parole in gola quando le sento dire “non appena potrete ritornare”. Piango con Harry Potter, piango con le notizie alla radio, piango mentre costruiamo un palazzo di 3 piani con i Lego o avvitiamo i pezzi di un Meccano, piango mentre ti guardo metterti il pigiama o quando me ne sto solitario davanti al computer e d’improvviso mi cingi il collo con le braccia. Piango quando ritrovo sulla scrivania il tuo disegno del mare, con i pesci, le alghe, un gabbiano, il sole che affoga nell’acqua. Piango se penso che Agata sta finendo il suo libro e piango pensando al giorno in cui io lo finirò. Piango impastando una pizza, guardando i video della Curva allo stadio, contemplando Testaccio deserta dalla finestra. Dentro tutto questo ci vedo una logica così alta, così forte, così chiara che non posso non piangere e allora piango.

Costruire

Esattamente un anno fa cominciavo a scriverti queste lettere. Sentivo che ogni istante della vita che trascorrevamo insieme e di quella parte di esistenza durante la quale eravamo distanti, aveva una quantità di informazioni che sarebbero andate perse se non le avessi catturate e impresse da qualche parte. Fotografie, fotogrammi o piccole clip del girato dei nostri giorni insieme e lontani. Cominciai allora a scriverti, immaginandoti come interlocutore presente e futuro. Ho sempre provato a essere più onesto che potevo. Mai romanzando, anche quando la tentazione di farci apparire più belli e divertenti e simpatici era forte. Siamo solo io e te, tu e io. E abbiamo riempito quaranta lettere in un anno: dodici mesi, cinquantaquattro settimane, trecentosessantasei giorni, ottomilasettecentoottantaquattro ore della nostra vita.

Sai, avevo ragione. In queste lettere sono rimasti appiccicati un sacco di ricordi che avremmo perso. Alcuni, immagino, li avrei persi solo io. Altri tu. Altri ancora entrambi. Sono invece qui dentro. A distanza di un solo anno, li ho ritrovati già, sfogliando queste lettere sin dall’inizio e ho provato quella sensazione che si prova quando ritrovi una foto del passato, la guardi e rivedi quella maglietta che indossavi e improvvisamente ti ricordi quanto le eri affezionato, quando o come l’avevi avuta, alcuni dei giorni nei quali l’avevi addosso. Ho un ricordo così. Di una maglietta blu elettrico dell’Energie che avevo durante il primo o secondo anno del liceo. Blu, con delle righe rosse che percorrevano perpendicolari le spalle e la E che aveva la forma di una freccia sul petto. Tamarrissima, diremmo oggi. Eppure mi ci sentivo un figo. La mettevo negli ultimi giorni di scuola. Elasticizzata e aderente (allora potevo permettermelo), sopra ai miei pantaloni strappati alle ginocchia e con i capelli a spazzola ingellati, mi sentivo gli occhi delle ragazzine della mia classe addosso e stavo bene.

Siamo stati bene allo stesso modo in molte delle storielle che ho raccontato finora. In alcune appariamo davvero buffi. Mi commuove un po’ leggere a ritroso le cose che ci sono successe nell’ultimo anno e sorrido quando sembriamo una coppia consumata del cinema che fa gag esilaranti. Se fossimo ad un pranzo di un matrimonio e questo fosse il mio discorso agli sposi, direi una di quelle frasi che si sentono sempre in questi casi: “quante ne abbiamo passate insieme!”. Belle ma anche brutte. Qui dentro, infatti, ci sono anche tante lacrime che insieme e separati abbiamo versato.
Quando sarai grande e le leggerai, ci ritroverai dentro i miei tentativi goffi di farti imparare a riconoscere Bruce Springsteen, la passione per Guccini, i disegni belli e quelli che abbiamo rovinato, le delusioni che ti hanno rifilato alcune tue amiche, alcuni dei giochi che facevamo, le passeggiate per Roma, la paura del virus, il rapporto con tua madre, molti dei ricordi del mio passato (alcuni dei quali affioravano proprio mentre ti scrivevo), la nascita di un nuovo amore, gli attimi belli e emozionanti del vostro primo incontro, i nostri tic, i film, le canzoni, la montagna, le favole, i giocattoli, le macchine fotografiche e la fotografia, i libri, i compiti, la scuola, gli amici, i desideri, il futuro e il passato (quello bellissimo e quello tristissimo), i dolci, le seratine speciali e i toast a colazione, le matite colorate e i pennarelli, le punte spezzate, la nostra numerosa famiglia, i viaggi, la nostra casa, le paure e le speranze, Roma e la Roma, le risate, i sorrisi e le lacrime, le domande, i racconti, le ninnenanna, la mia passione per le liste, l’amore, tutto il nostro amore.

Quando avevo più o meno la metà degli anni che ho oggi, scrivevo già racconti. Quando li finivo, li firmavo con le miei iniziali e appuntavo il giorno e l’ora esatta con la scritta “per chi dovesse viaggiare nel tempo”. In quell’appunto, c’era la possibilità per il me del futuro che avrebbe ritrovato quei racconti molti anni dopo, di sapere con esattezza l’attimo irripetibile che li aveva partoriti e, soprattutto, la consapevolezza che in quell’attimo c’era un pensiero per lui, una specie di saluto dal passato.

Sono le 8 e cinquantasette minuti del 3 aprile 2020. Sono nella mia stanza e ti sto scrivendo la quarantesima lettera di una serie iniziata un anno fa. Ciao, figlia del futuro. 

La leva calcistica del ‘68

La tua prima e ultima partita allo stadio è stata un disastro anche se tu la ricordi come una specie di picnic divertente, pieno di pizzette, biscotti, wafer, panini e altre mille ragioni che non hanno nulla a che fare col calcio. Gianluca si era rotto un piede a calcetto e il suo posto sarebbe rimasto vacante. Mercoledì però era il mio giorno con te e anch’io avevo deciso di disertare Roma- Atalanta. Silvia però ci ha riflettuto un po’, mostrando una passione per quell’avventura nella quale era stata coinvolta quasi controvoglia a inizio anno ormai superiore a qualunque affezione a due cari amici, e mi ha detto “ma perché non venite insieme?”, sottintendendo io e te. Tanto è bastato perché io ti proponessi questa cosa che somigliava un po’ tanto a Homer che regala a Marge una palla da bowling per il suo compleanno facendole credere sia davvero un pensiero speciale per lei. Tu ci hai riflettuto a tua volta e perplessa mi hai chiesto “e se poi mi annoio?”.  Sapevo però che non ti saresti annoiata, rapita da tutte quelle cose che ti avrebbero portata ad assaporare due ore di calcio senza calcio. Così, subito dopo scuola, la tua serata da tifosa è iniziata al supermercato dove siamo andati a prendere i panini. Eravamo già in ritardo, io sono corso al banco del pane e ti ho lasciata con Silvia all’altezza delle merendine autorizzandoti a comprare un dolcetto. Quando vi ho reincontrate alla cassa avevate preso così tante schifezze che avremmo potuto offrirle a tutta la curva.

A volte accadono cose stupefacenti quando sto con te. Una di queste è stata trovare a primo colpo, quasi senza cercarlo, un parcheggio a 500 metri dall’Olimpico. Da lì, immersi nel mare rosso di sciarpe, magliette e bandiere, ci siamo lasciati trasportare ai nostri posti. Mentre tu ti guardavi attorno curiosa, Silvia se la prendeva con gli steward e i poliziotti che le dicevano “prego signora” facendola passare ai tornelli e ai controlli, convinti fosse tua madre.
In queste occasioni, anche se spesso abbiamo scorte di cibo che potrebbero sfamare la popolazione del Ciad, tu razioni il cibo con scrupolosa osservanza lasciandoti per i momenti più importanti le cose che ti piacciono di più e non cominciando mai a mangiare prima dell’effettivo inizio. Lo fai anche al cinema, per dire. Appena arrivati compriamo il barattolone di popcorn che tu custodisci gelosamente fino all’inizio del film. E spesso, anche dopo che il film è iniziato, mi chiedi “papi ma è iniziato?”, preoccupandoti che quello che stai vedendo non sia l’ennesimo trailer. Sei fatta così. Ti piace fare le cose con ordine. Ogni cosa al momento e al posto giusto. Così hai fatto anche allo stadio. Hai aspettando l’inizio per cominciare ad attaccare le tue riserve di stuzzichini e nel frattempo mi chiedevi delle bandiere, i nomi dei calciatori e mi guardavi stupita mentre cantavo a squarciagola Roma non si discute. Io ti ho messo la mia sciarpa tra le mani e tu, quasi senza pensarci, ti sei ritrovata a mimare modi e gesti di chi ti stava intorno che ormai ti aveva assunta a mascotte.

Abbiamo sofferto tanto. Una partita brutta e lenta. A tratti sfortunata. Chi soffriva più di tutti ero io che mi sentivo schiacciato tra la voglia di esplodere nei miei soliti eccessi di entusiasmo da stadio e il desiderio di non apparirti diverso dal solito. Così a ogni azione sbagliata, a ogni errore arbitrale, a ogni fallo subito, mentre il mondo intorno si lanciava in improperi e urla forsennate, io reprimevo velocemente dentro la frustrazione e rielaboravo nel minor tempo possibile la frase sconcia che avevo sulle labbra rendendola potabile. Così tu e il resto della curva, mi avete sentito urlare cose tipo “ma che cavolo!”, “arbitro stai attento!”, tanti piccoli e innocui mannaggia. 
Quando l’Atalanta ha segnato il primo gol lo stadio si è ammutolito. I giocatori hanno ripreso la palla, ritornando a centrocampo e dopo poco il gioco è ripreso. Tu non ti sei accorta di nulla. E solo dopo 10 minuti mi hai chiesto perché sul maxischermo accanto al nome dell’Atalanta fosse apparso un 1. Tempo qualche secondo e quell’uno è diventato un 2 mentre la cifra accanto al nome della nostra squadra rimaneva invariabilmente zero.
La partita è finita così. Con la gente che andava via schifata, Silvia che tentava di raccontare qualcosa di divertente e io che ti ho fatto salire in piedi sul sedile per farti ammirare lo stadio che lentamente perdeva il rosso e guadagnava in blu.

Vedi mi son chiesto davvero cosa ricorderai di quella giornata. A lungo ci avevo pensato anche prima, dicendomi che avresti conservato i cori, l’esultanza di un gol, l’impressione di far parte di qualcosa di enorme e lontanissimo dalla vita normale. Al di là di tutto, pensavo che portarti allo stadio sarebbe stata una cosa che avresti potuto raccontare oggi, adesso, ma anche tra tanti anni, ricordando la volta che a sette anni accompagnasti tuo padre a vedere la Roma. Di sicuro non immaginavo, mentre pensavo tutto questo, che nella tua mente potesse esserci una qualche forma di identificazione in ciò che è il mio mondo e nel quale ti immaginavo solo spettatrice. Invece il mattino dopo, mentre facevi colazione e io fissavo ossessivamente l’orologio alla parete convincendomi che non ce l’avremmo mai fatta ad arrivare in tempo a scuola, mi hai stupito, facendomi commuovere. Mi hai chiesto “Papi abbiamo perso per colpa mia?”. Ovviamente sono corso a rassicurarti, chiedendoti come potessi pensare una cosa così. Tu mi hai detto “perché non avevo la maglietta, non avevo la sciarpa e non conoscevo i cori”. Io ti ho guardato come si guarda un mago che sta fluttuando nell’aria senza trucco, ti ho stretta forte forte e nel momento esatto in cui realizzavo che avrei dovuto compilare anche per quella mattina il foglio di giustificazione per l’ingresso in ritardo a scuola, ti ho detto che quando sono con te io non perdo mai e la mia squadra, che siamo io e te, gioca e vince ogni anno il campionato, la Champions e la Coppa del Mondo. Tu mi hai sorriso probabilmente capendo solo una piccola parte delle cose che avevo detto e hai aggiunto “tu però avresti voluto dire un sacco di parolacce e non le hai dette”.

Allora ho realizzato che hai capito molto più di quello che cercavo di dire, hai compreso i miei sforzi, il mio desiderio di farti conoscere tutto ciò che amo, di condividere ogni cosa con te, cercando di trovare sempre un compromesso, un modo. 
Ho realizzato che non sono le imprecazioni mascherate male, i ritardi, e nemmeno i cori che non mi sono preoccupato d’insegnarti a poter gettare ombra sulla nostra squadra, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore.
Noi indossiamo una maglietta sempre pulita, e con lei scendiamo in campo ogni giorno. Non siamo spettatori ma campioni. Giochiamo la nostra lunghissima partita, tifiamo l’uno per l’altra senza conoscere esitazione. Affrontiamo il nostro stadio, l’erba falciata da poco, le luci sulle nostre teste, e iniziamo a correre con coraggio e tutta la fantasia di cui siamo capaci, quella che serve a rendere nuova e speciale ogni cosa.
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, e tu lo vedi, mi vedi. Mi dai fiducia. Come un procuratore mi osservi e dentro di te pensi il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette.

Ti voglio bene amore mio. Perché hai solo sette anni e non giudichi il tuo calciatore preferito nemmeno quando sbaglia un rigore a porta vuota.

Per te

Quando avevo 16 anni usci L’albero, ficcandosi prepotentemente in ogni interstizio di pausa della mia vita di adolescente e riempiendo una miriade di pomeriggi, notti, mattine dei tre anni che seguirono. Lo ascoltai così tanto che, col passare del tempo, l’attesa per il disco successivo divenne angosciante. In fine arrivò il 10 maggio del 1999. Per comprare un disco dovevo prendere la macchina, affrontare i 30 km di curve che mi separavano dalla città, cercare parcheggio, evitando di graffiare o tamponare la macchina dei tuoi nonni, governare le pulsazioni del mio cuore per dosare abbastanza sangue nelle gambe e raggiungere il negozio di dischi in pieno centro.
Il negozio è ancora nella mia mente, così come il suo nome. Chissà se c’è ancora però. Era una botteguccia piccola con alcuni scaffali zeppi di cd, addossati l’uno all’altro e il bancone, bianco, a destra dell’entrata.

A me e tuo zio, per festeggiare l’ultimo anno di liceo, per quell’anno fu concesso di andare a scuola in macchina. Non era in realtà un vero regalo. Era più un favore che tuo nonno faceva a se stesso per evitare di dover coprire almeno un paio di volte la settimana gli 11 chilometri che separavano casa dalla scuola, nei giorni in cui l’autobus sarebbe partito più tardi. Non ricordo esattamente come andò quel lunedì ma, avendo vissuto tante altre giornate come quella, è probabile la dinamica sia stata la stessa di sempre. Te la racconterò allora così, come le altre volte. Lasciai tuo zio a casa dei nonni e probabilmente senza mangiare passai a prendere Filippo a casa sua. Insieme ci precipitammo in città. Entrammo da Top dischi, simulando indifferenza e nonchalance (all’epoca, come adesso, ci mancavano sia l’una che l’altra) e cominciammo a curiosare tra i cd esposti, non riuscendo comunque a concedere alcun tipo di interesse a nessun altro disco che quello
Il pezzo di pizza consumato senza troppa fame da Young Pizza, la passeggiata di rito lungo il corso, la consueta sosta alla casetta dei fumetti per osservare e avere tra le mani il mitico numero 1 di Dylan Dog, per quel giorno furono solo un lampo, un flash indistinto tra un viaggio di andata e una corsa di ritorno.

A casa, come ogni altra volta, rigirai numerose volte tra le mani il disco ancora incellophanato. Leggendo e rileggendo i titoli delle canzoni, le scritte piccole piccole, osservando con minuzia da incisore i dettagli dell’immagine di copertina. Poi la punta di una forbice infilata nella plastica. L’emozione di scoprire il dentro dell’oggetto, le pagine del libretto, ogni singolo dettaglio come un viaggio aspettato per 3 anni. E infine infilare il disco nel lettore, le cuffie alle orecchie, steso a letto, occhi chiusi, ascoltare, solo ascoltare.
L’albero mi aveva tenuto compagnia per così tanto tempo che Capo Horn non poteva riservarmi emozioni lontane. Ero tutto quello che sapevo. Ascoltai il disco la prima volta, poi la seconda, forse anche una terza. Probabilmente fino a quando non fui interrotto da tua nonna che mi intimava di scendere per la cena. Eppure quella che doveva essere una festa si rivelò un fallimento clamoroso. Perché nessuna delle tante aspettative che avevo riposto in quel disco era stata assecondata. Ero così deluso che quella sera non riuscii a mangiar nulla, continuando a chiedermi perché. E alla fine decisi di scrivere. 

Ero cresciuto con Jovanotti, sin dall’88 quando avevo poco più della tua età, e ascoltavo la cassetta di Jovanotti for president, implorando i nonni di comprarmi l’astuccio con la bandiera americana e la scritta “yo jovanotti”. Non era un cantante, né una star. Era uno di famiglia, dal quale non è concepibile ricevere delusioni.

Google, non ci crederai, ma esisteva da pochi mesi. Esisteva però Soleluna.com, nel quale c’era una casella per inviare messaggi. Scrissi una lunga mail di cui ho perso memoria. Ricordo però benissimo che concludevo con questa frase “ho passato gli ultimi 3 anni ascoltando L’albero e continuerò per i prossimi 3”. Poi invio.
Puoi immaginare la sorpresa quando il giorno dopo cascò nella mia casella email un messaggio proveniente da un certo Lorenzo Cherubini. 
Piangevo, tanto per fare una cosa nuova. Lorenzo mi diceva di essere dispiaciuto. Mi garantiva di avercela messa tutta. Mi proponeva di ascoltarlo ancora oppure chiedere al negoziante di riprendere il disco e ridarmi i soldi. Le lacrime che versai per l’emozione non furono nulla se confrontate a quelle che versai nei giorni successivi quando riascoltai ancora e ancora il disco e me ne innamorai perdutamente. Come avevo potuto giudicarlo così precipitosamente è un dubbio che non riesco a risolvere nemmeno oggi, a distanza di 20 anni esatti. Ma è una cosa che facciamo continuamente, la facciamo tutti.

Mi è tornata in mente questa storia ieri sera. La raccontavo a Agata e mentre la descrivevo, nel brillare dei suoi occhi indulgenti, ho pensato dovesse esserci un senso che mi era sfuggito per tutti questi anni. Poi Agata ha smesso di guardarmi e ha puntato gli occhi su un punto lontano a metà tra l’orizzonte e noi. Ha detto “dovresti riascoltarlo il Jovane” (lei lo chiama così). E così ho fatto questa mattina, dall’inizio alla fine, e alla terza volta che riascoltavo “Per te”, mi sono ricordato di domenica scorsa, quando io guardavo il derby alla tv e tu con la mia maglia di Dzeko addosso facevi i compiti. Io ogni tanto mi scaldavo per una traversa, un palo, o fuorigioco che non c’era. Tu interrompevi i tuoi compiti, ti giravi e mi urlavi “Papi stai davvero esagerando, è soltanto una partita”. Ecco, collegando tutti questi avvenimenti mi è venuto in mente che non potrò tornare indietro a tutte le volte che ho giudicato lapidariamente cose che all’apparenza mi sembravano stupide, superficiali, insensate, fatte male. Ma tu ad un certo punto mi hai insegnato che possiamo provare a farlo insieme. Perché mentre Luis Alberto al 58’ minuto pareggiava i conti e io urlavo come un disperato, tu hai deciso di fare una pausa perché probabilmente non ne potevi più di vedere tuo padre comportarsi come i maschi stupidi che pensano solo al calcio. Ti sei seduta allora sul divano accanto a me, hai cominciato ad osservare lo schermo e hai detto: “però la maglia del Lazio è molto bella”. Io ti ho fulminato con lo sguardo e tu hai sorriso.

Sono passati 20 anni dall’uscita di Capo Horn. La mia città è cambiata tantissimo, la Roma non vince un campionato da più o meno gli stessi anni, la macchina dei nonni rimane immacolata nonostante il tempo, Young Pizza si è allargato ed è diventato un ristorante enorme, Top dischi ha la stessa insegna di allora ma adesso vende soprattutto vinili e magliette, la casetta dei fumetti in Piazza Roma non c’è più anche se adesso ho il mitico numero 1 di Dylan Dog, il ragazzo che io ero e ascoltava “Per te” commosso ha avuto nel frattempo una figlia meravigliosa e ha finalmente capito quanto davvero è per te ogni cosa che c’è, ninna naaa ninna eee.