Stagioni

Oggi è l’anniversario della morte di Guevara. 9 ottobre 1967, 54 anni fa. È anche il compleanno di una mia compagna di classe del liceo. Me lo ricordo per la coincidenza dei due anniversari.

Scrivevo per lei. Scrivevo tantissimo per lei, come faccio adesso per te e per Agata, attraverso questo blog. Avevo 15 anni, poi 16, poi forse anche 17 e le scrivevo poesie, piccoli racconti, stralci di romanzi, qualunque cosa potesse farmi tornare a scuola il giorno dopo e sussurrarle “ho scritto una cosa”. Gliela passavo, sapendo che quel foglietto stampato ad aghi sarebbe rimasto un segreto tra noi due. Lei lo leggeva durante le ore di biologia o di italiano, non so. E alla ricreazione o all’uscita mi avvicinava senza guardarmi mai negli occhi. Sorrideva, fissava un punto del cielo attraverso la finestra della classe e sussurrava “mi è piaciuto”, portando lo sguardo al pavimento e arrossendo un po’. Tutto qua. Poi tornava dalla sua compagna di banco, io dai miei. Altro giro, altra corsa. 
Non credo abbia mai saputo davvero quanta dedizione dedicassi a quegli appuntamenti né quanto di me scoprisse in ogni riga che riceveva in dono. Non credo avesse mai nemmeno saputo quanto mi piacesse e quanto dolce trovassi i suoi gesti delicati e mai invasivi nel ringraziarmi e allo stesso tempo chiedermi “ancora” senza mai chiederlo davvero. Eravamo legati da un foglio leggero di tabulato a modulo continuo. Continuo come il rapporto che avevamo instaurato. Io le raccontavo della mia adolescenza per tramite di costruzioni contorte e arricchite da parafrasi di canzoni. Lei nei suoi silenzi e in quello sguardo timido e triste mi lasciava entrare nel suo mondo che capivo tanto simile al mio. Tanto vicini eppure così lontani.

L’ultima volta che l’ho sentita eravamo entrambi all’università. Io a Roma, a studiare Lettere senza convinzione, lei a costruirsi una carriera da ingegnere a Napoli. Era lo stesso giorno di oggi e la chiamai per farle gli auguri di compleanno. Le dissi che era l’ultima volta che le avrei fatto gli auguri senza riceverli. Non sapevo di certo che quello scherzo sarebbe diventato una profezia. Negli ultimi tempi la sua tristezza leggera si era condensata e compattata, trasformata in ghiaccio. Sentivo che c’era qualcosa che non andava nella sua voce ma non me ne parlò come non me ne aveva mai parlato prima. Di lì a qualche giorno mi rubarono il telefono e con esso tutti i numeri che all’epoca erano custoditi dentro la sim (proprio così). Non ebbi mai più modo di scriverle o sentirla, lei non si fece mai più viva. Ricordo bene come a distanza di qualche anno da allora un mio amico mi parlo dell’esistenza di Facebook. Me lo fece vedere, me ne parlò con l’entusiasmo di ogni rivoluzione anche se io non ne rimasi particolarmente attratto. Mi iscrissi lo stesso per cercarla. Non la trovai, non trovai nemmeno la sua compagna di banco, né nessuno dei pochi che avrebbero potuto ridarmi il suo numero. Ma all’epoca probabilmente su Facebook eravamo in 3: io, il mio amico e Zuckerberg.

Per molti anni l’ho dimenticata, tenuta isolata in un angolo cieco della mia storia, fino a stamattina. 
Avevo intenzione di ritornare a scriverti. Farlo dopo così tanto tempo, dopo un milione di rimandi e mille tentativi mentali andati a male. Sapevo solo di volerlo e doverlo fare. Ho aperto il computer, poi Word. E mentre la barretta bianca sottile ha cominciato a lampeggiare pressante, sapevo che avrei raccontato di te, di Agata, degli sviluppi meravigliosi che sta prendendo la nostra vita ultimamente. Poi però l’icona di Calendar mi ha ricordato che oggi è 9 ottobre. Come la morte di Guevara, ho pensato, e il compleanno della mia amica forse ingegnere. Tutto il resto è venuto da sé. A far due conti a spanne, credo siano passati proprio 20 anni da quell’ultima volta. Una cosa incredibile e assurda, passare 20 anni senza notizie di una persona a cui hai voluto così tanto bene, dalla quale hai ricevuto tanto bene. Viene da chiedersi chi fossimo l’uno per l’altra e chi erano le persone rimaste incastrate in un tempo così lontano. Se oggi avessi un soldino per un desiderio, lo spenderei per chiederle se è felice, se ha trovato quello che cercava e mai mi ha rivelato. E se di quel soldino rimanesse una piccola porzione ancora utile allora lo spenderei per farmi raccontare com’era quando la mattina le portavo un racconto che avevo scritto la notte soltanto per lei. 

Ovunque tu sia e qualunque cosa tu stia facendo, amica mia, buon compleanno!

Per te

Quando avevo 16 anni usci L’albero, ficcandosi prepotentemente in ogni interstizio di pausa della mia vita di adolescente e riempiendo una miriade di pomeriggi, notti, mattine dei tre anni che seguirono. Lo ascoltai così tanto che, col passare del tempo, l’attesa per il disco successivo divenne angosciante. In fine arrivò il 10 maggio del 1999. Per comprare un disco dovevo prendere la macchina, affrontare i 30 km di curve che mi separavano dalla città, cercare parcheggio, evitando di graffiare o tamponare la macchina dei tuoi nonni, governare le pulsazioni del mio cuore per dosare abbastanza sangue nelle gambe e raggiungere il negozio di dischi in pieno centro.
Il negozio è ancora nella mia mente, così come il suo nome. Chissà se c’è ancora però. Era una botteguccia piccola con alcuni scaffali zeppi di cd, addossati l’uno all’altro e il bancone, bianco, a destra dell’entrata.

A me e tuo zio, per festeggiare l’ultimo anno di liceo, per quell’anno fu concesso di andare a scuola in macchina. Non era in realtà un vero regalo. Era più un favore che tuo nonno faceva a se stesso per evitare di dover coprire almeno un paio di volte la settimana gli 11 chilometri che separavano casa dalla scuola, nei giorni in cui l’autobus sarebbe partito più tardi. Non ricordo esattamente come andò quel lunedì ma, avendo vissuto tante altre giornate come quella, è probabile la dinamica sia stata la stessa di sempre. Te la racconterò allora così, come le altre volte. Lasciai tuo zio a casa dei nonni e probabilmente senza mangiare passai a prendere Filippo a casa sua. Insieme ci precipitammo in città. Entrammo da Top dischi, simulando indifferenza e nonchalance (all’epoca, come adesso, ci mancavano sia l’una che l’altra) e cominciammo a curiosare tra i cd esposti, non riuscendo comunque a concedere alcun tipo di interesse a nessun altro disco che quello
Il pezzo di pizza consumato senza troppa fame da Young Pizza, la passeggiata di rito lungo il corso, la consueta sosta alla casetta dei fumetti per osservare e avere tra le mani il mitico numero 1 di Dylan Dog, per quel giorno furono solo un lampo, un flash indistinto tra un viaggio di andata e una corsa di ritorno.

A casa, come ogni altra volta, rigirai numerose volte tra le mani il disco ancora incellophanato. Leggendo e rileggendo i titoli delle canzoni, le scritte piccole piccole, osservando con minuzia da incisore i dettagli dell’immagine di copertina. Poi la punta di una forbice infilata nella plastica. L’emozione di scoprire il dentro dell’oggetto, le pagine del libretto, ogni singolo dettaglio come un viaggio aspettato per 3 anni. E infine infilare il disco nel lettore, le cuffie alle orecchie, steso a letto, occhi chiusi, ascoltare, solo ascoltare.
L’albero mi aveva tenuto compagnia per così tanto tempo che Capo Horn non poteva riservarmi emozioni lontane. Ero tutto quello che sapevo. Ascoltai il disco la prima volta, poi la seconda, forse anche una terza. Probabilmente fino a quando non fui interrotto da tua nonna che mi intimava di scendere per la cena. Eppure quella che doveva essere una festa si rivelò un fallimento clamoroso. Perché nessuna delle tante aspettative che avevo riposto in quel disco era stata assecondata. Ero così deluso che quella sera non riuscii a mangiar nulla, continuando a chiedermi perché. E alla fine decisi di scrivere. 

Ero cresciuto con Jovanotti, sin dall’88 quando avevo poco più della tua età, e ascoltavo la cassetta di Jovanotti for president, implorando i nonni di comprarmi l’astuccio con la bandiera americana e la scritta “yo jovanotti”. Non era un cantante, né una star. Era uno di famiglia, dal quale non è concepibile ricevere delusioni.

Google, non ci crederai, ma esisteva da pochi mesi. Esisteva però Soleluna.com, nel quale c’era una casella per inviare messaggi. Scrissi una lunga mail di cui ho perso memoria. Ricordo però benissimo che concludevo con questa frase “ho passato gli ultimi 3 anni ascoltando L’albero e continuerò per i prossimi 3”. Poi invio.
Puoi immaginare la sorpresa quando il giorno dopo cascò nella mia casella email un messaggio proveniente da un certo Lorenzo Cherubini. 
Piangevo, tanto per fare una cosa nuova. Lorenzo mi diceva di essere dispiaciuto. Mi garantiva di avercela messa tutta. Mi proponeva di ascoltarlo ancora oppure chiedere al negoziante di riprendere il disco e ridarmi i soldi. Le lacrime che versai per l’emozione non furono nulla se confrontate a quelle che versai nei giorni successivi quando riascoltai ancora e ancora il disco e me ne innamorai perdutamente. Come avevo potuto giudicarlo così precipitosamente è un dubbio che non riesco a risolvere nemmeno oggi, a distanza di 20 anni esatti. Ma è una cosa che facciamo continuamente, la facciamo tutti.

Mi è tornata in mente questa storia ieri sera. La raccontavo a Agata e mentre la descrivevo, nel brillare dei suoi occhi indulgenti, ho pensato dovesse esserci un senso che mi era sfuggito per tutti questi anni. Poi Agata ha smesso di guardarmi e ha puntato gli occhi su un punto lontano a metà tra l’orizzonte e noi. Ha detto “dovresti riascoltarlo il Jovane” (lei lo chiama così). E così ho fatto questa mattina, dall’inizio alla fine, e alla terza volta che riascoltavo “Per te”, mi sono ricordato di domenica scorsa, quando io guardavo il derby alla tv e tu con la mia maglia di Dzeko addosso facevi i compiti. Io ogni tanto mi scaldavo per una traversa, un palo, o fuorigioco che non c’era. Tu interrompevi i tuoi compiti, ti giravi e mi urlavi “Papi stai davvero esagerando, è soltanto una partita”. Ecco, collegando tutti questi avvenimenti mi è venuto in mente che non potrò tornare indietro a tutte le volte che ho giudicato lapidariamente cose che all’apparenza mi sembravano stupide, superficiali, insensate, fatte male. Ma tu ad un certo punto mi hai insegnato che possiamo provare a farlo insieme. Perché mentre Luis Alberto al 58’ minuto pareggiava i conti e io urlavo come un disperato, tu hai deciso di fare una pausa perché probabilmente non ne potevi più di vedere tuo padre comportarsi come i maschi stupidi che pensano solo al calcio. Ti sei seduta allora sul divano accanto a me, hai cominciato ad osservare lo schermo e hai detto: “però la maglia del Lazio è molto bella”. Io ti ho fulminato con lo sguardo e tu hai sorriso.

Sono passati 20 anni dall’uscita di Capo Horn. La mia città è cambiata tantissimo, la Roma non vince un campionato da più o meno gli stessi anni, la macchina dei nonni rimane immacolata nonostante il tempo, Young Pizza si è allargato ed è diventato un ristorante enorme, Top dischi ha la stessa insegna di allora ma adesso vende soprattutto vinili e magliette, la casetta dei fumetti in Piazza Roma non c’è più anche se adesso ho il mitico numero 1 di Dylan Dog, il ragazzo che io ero e ascoltava “Per te” commosso ha avuto nel frattempo una figlia meravigliosa e ha finalmente capito quanto davvero è per te ogni cosa che c’è, ninna naaa ninna eee.