Ti sposerò

È tanto che non ti scrivo. Non saprei nemmeno quanto, so però per certo che nessuno di noi è più lo stesso dell’ultima volta che ti parlavo da qui. Non lo sei più tu, con i tuoi dolori ormai costanti al basso addome, uno spirito da preadolescente e la voglia incondizionata di contrastarmi, come a pareggiare un conto che è stato aperto chissà quando. Non lo è più Agata, fin troppe volte delusa nel profondo dell’animo da arrivare a dire qualcosa che non aveva ancora mai immaginato: “io non ci sto più dentro così”. E non lo sono più io, provato, vinto, consumato dai problemi che avevo trascinato fin qui come fossero un difetto fisico con il quale io avevo imparato a convivere e gli altri dovessero accettare, tollerare e rispettare. 

E poi, come capita sempre, un giorno ci si tira su dal letto e mancano le forze nei polpacci per tenersi in piedi. Perché l’universo di approssimazioni al quale ci si era aggrappati ha trovato le pareti del vaso nel quale era contenuto, dimostrando finalmente che non era affatto un universo ma un banalissimo litro di melma schifosa.
E dentro quel vaso ho dovuto ficcarci la mano per capire quanto poco profondo fosse e quanto viscido e disgustoso potesse risultare. Per l’esattezza, ho dovuto aspettare che per l’ennesima volta Agata mi dicesse di guardarci dentro, di farlo per favore da solo, perché la sua vista non ne poteva davvero più.
L’ho fatto, lo sto facendo ancora, mentre me ne sto a contemplare fuori per ore e il lezzo di quella melma mi perseguita. 

Credevo. 
Credevo moltissime cose sbagliate. In molte delle quali non avevo mai creduto ma ho cominciato a credere fingendo di credere e finendo per credere davvero.
E ora, ora che non credo più a niente, ora che mi pare difficile persino pensare di poter credere di esser svegli, camminare, parlare, mi vedo costretto a mettere in dubbio ogni singolo pensiero partorito dalla mia testa, come un pregiudizio innato, come un istinto di sopravvivenza pronto a mettere in dubbio qualsiasi cosa pur di imparare nuovamente a stare al mondo.
E al mondo non ci sono saputo stare veramente fino a ora. Costringendo te e Agata a seguirmi in un gioco perverso e senza fine, nel quale io disponevo e poi cambiavo, mischiavo le carte, le distruibuivo e quando lei stava per dire “7 avevi detto 7 carte”, io ero immediatamente pronto a ribattere “scherzi? Si gioca con 5 carte”. 
Quante volte Agata ha sospirato amaro, finendo pure lei per accettare che le carte fossero giuste e che lei stessa ricordasse male. Lei che ha la memoria di un elefante, la costanza di quei simulatori di Ikea che per anni e anni aprono e chiudono un cassetto per dimostrarti che non si romperà mai, e la pazienza di una montagna. 
E ho lasciato fare a tutti ciò che pensavo fosse nelle proprie corde, illudendomi di esser io a seguire voi mentre era evidente e a tutti, fuor che a me, quanto ognuna di voi seguisse solo me, ovunque e comunque.

L’ho visto chiaramente mentre eravamo qualche giorno fa in canoa. La guida ci aveva messo in mano una pagaia e spiegato come andare avanti, girare, fare retromarcia. Poi ci aveva imbarcati e non avremmo dovuto far altro che seguire il gruppo davanti a noi.
Tu eri davanti a me, non potevi vedermi. Io ero dietro e il mio compito sarebbe dovuto essere dettare il passo e darti istruzioni per seguirmi. Seguirmi, anche se io ero dietro, capisci?
Ho provato forse due o tre volte a dirti di non accarezzare l’acqua, di remare, ficcare decisa il remo in acqua e tirare. Ma non ero convinto nemmeno io di quello che ti dicevo e ho finito per chiederti di tirare su la tua pagaia, goderti il viaggio e lasciar fare a me. E mentre ti guardavo le spalle, mentre ti giravi attorno osservando la natura e accarezzando con le dita l’acqua del fiume, ho visto chiaramente quante volte in questi 10 anni ho preteso che semplicemente seguissi me, senza poi lasciarti alcun tipo di istruzione precisa su come farlo o, quando il caso (purtroppo il caso), lasciava intuire delle regole, rimetterle in discussione al primo ma, al secondo però, al terzo dopo.

E ora? Ora non ne ho più voglia. Non ho più voglia di soccombere a me stesso, di cedere ancora all’incapacità di dire no o basta. Troppe volte l’ho fatto e guarda in che pasticcio ho ficcato te e Agata: una vita senza midollo, in cui tutto si arriccia su sé stesso, rischiando di far apparire i giorni tristi e senza vita. Siamo arrivati al punto di aver paura di vivere, stare insieme, incontrarci, per timore di soccombere ancora all’indolenza. 
Te lo devo. Ti devo un’educazione seria, concreta, vera. Ti devo delle regole, ti devo dei no e dei basta, non solo scherzi, sorrisi, abbracci, e spensieratezza. E devo a Agata la vita che mi ha dato, ogni singolo respiro che mi ha insegnato e il rispetto che merita la scelta di voler creare una famiglia con me. Perché questa famiglia è casa nostra: mia, tua e sua. E se l’amore che abbiamo ce l’ha dato Dio (o San Giacomo per lui), conservarlo, onorarlo, venerarlo e beatificarlo è compito nostro e se non farlo è peccato, farlo male è anche peggio. E tu che sei mia figlia e mi vuoi bene, devi sapere subito, ora, sempre, quanto io ami Agata dentro al cuore che scalda il sangue che mi tiene in vita. 

Rimetti tutto in valigia e fallo per bene. Ripiega in quattro questa lettera e tienila da conto. Torniamo a casa e cominciamo a vivere. Domani è finalmente domenica.

Stagioni

Oggi è l’anniversario della morte di Guevara. 9 ottobre 1967, 54 anni fa. È anche il compleanno di una mia compagna di classe del liceo. Me lo ricordo per la coincidenza dei due anniversari.

Scrivevo per lei. Scrivevo tantissimo per lei, come faccio adesso per te e per Agata, attraverso questo blog. Avevo 15 anni, poi 16, poi forse anche 17 e le scrivevo poesie, piccoli racconti, stralci di romanzi, qualunque cosa potesse farmi tornare a scuola il giorno dopo e sussurrarle “ho scritto una cosa”. Gliela passavo, sapendo che quel foglietto stampato ad aghi sarebbe rimasto un segreto tra noi due. Lei lo leggeva durante le ore di biologia o di italiano, non so. E alla ricreazione o all’uscita mi avvicinava senza guardarmi mai negli occhi. Sorrideva, fissava un punto del cielo attraverso la finestra della classe e sussurrava “mi è piaciuto”, portando lo sguardo al pavimento e arrossendo un po’. Tutto qua. Poi tornava dalla sua compagna di banco, io dai miei. Altro giro, altra corsa. 
Non credo abbia mai saputo davvero quanta dedizione dedicassi a quegli appuntamenti né quanto di me scoprisse in ogni riga che riceveva in dono. Non credo avesse mai nemmeno saputo quanto mi piacesse e quanto dolce trovassi i suoi gesti delicati e mai invasivi nel ringraziarmi e allo stesso tempo chiedermi “ancora” senza mai chiederlo davvero. Eravamo legati da un foglio leggero di tabulato a modulo continuo. Continuo come il rapporto che avevamo instaurato. Io le raccontavo della mia adolescenza per tramite di costruzioni contorte e arricchite da parafrasi di canzoni. Lei nei suoi silenzi e in quello sguardo timido e triste mi lasciava entrare nel suo mondo che capivo tanto simile al mio. Tanto vicini eppure così lontani.

L’ultima volta che l’ho sentita eravamo entrambi all’università. Io a Roma, a studiare Lettere senza convinzione, lei a costruirsi una carriera da ingegnere a Napoli. Era lo stesso giorno di oggi e la chiamai per farle gli auguri di compleanno. Le dissi che era l’ultima volta che le avrei fatto gli auguri senza riceverli. Non sapevo di certo che quello scherzo sarebbe diventato una profezia. Negli ultimi tempi la sua tristezza leggera si era condensata e compattata, trasformata in ghiaccio. Sentivo che c’era qualcosa che non andava nella sua voce ma non me ne parlò come non me ne aveva mai parlato prima. Di lì a qualche giorno mi rubarono il telefono e con esso tutti i numeri che all’epoca erano custoditi dentro la sim (proprio così). Non ebbi mai più modo di scriverle o sentirla, lei non si fece mai più viva. Ricordo bene come a distanza di qualche anno da allora un mio amico mi parlo dell’esistenza di Facebook. Me lo fece vedere, me ne parlò con l’entusiasmo di ogni rivoluzione anche se io non ne rimasi particolarmente attratto. Mi iscrissi lo stesso per cercarla. Non la trovai, non trovai nemmeno la sua compagna di banco, né nessuno dei pochi che avrebbero potuto ridarmi il suo numero. Ma all’epoca probabilmente su Facebook eravamo in 3: io, il mio amico e Zuckerberg.

Per molti anni l’ho dimenticata, tenuta isolata in un angolo cieco della mia storia, fino a stamattina. 
Avevo intenzione di ritornare a scriverti. Farlo dopo così tanto tempo, dopo un milione di rimandi e mille tentativi mentali andati a male. Sapevo solo di volerlo e doverlo fare. Ho aperto il computer, poi Word. E mentre la barretta bianca sottile ha cominciato a lampeggiare pressante, sapevo che avrei raccontato di te, di Agata, degli sviluppi meravigliosi che sta prendendo la nostra vita ultimamente. Poi però l’icona di Calendar mi ha ricordato che oggi è 9 ottobre. Come la morte di Guevara, ho pensato, e il compleanno della mia amica forse ingegnere. Tutto il resto è venuto da sé. A far due conti a spanne, credo siano passati proprio 20 anni da quell’ultima volta. Una cosa incredibile e assurda, passare 20 anni senza notizie di una persona a cui hai voluto così tanto bene, dalla quale hai ricevuto tanto bene. Viene da chiedersi chi fossimo l’uno per l’altra e chi erano le persone rimaste incastrate in un tempo così lontano. Se oggi avessi un soldino per un desiderio, lo spenderei per chiederle se è felice, se ha trovato quello che cercava e mai mi ha rivelato. E se di quel soldino rimanesse una piccola porzione ancora utile allora lo spenderei per farmi raccontare com’era quando la mattina le portavo un racconto che avevo scritto la notte soltanto per lei. 

Ovunque tu sia e qualunque cosa tu stia facendo, amica mia, buon compleanno!

Una come te

Hai una capacità incredibile di contrastare l’ingiustizia. Una specie di piglio che non ti abbandona fino a quando non dimostri, rimanendo senza fiato, il torto che hai subito. Il fatto è che qualche volta questi torti non sono affatto torti ma semplici situazioni nelle quali ti trovi e credi di subire. Storie attraverso le quali ti contrapponi agli altri e ritieni di incassare anche lì dove non ci sono contrapposizioni. Imbarchi la rabbia che va a nozze col tuo orgoglio, e cominci un’arringa che usi come un grimaldello per forzare la serratura di chi ti sta di fronte. Ascolti, o fai finta di ascoltare, poi ritorni esattamente al punto di partenza, cominciando una nuova frase con “sì, però”. 
Mi fai un po’ ridere e allo stesso tempo arrabbiare. Provo con la pazienza di un bonzo a spiegarti che le cose non stanno esattamente come le hai viste tu, mi interrompi e ritorni sul punto ma se provo a interromperti io allora vuol dire che non ti ascolto e faccio il prepotente. Una partita a ping pong nella quale tu interpreti Forrest Gump e io me stesso (e anche nella vita reale non ho mai colpito più di tre volte consecutive la pallina che arrivava nella mia parte di campo).
È per questo che l’altro giorno ti ho detto per scherzare che quando sarai grande ti pagherò l’università solo per iscriverti a Giurisprudenza. Se non lo farai, ti ho detto, farai bene a cercarti un lavoro per pagarti gli studi. Tu hai riso probabilmente senza capire. Poi mi hai chiesto perché penso che dovresti diventare un avvocato da grande e ti ho risposto che solo gli avvocati si accaniscono così tanto nei confronti delle cause perse. Stavolta ho riso io e tu sei rimasta a riflettere guardando da una parte. La mia ansia è venuta in tuo soccorso e mi ha fatto dire che stavo scherzando e avrai il sacrosanto diritto di scegliere tutto ciò che vorrai, tranne sposare un laziale. Stavolta abbiamo riso entrambi.

La mia professoressa di matematica al liceo voleva mi iscrivessi a Matematica. Credo avrebbe accettato anche Ingegneria o Fisica. Quando, dopo l’esame di maturità, le dissi che mi sarei iscritto a Lettere mi guardò come fossi la pozzanghera d’olio di una bottiglia che ti è appena scivolata di mano schiantandosi sul pavimento. Disse “Perché sprecare una mente scientifica a Lettere?”.  Io sorrisi amaro e non risposi ma lasciai che quella domanda mi ossessionasse per tutta l’estate e usasse la mia mano per mettere una croce su una Facoltà scientifica al momento dell’iscrizione. Scelsi Informatica per far contenta lei, mio padre che voleva mi iscrivessi a Economia, me stesso a cui piacevano i computer. Nessuno dei tre in realtà trovò soddisfazione nella scelta fatta e dopo un anno in cui cercai disperatamente di capire cosa si studiasse nel Corso che avevo scelto, diedi un colpo di mano e tornai sulla scelta iniziale. Ma a quel punto era di nuovo tardi per tutto. Avevo perso un anno, la borsa di studio e pure un bel po’ di stima. Mi iscrissi sì a Lettere ma puntai verso l’ennesimo ripiego. Ero a Roma, capitale dell’archeologia mondiale. In questo vidi il prospero futuro lavorativo che mi avrebbe accolto dopo la laurea, soppiantando per sempre le ambizioni letterarie che mi avevano tenuto compagnia fin lì. Fu un errore naturalmente. Perché non servì molto tempo per capire che di archeologia, reperti e stratigrafia mi interessava ben poco. Ma stavolta era davvero troppo tardi per cambiare ancora e con un po’ d’ostinazione sono arrivato fino alla fine del percorso. 

Sai già che ti racconterò questa storia altre centotrentamila volte prima che ti iscriverai davvero all’università. Sempre che tu voglia fare l’università o che per allora esista ancora il mondo che conosciamo. Ma so che probabilmente anche allora non saprò rispondere alla domanda “quindi cosa avresti voluto fare?”, riempiendo la risposta di forse e ipotesi e voli di gallina su interessi  più o meno accattivanti. La verità è che c’è un mondo da scoprire ma quel mondo non è fuori ma dentro di te. Esplorarlo è il viaggio più misterioso e affascinante della vita. 

Here comes the sun

Ti ho lasciato a casa di tua zia perché volevo stare un po’ con mio padre. Tu sei salita al piano di sopra con le tue cugine e non sapevi me ne sarei andato di lì a poco. Mentre tua zia mi preparava un caffè, sentivo la tua voce che dettava istruzioni per un gioco. Poi sono uscito, salito in macchina e partito a retromarcia per uscire dal vialetto. Ero già sulla strada quando mi sono fermato e ho fissato un punto davanti ai miei occhi. La casa degli zii era lì davanti a me. L’ho vista nella sua interezza e provato a immaginare il muro attraverso il quale avrei potuto vederti, se avessi avuto una vista bionica. Non ti avevo detto ciao né che me ne sarei andato, anche se solo per qualche ora. Ero solo in mezzo alla strada, qualche fiocco di neve danzava leggero verso l’erba gelata dei prati e il vetro davanti a me cominciava già ad appannarsi. Ho pensato “via, sarà solo qualche ora”, ma invece di continuare in avanti, ho fatto retromarcia e sono tornato nel vialetto. Ho suonato alla porta e tua zia è venuta ad aprire sapendo che avrebbe trovato me dall’altra parte: “cosa hai dimenticato?” mi ha chiesto. Io ho sussurrato “nulla”, fatto qualche passo in avanti e salito due gradini della scala che porta al piano di sopra. Da lì ti ho chiamata, due volte. Tu mi hai risposto, io ti ho detto soltanto che stavo andando via, che sarei passato a riprenderti più tardi. Hai risposto ok e ti ho sentita scappare per tornare a giocare. Tua zia ha scosso la testa, in una smorfia di esasperazione. Più leggero me ne sono salito in macchina e sono tornato in paese. 

Ho fatto tutto questo quasi senza pensare, sicuramente senza riflettere. In una maniera meccanica, come per rispondere solamente a un’esigenza di giustizia che premeva da dentro, che a tratti si scontrava con un senso di ridicolo e superfluo. Guidando però mi sono reso conto di ciò che avevo appena fatto. L’importanza di un gesto superfluo eppure necessario e imprescindibile: salutarsi. Anche senza ricordare esattamente qualcosa, ho provato dentro una sensazione di abbandono e delusione che giaceva silente da qualche parte nella memoria. Ho rivisto la mia mano stretta in un’altra, e il vuoto dentro il quale era avvolta al mattino dopo. Una sensazione senza spazio né tempo che da qualche parte è ancora viva e ferisce. 

Mentre scalavo le marcie per affrontare una curva, ho notato che il paesaggio attorno era di un bianco più spesso. Ho acceso l’aria calda della macchina, sorriso e fatto una cosa che faccio molto poco spesso. Mi sono fatto i complimenti. 

Traslochi

Ho preparato una scatola. Anche se davanti alla porta adesso ce ne sono due. L’altra contiene i maglioni e i calzini invernali che provengono dal cambio di stagione. Nella scatola che ho preparato ho inserito invece i tuoi colori, i pennelli, tutta la cartoleria, alcune foto, due piccole scatole che chiamo le scatole dei ricordi (piene a loro volta di foto, lettere che provengono dalla preistoria, oggetti che per un motivo o l’altro hanno segnato la mia vita fin qui), due casse bluetooth, tanti cavi che non so bene a cosa servono ma che per scrupolo o perché non saprei in quale bidone della differenziata buttare, sto portando con noi. È solo l’inizio, mi sono detto, mentre chiudevo il coperchio della scatola di plastica di ikea e lanciavo uno sguardo alla scrivania ancora piena di cioccoli che non avevano trovato collocazione nella prima scatola. 

Quanti traslochi avrò fatto nella mia vita? Mi è venuto da chiedere, osservando quanto col tempo si sia in fondo ridotto l’ingombro che mi porto dietro di casa in casa. 
Tutti i miei libri giacciono nella cantina di un mio amico da tre anni, alcune cose tua madre ha a tutt’oggi la pazienza di conservare: il mio hi-fi e qualche libro che, di tanto in tanto, quando mi ci cade lo sguardo sopra, domando retorico “questo è mio?”, ritrovando la sua risposta scettica “non credo. Mi pare lo avevo preso a casa di mia madre”. A poco serve rincorrere i ricordi, fermarsi al momento in cui avevo comprato Kaputt su ebay a quattro soldi in un’edizione vecchia di 40 anni. Ormai è suo o tuo, per quando sarai grande. Certamente non più mio, come forse non lo è mai stato, espropriatomi dalla lettura che gli ho negato nell’attimo in cui era atterrato tra le mie mani. 

Sono così tristi i traslochi che non vorresti mai farli da solo. Ne parlavo anche nel mio romanzo rimasto inedito. Raccontavo un trasloco immaginario nel quale lui veniva affiancato da una lei premurosa e pragmatica. Nella realtà anche in quel trasloco ero solo. Sono tristi i traslochi perché ti costringono a scegliere. Scegliere cosa portare, cosa non scegliere per il momento, cosa buttare. E nel farlo passi in rassegna la tua vita, gli oggetti che l’hanno composta o accompagnata, li soppesi sulle dita, ti chiedi “ne ho davvero bisogno?” e la risposta non è mai perentoria. Mi piace fantasticare da sempre sulle ditte di traslochi. Persone incaricate di sondare le tue stanze, impacchettare, ordinare, scegliere per te. Poi ti portano tutto nella tua nuova casa, spacchettano, impilano, incasellano, ordinano di nuovo. Tu hai il solo compito di infilare la chiave nella serratura ed entrare nel nuovo capitolo della tua vita. 
Certe cose però probabilmente non esistono e me le immagino come immaginavo a scuola macchine del tempo che mi avrebbero portato avanti e dietro nelle 3 ore del compito di latino per rubare al futuro informazioni preziose da rendere al me impacciato del passato. 

Quando sono andato via dalla mia ultima casa da studente per andare a vivere con tua madre, tranquillizzato dal fatto che uno dei miei coinquilini storici rimaneva a vivere in quella casa, ho lasciato buona parte delle cose che avevo in due armadi in corridoio che avevo fatto miei. Pensavo che nelle settimane successive sarei andato a riprendere tutto. Di fatto non ci sono mai tornato. È stato così che ho perduto un pezzo di coperta di lana ricamata a mano da mia nonna per quando nei pomeriggi d’inverno avrei studiato al freddo (ti terrà calde le gambe, così mi aveva detto). E a distanza di 11 anni, vorrei ancora avere una Delorian che mi porti a non dimenticarla. (A proposito, sai che Agata ha chiesto al mio coinquilino se per caso la coperta era ancora in giro in casa? Volevo regalarmela per il mio compleanno. Sarebbe stato folle e pazzesco ma non ha funzionato).
Sono così i traslochi, mi dico adesso che provo a riflettere su quanto ho imparato dai miei tanti traslochi trascorsi, tentando in tutti i modi di dare un luogo, una posizione, un biglietto per imbarcarsi in una scatola a qualunque cosa. Eppure non c’è trasloco senza sacrificio. Provo a trovare un senso da riferirti in questa ultima lettera di inizio agosto, prima di ritrovarti tra più di un mese. Ci penso, non lo trovo. Forse, mi dico, è solo una questione d’ordine e costringersi a trovarne uno al momento del trasloco è una specie di forzatura o di inganno al quale ci sottoponiamo senza capacità concreta e reale. L’ordine è nelle cose di ogni giorno, nel mettere un libro al suo posto, un fumetto impilato con gli altri, una bambolina nella scatola dei giocattoli, un pezzetto di Lego insieme ai restanti. Vuoi vedere, amore mio, che la lezione che dovremmo imparare è di dover ricominciare in maniera differente da tutti quelli precedenti? E forse il “ri” è davvero di troppo. Facciamo che stavolta cominciamo?

Figlia

Agata mi ha portato a cena a casa di una sua amica che nel mezzo di una conversazione sul Covid, l’estate e il cous-cous mi ha detto che adora quel pezzo in cui ti faccio fare della solitudine e delle sofferenze collane di perle che indosserai quando sarai grande. Ho fatto fatica a capire di cosa stesse parlando, non afferravo il discorso e mi pareva di sentirmi come quando si è nel mezzo di una chiacchierata in una lingua straniera e ti pare che perso il significato di una parola hai improvvisamente perduto il senso di tutta la conversazione. Quando mi ha visto disorientato, ha aggiunto altri elementi, recuperando dalla memoria principesse e pirati. Ho allora capito che parlava di una lettera che ti ho scritto qui e ho avuto l’esigenza di fissare il piatto che avevo davanti e riempirmi la bocca di cibo.
Che strana sensazione vedere traslato il nostro mondo al di fuori di qui, trasportato sulla bocca di qualcuno che non ti conosce e ha appena conosciuto me. Quanto ci rappresenta davvero tutto questo?

Ci ho riflettuto tanto e mi è venuto in mente quel pezzo di Vecchioni che dà il titolo a questa lettera. È curioso perché ho ascoltato tantissimo quella canzone in tempi non sospetti, quando tua madre e io eravamo lontanissimi dalla nostra separazione. Lo ascoltavo, prima ancora che tu nascessi e poi ancora quando sei nata o eri piccolina. Dentro ci sentivo una malinconia sottilissima, non capivo – come avrei potuto? – eppure capivo, come se dentro quei versi ci fosse scritto un destino. E mi arrabbiavo con Vecchioni ogni santissima volta che lo sentivo pronunciare che un sogno lo aveva portato lontano. Mi dicevo “come può un sogno portarti lontano, come puoi permettere a un sogno – soltanto un sogno – di portarti lontano’”. E lo pensavo egoista e cinico, concentrato su se stesso da non avere spazio per altri. E ora, ora che quella canzone mi riguarda così tanto, ora che ho trascorso gli ultimi tre anni a riascoltarla filologicamente parola per parola, come a voler scorgerci dentro una verità assoluta e superiore, capisco più che mai la sensazione di trovarsi sospesi in una vita nella quale tu sei presente fisicamente solo parte del tempo. Rimanendo come intontiti a ogni separazione, incastrati in una bolla improvvisamente vuota nella quale non ci sono più le risate, gli scherzi, le carezze, i baci ma solo la loro eco. E capisco così tanto, così bene, il poco e male, che è diventato mio, nostro. 

Quante volte avrei voluto parlare con Vecchioni. Con lui, con chiunque altro abbia vissuto questa esperienza. Chissà, forse anche per questo ho aperto questo blog, come una rete sospesa a un trabocco sul mare, tesa a raccogliere i pensieri miei che galleggiano nell’acqua cheta. E quei pensieri sono miei e tuoi che stai leggendo. Sono forse anche dell’amica di Agata che ha fatto sue le perle e indossato la collana per il tempo di una lettera, o per non so quanto ancora. Non so, forse dovrei farle sapere che quelle perle non erano tue ma di Agata che le sta indossando di nuovo, proprio adesso, mentre sta in cucina, abbarbicata in una delle sue posizioni da sciamano indiano, sfregiandosi la pelle intorno alle unghie delle mani. È in questi momenti che la nostra vita pare uno di quegli esercizi che ci davano da risolvere al quinto anno di liceo. Allora come adesso, io resto fermo prima di afferrare la penna e cominciare a disegnare schizzi. Guardo all’indietro, poi in avanti. Mi chiedo come saremo tra un mese, un anno o dieci. Ma è un gioco perché la soluzione sta già dentro al foglio. E fare è l’unico modo per sapere. Fare, costruire (come dicevo in una lettera di qualche tempo fa). È per questo che se ti guardi le mani sono sempre sporche di calce. Agata lo sai, sì?

Ogni cosa che c’è

Quanta concentrazione ci metti per rendermi felice, quanta dedizione, quanto scrupolo, sentimento, attenzione, impegno, riflessione, amore? Spesso ti osservo senza sapere esattamente il carico di ansie e stress che ti porta tutto quel lavoro extra a cui ti dedichi per costruirmi una sorpresa, un segnale, un piccolo, a volte impercettibile eppure straordinario, regalo lasciato sopra la porta della mia stanza a dirmi “hey, io ci sono e ti amo!”.
Lascio che i giorni qualche volta prendano il sopravvento, si facciano lame che tagliano via attenzioni e osservazione. Rimango a guardare e lascio che la sedia liscia sopra la quale sono seduto diventi uno scivolo che mi trasporta lontano da te.

È successa la stessa cosa forse anche per il mio compleanno. Io me ne stavo beota a osservare i preparativi per la cena che tua nonna aveva organizzato e contemporaneamente ti vedevo sfrecciare per casa, ora con telefono in mano, ora con un foglio di appunti, poi ancora con uno da disegno. Di tanto in tanto ti fermavi vicino a me e mi dicevi di essere stanca ma eri felice. Sapevo, immaginavo, che insieme ad Agata stavate tramando qualcosa e ti lasciavo fare, tenendo chiusa in una scatola la curiosità che voleva ti facessi qualche domanda di troppo. E mentre tutto questo accadevo e costruiva un piano che ignoravo ancora, non devo essermi reso conto che il mio regalo era proprio lì davanti a me. Il mio regalo erano i tuoi passi scalzi da una stanza all’altra, ogni singola lettera o numero composto sullo schermo del telefono, ogni striscia di colore impressa su un foglio. E questo regalo è sempre qui, ce l’ho davanti persino adesso che me ne sto al computer a tentare di rimediare all’ennesima scadenza mancata e tu te ne stai tranquilla a dormire per concedermi qualche altro minuto per finire questa lettera. 

C’erano quaranta dolcetti sul tavolino basso di tua nonna quella sera. Quaranta dolcetti tipici che Agata aveva fatto arrivare grazie a un corriere e al tuo aiuto direttamente dal suo paese. Su ognuno avevi piazzato una candelina che mi hai rivelato di aver acceso personalmente. Erano ordinati in un rettangolo con 5 dolcetti sul lato corto e 8 su quello lungo. Tu hai sistemato tutto, insieme alla splendida torta che aveva preparato tua zia, coordinato la banda di cugine, zie e nonna che avevi davanti come un maestro consumato fa con la sua orchestra. Poi hai abbassato le luci e sei venuta a chiamarmi. Mi hai preso per mano e mi hai portato lì con gli occhi chiusi.
C’è un video che racconta tutto questo. Ma come accade spesso nei video, non c’è modo di vedere la verità. In quel video arrivo nella stanza rigido e con un sorriso ebete sulla bocca. Dico qualcosa che vuole essere una battuta e sembra invece soltanto un lamento. Tu mi trascini e contempli da dietro le mie spalle il capolavoro che hai appena realizzato. Io lo guardo, ti cerco, ti trovo, ti abbraccio e ti imploro di soffiare le candeline insieme a me. Se un giorno inventeranno una macchina per leggere i pensieri della gente e proveranno a decodificare questo video, scopriranno che non desidero nient’altro che la tua felicità. Con tutta la forza dei polmoni e delle palpebre chiuse, soltanto la tua felicità.

Intanto ripenso a tutto questo. Al lavoro che ti è costato, all’impegno, la dedizione, la costanza, anche la riservatezza o la fatica di mantenere un segreto che non sei abituata a tenere in serbo. Più ci penso, più mi pare di capire una di quelle cose importanti che sembrano scritte nella natura, nei libri, nelle stelle: ogni gesto, ogni sguardo, ogni carezza, ogni passo, ogni soffio o bacio o sussurro o parola è per me, soltanto per me. Ed è il miracolo più straordinario al quale io abbia mai assistito o preso parte. È l’esistenza di Dio.

Costruire

Esattamente un anno fa cominciavo a scriverti queste lettere. Sentivo che ogni istante della vita che trascorrevamo insieme e di quella parte di esistenza durante la quale eravamo distanti, aveva una quantità di informazioni che sarebbero andate perse se non le avessi catturate e impresse da qualche parte. Fotografie, fotogrammi o piccole clip del girato dei nostri giorni insieme e lontani. Cominciai allora a scriverti, immaginandoti come interlocutore presente e futuro. Ho sempre provato a essere più onesto che potevo. Mai romanzando, anche quando la tentazione di farci apparire più belli e divertenti e simpatici era forte. Siamo solo io e te, tu e io. E abbiamo riempito quaranta lettere in un anno: dodici mesi, cinquantaquattro settimane, trecentosessantasei giorni, ottomilasettecentoottantaquattro ore della nostra vita.

Sai, avevo ragione. In queste lettere sono rimasti appiccicati un sacco di ricordi che avremmo perso. Alcuni, immagino, li avrei persi solo io. Altri tu. Altri ancora entrambi. Sono invece qui dentro. A distanza di un solo anno, li ho ritrovati già, sfogliando queste lettere sin dall’inizio e ho provato quella sensazione che si prova quando ritrovi una foto del passato, la guardi e rivedi quella maglietta che indossavi e improvvisamente ti ricordi quanto le eri affezionato, quando o come l’avevi avuta, alcuni dei giorni nei quali l’avevi addosso. Ho un ricordo così. Di una maglietta blu elettrico dell’Energie che avevo durante il primo o secondo anno del liceo. Blu, con delle righe rosse che percorrevano perpendicolari le spalle e la E che aveva la forma di una freccia sul petto. Tamarrissima, diremmo oggi. Eppure mi ci sentivo un figo. La mettevo negli ultimi giorni di scuola. Elasticizzata e aderente (allora potevo permettermelo), sopra ai miei pantaloni strappati alle ginocchia e con i capelli a spazzola ingellati, mi sentivo gli occhi delle ragazzine della mia classe addosso e stavo bene.

Siamo stati bene allo stesso modo in molte delle storielle che ho raccontato finora. In alcune appariamo davvero buffi. Mi commuove un po’ leggere a ritroso le cose che ci sono successe nell’ultimo anno e sorrido quando sembriamo una coppia consumata del cinema che fa gag esilaranti. Se fossimo ad un pranzo di un matrimonio e questo fosse il mio discorso agli sposi, direi una di quelle frasi che si sentono sempre in questi casi: “quante ne abbiamo passate insieme!”. Belle ma anche brutte. Qui dentro, infatti, ci sono anche tante lacrime che insieme e separati abbiamo versato.
Quando sarai grande e le leggerai, ci ritroverai dentro i miei tentativi goffi di farti imparare a riconoscere Bruce Springsteen, la passione per Guccini, i disegni belli e quelli che abbiamo rovinato, le delusioni che ti hanno rifilato alcune tue amiche, alcuni dei giochi che facevamo, le passeggiate per Roma, la paura del virus, il rapporto con tua madre, molti dei ricordi del mio passato (alcuni dei quali affioravano proprio mentre ti scrivevo), la nascita di un nuovo amore, gli attimi belli e emozionanti del vostro primo incontro, i nostri tic, i film, le canzoni, la montagna, le favole, i giocattoli, le macchine fotografiche e la fotografia, i libri, i compiti, la scuola, gli amici, i desideri, il futuro e il passato (quello bellissimo e quello tristissimo), i dolci, le seratine speciali e i toast a colazione, le matite colorate e i pennarelli, le punte spezzate, la nostra numerosa famiglia, i viaggi, la nostra casa, le paure e le speranze, Roma e la Roma, le risate, i sorrisi e le lacrime, le domande, i racconti, le ninnenanna, la mia passione per le liste, l’amore, tutto il nostro amore.

Quando avevo più o meno la metà degli anni che ho oggi, scrivevo già racconti. Quando li finivo, li firmavo con le miei iniziali e appuntavo il giorno e l’ora esatta con la scritta “per chi dovesse viaggiare nel tempo”. In quell’appunto, c’era la possibilità per il me del futuro che avrebbe ritrovato quei racconti molti anni dopo, di sapere con esattezza l’attimo irripetibile che li aveva partoriti e, soprattutto, la consapevolezza che in quell’attimo c’era un pensiero per lui, una specie di saluto dal passato.

Sono le 8 e cinquantasette minuti del 3 aprile 2020. Sono nella mia stanza e ti sto scrivendo la quarantesima lettera di una serie iniziata un anno fa. Ciao, figlia del futuro. 

La tua canzone

Ti ho lasciata pochi minuti fa davanti scuola. La maniglia del tuo zaino in una mano, nell’altra la mia mano. Hai detto “ciao papi” e hai fatto per scappar via ma io ti ho trattenuta reclamando un altro bacio, più grande di quello precedente. Mi hai accontentato e fatto un sorriso proprio bello. Poi sei andata e io, come al solito, sono rimasto lì a guardarti scomparire nel corridoio della tua scuola. Mentre andavi però ti sei girata due volte per guardare se ero ancora lì e io c’ero e agitavo un braccio come se fossi appena salita su un transatlantico che ti avrebbe portato dall’altra parte del mondo. Tu ridevi, io ti mandavo baci, gli altri genitori mi passavano accanto indifferenti.
Credo il bidello della tua scuola si sia accorto che rimango sempre lì un paio di minuti dopo che sei entrata. Mi guarda o forse sono solo io che mi sento guardato. A volte me lo immagino che scuote la testa come a dire “questi papà apprensivi”. Non so se è realmente così. So però che ogni volta, faccio finta di tirare fuori le cuffie dalla giacca, le srotolo, me le ficco nelle orecchie e questo mi consente di avere circa un paio di minuti di velata nonchalance.

Stamattina, mentre venivo a lavoro, faceva freddo. Quel freddo che a Roma si vede ben poco d’inverno. Mi pungeva alle caviglie e alle ginocchia e per evitarlo andavo piano e stringevo le gambe verso il centro del motorino. Facendo slalom nel traffico, pensavo a te, alla tua giornata a scuola. Spesso quando siamo insieme ci raccontiamo di scambiarci. Io vado a scuola per te e tu vieni a lavoro per me. Quando facciamo questo gioco tu mi interroghi sulle cose che dovrò vivere nella mia giornata al tuo posto, così so per certo ogni cosa che accade dal momento in cui in cui ti lascio. Nella mia giornata al tuo posto so dunque che dovrò affrontare una piccola ricreazione, prima che arrivi la maestra, poi l’appello, delle spiegazioni, un’altra ricreazione (un po’ più lunga) insieme a una merenda, altra spiegazione o esercizi in classe, mensa, piccola ricreazione, esercizi e poi attesa dell’uscita. Quando invece ti chiedo “e tu al mio lavoro cosa farai?”, tu mi rispondi che preparerai dei caffè (quanti? Per chi? Non si sa. È solo che ti piace usare la macchina Nespresso del mio ufficio), poi ti siederai alla mia scrivania e stamperai dei disegni da colorare. Il mio lavoro è dunque questo per te: fare caffè e stampare disegni. Non male.

Ora sono a lavoro davvero, mentre tu avrai superato l’appello e sarai nel mezzo della prima spiegazione del mattino. Mi perdo un po’ a pensarti, seduta nel tuo banco, illuminata di traverso dalla luce calda di questo sole d’inverno. Guardi la maestra attentissima a non perdere una parola. Io il caffè non me lo sono fatto, invece. Avevo finito le cialde e sono allora andato a prendermi un cappuccino al distributore automatico. Ho preso anche una Kinder Delice (e sì, lo so che non avrei dovuto e so anche che stando ai nostri accordi, se prendo una schifezza per me la devo prendere anche per te. Ti devo quindi una Kinder Delice). Sono poi arrivato in ufficio, ho acceso il computer e mentre cominciavo a scrivere questa lettera ho messo Coez su Spotify. Dovrei cominciare a lavorare un po’, non mi va. Quasi quasi mi metto a cercare qualche disegno da colorare su internet.

Quest’uomo

Ho scoperto, forse già lo sapevo, certamente lo speravo, che hai il mio senso dell’umorismo. Per lo meno, credo tu abbia un senso dell’umorismo simile a quello che io mi attribuisco: acuto, sottile, a volte un po’ ruvido, talvolta pungente, istintivo e spontaneo. Non è una cosa che viene fuori sempre. Deve esserci di base una specie di alchimia che si instaura con le persone che ti stanno intorno. Funziona così anche per me: intimità, agio, rilassatezza. 

L’altro giorno, per dire, eravamo in macchina e io ti chiedevo se avresti voluto andare al cinema a vedere i Me contro Te. Tu eri indecisa perché non eri sicura ti sarebbe piaciuto. Allora io ti ho detto che nessuno va al cinema a vedere un film che sa per certo gli piacerà, è la seduzione della sorpresa. E una sorpresa può essere bella o brutta. Naturalmente mentivo perché io vado al cinema a vedere solo i film dei registi che mi piacciono o quelli che mi consigliano persone di cui mi fido. Ma questo non te l’ho detto perché vorrei farti crescere un po’ meglio di me. Ho allora cominciato a scherzare e raccontarti di quanto possa essere bello scoprire di aver visto un film meraviglioso. Nel dirti questo ho detto “vedi un film che non ti aspettavi e dici bomba che capolavoro!” e tu hai cominciato a ridere tantissimo per il mio “bomba”. E mentre ridevi mi dicevi “papà ma come parli?” e io ti ho detto che parlo come parlano i giovani e tu mi hai risposto di essere giovane e non aver mai detto “bomba”. E io allora ti ho detto che ti autorizzavo a dirlo ma tu non mi hai preso sul serio e mi hai detto che una cosa così non esiste e non puoi dirla ai tuoi amici perché non esiste nemmeno per loro e poi hai continuato a ridere ancora un po’. Ridevo anch’io e riflettevo nel frattempo sul tuo “papà”. Riflettevo sui modi con i quali ti rivolgi a me. Generalmente mi chiami papi, delle volte pipi, quando vuoi essere ilare mi dici padre (e io mi rivolgo a te dicendoti figlia), altre ancora inventi dei nomignoli che si esauriscono lì per lì. Usi però la parola papà solamente quando sei molto seria, quando vuoi raccontarmi qualcosa sulla quale pretendi un ascolto speciale. Il tuo papà blocca le cose, come a dire attenzione da questo momento devi ascoltare meglio. E allora mentre ridevo mi immaginavo me nella tua testa, mi immaginavo questo padre quasi quarantenne che usa parole da ventenne che ha rubato per strada a qualche adolescente e si infila in bocca per farcire una conversazione di un elemento di scalpore e immediatamente tu lo percepisci, lo decodifichi e ti chiedi perché, anche se ridi, ti chiedi chi io sia in quell’istante o forse chi io voglia essere. E nel farlo forse mi costringi a riflettere davvero su quanto e come io sia me stesso, quanto e come possa apparirti realmente chi sono. E immediatamente capisco che quel “bomba” lanciato alla rifusa in una frase è un estraneo tra noi. Tu fai questo e capisco chiaramente che davanti a te sono sempre nudo, un padre, un uomo. Come in una striscia continua e senza pause, sono adolescente, adulto, senior. Sono tutto quello che sono stato e quello che sarò, sono l’insieme delle parole che ho detto, quelle che ho pensato, quelle che ho solo sentito senza pronunciare. Davanti a te io sono solo io, senza trasformazioni né trucchi, sono il mio nome. È per questo che quando un attimo dopo mi hai detto “papi tu sarai anche giovane dentro ma fuori sei molto vecchio” ho riso quasi con le lacrime agli occhi perché mi sono visto coi i capelli tutti bianchi, le rughe profonde e le mani rinseccolite mentre provo a ballare una tarantella senza esserne capace. E quella tarantella la ballo perché tu suoni la fisarmonica e io devo seguire solo il ritmo, nient’altro.

Poi siamo arrivati a casa e hai notato che avevo attaccato alla parete il disegno che mi avevi fatto per il mio compleanno. Nel disegno ci siamo io e te sotto ad un cuore gigantesco. Allora disegnavi ancora le figure umane con delle gambe lunghissime. Quando sei entrata, hai visto il disegno e mi hai detto “papi ti avevo fatto magrissimo”. Io ti ho risposto “mi hai fatto come sono” e tu hai aggiunto “no, se volessi farti come sei non entreresti in due fogli”. Ecco, a questo punto dovrebbe scattare la mia solita sviolinata sul quanto sia bello e unico e sensazionale averti come figlia. E invece no. Stavolta ti scrivo per dirti che non mi importa se sono vecchio o grasso, ciò che voglio, ho e sono è essere me stesso e esserlo con te e per te e questo è davvero la cosa più straordinaria che possa capitare in una vita. E questo, sì, è davvero una bomba!