Ti sposerò

È tanto che non ti scrivo. Non saprei nemmeno quanto, so però per certo che nessuno di noi è più lo stesso dell’ultima volta che ti parlavo da qui. Non lo sei più tu, con i tuoi dolori ormai costanti al basso addome, uno spirito da preadolescente e la voglia incondizionata di contrastarmi, come a pareggiare un conto che è stato aperto chissà quando. Non lo è più Agata, fin troppe volte delusa nel profondo dell’animo da arrivare a dire qualcosa che non aveva ancora mai immaginato: “io non ci sto più dentro così”. E non lo sono più io, provato, vinto, consumato dai problemi che avevo trascinato fin qui come fossero un difetto fisico con il quale io avevo imparato a convivere e gli altri dovessero accettare, tollerare e rispettare. 

E poi, come capita sempre, un giorno ci si tira su dal letto e mancano le forze nei polpacci per tenersi in piedi. Perché l’universo di approssimazioni al quale ci si era aggrappati ha trovato le pareti del vaso nel quale era contenuto, dimostrando finalmente che non era affatto un universo ma un banalissimo litro di melma schifosa.
E dentro quel vaso ho dovuto ficcarci la mano per capire quanto poco profondo fosse e quanto viscido e disgustoso potesse risultare. Per l’esattezza, ho dovuto aspettare che per l’ennesima volta Agata mi dicesse di guardarci dentro, di farlo per favore da solo, perché la sua vista non ne poteva davvero più.
L’ho fatto, lo sto facendo ancora, mentre me ne sto a contemplare fuori per ore e il lezzo di quella melma mi perseguita. 

Credevo. 
Credevo moltissime cose sbagliate. In molte delle quali non avevo mai creduto ma ho cominciato a credere fingendo di credere e finendo per credere davvero.
E ora, ora che non credo più a niente, ora che mi pare difficile persino pensare di poter credere di esser svegli, camminare, parlare, mi vedo costretto a mettere in dubbio ogni singolo pensiero partorito dalla mia testa, come un pregiudizio innato, come un istinto di sopravvivenza pronto a mettere in dubbio qualsiasi cosa pur di imparare nuovamente a stare al mondo.
E al mondo non ci sono saputo stare veramente fino a ora. Costringendo te e Agata a seguirmi in un gioco perverso e senza fine, nel quale io disponevo e poi cambiavo, mischiavo le carte, le distruibuivo e quando lei stava per dire “7 avevi detto 7 carte”, io ero immediatamente pronto a ribattere “scherzi? Si gioca con 5 carte”. 
Quante volte Agata ha sospirato amaro, finendo pure lei per accettare che le carte fossero giuste e che lei stessa ricordasse male. Lei che ha la memoria di un elefante, la costanza di quei simulatori di Ikea che per anni e anni aprono e chiudono un cassetto per dimostrarti che non si romperà mai, e la pazienza di una montagna. 
E ho lasciato fare a tutti ciò che pensavo fosse nelle proprie corde, illudendomi di esser io a seguire voi mentre era evidente e a tutti, fuor che a me, quanto ognuna di voi seguisse solo me, ovunque e comunque.

L’ho visto chiaramente mentre eravamo qualche giorno fa in canoa. La guida ci aveva messo in mano una pagaia e spiegato come andare avanti, girare, fare retromarcia. Poi ci aveva imbarcati e non avremmo dovuto far altro che seguire il gruppo davanti a noi.
Tu eri davanti a me, non potevi vedermi. Io ero dietro e il mio compito sarebbe dovuto essere dettare il passo e darti istruzioni per seguirmi. Seguirmi, anche se io ero dietro, capisci?
Ho provato forse due o tre volte a dirti di non accarezzare l’acqua, di remare, ficcare decisa il remo in acqua e tirare. Ma non ero convinto nemmeno io di quello che ti dicevo e ho finito per chiederti di tirare su la tua pagaia, goderti il viaggio e lasciar fare a me. E mentre ti guardavo le spalle, mentre ti giravi attorno osservando la natura e accarezzando con le dita l’acqua del fiume, ho visto chiaramente quante volte in questi 10 anni ho preteso che semplicemente seguissi me, senza poi lasciarti alcun tipo di istruzione precisa su come farlo o, quando il caso (purtroppo il caso), lasciava intuire delle regole, rimetterle in discussione al primo ma, al secondo però, al terzo dopo.

E ora? Ora non ne ho più voglia. Non ho più voglia di soccombere a me stesso, di cedere ancora all’incapacità di dire no o basta. Troppe volte l’ho fatto e guarda in che pasticcio ho ficcato te e Agata: una vita senza midollo, in cui tutto si arriccia su sé stesso, rischiando di far apparire i giorni tristi e senza vita. Siamo arrivati al punto di aver paura di vivere, stare insieme, incontrarci, per timore di soccombere ancora all’indolenza. 
Te lo devo. Ti devo un’educazione seria, concreta, vera. Ti devo delle regole, ti devo dei no e dei basta, non solo scherzi, sorrisi, abbracci, e spensieratezza. E devo a Agata la vita che mi ha dato, ogni singolo respiro che mi ha insegnato e il rispetto che merita la scelta di voler creare una famiglia con me. Perché questa famiglia è casa nostra: mia, tua e sua. E se l’amore che abbiamo ce l’ha dato Dio (o San Giacomo per lui), conservarlo, onorarlo, venerarlo e beatificarlo è compito nostro e se non farlo è peccato, farlo male è anche peggio. E tu che sei mia figlia e mi vuoi bene, devi sapere subito, ora, sempre, quanto io ami Agata dentro al cuore che scalda il sangue che mi tiene in vita. 

Rimetti tutto in valigia e fallo per bene. Ripiega in quattro questa lettera e tienila da conto. Torniamo a casa e cominciamo a vivere. Domani è finalmente domenica.

T’immagini

C’è stato un tempo nel quale ogni chiamata con tua nonna aveva una durata prestabilita che non superava mai, dico mai, i due minuti e mezzo. Anche il plot di queste telefonate era invariabile, suonava più o meno così:

– Come va?
– Bene e a voi?
– Tutto bene.
– Avete mangiato?
– Sì e tu?
– Non ancora, tra poco.
– Che tempo c’è?
– Ha piovuto. Ora sole, lì?
– Sole.
– Avete deciso quando venire?
– Non lo so, spero presto.

Poi arrivava il momento dei saluti che era introdotto da una lunga serie di miei “vabbè dai” che annunciavano la fine della conversazione. Mediamente due/tre volte la settimana, a orari fissi, in tarda serata e spesso anche domenica all’ora di pranzo. Nel frattempo, correvano via interi spezzoni di vita nostri e loro di cui reciprocamente ignoravamo l’esistenza. Se tua nonna veniva ricoverata in ospedale, che so per dei controlli, un nervo infiammato, una cisti, io non lo sapevo; se tuo nonno piantava o raccoglieva fagioli, ceci, patate, pomodori, zucchine o melanzane, io non lo sapevo; se i tuoi nonni facevano un viaggio, spostavano una parete di casa, compravano un divano nuovo o mandavano in assistenza la tv o la lavatrice, io non lo sapevo. Se tu cadendo ti sbucciavi un ginocchio, se imparavi ad andare in bicicletta senza rotelle o a pattinare, se ti regalavo un fumetto e ti trovavo seduta in bagno a leggerlo voracemente, loro non lo sapevano; Se io ricevevo una promozione o una gratificazione a lavoro, se mi iscrivevo a un corso per approfondire qualche argomento, prendevo la patente della moto, andavo allo stadio e vincevo oppure tornavo a casa depresso perché avevamo perso male, stai pur certa che loro non lo sapevano. In compenso però conoscevo benissimo la loro dieta e le condizioni climatiche di quel pezzo d’Italia. 

Probabilmente tutto ciò ti suona strano e non nostro. Perché è contrapposto a una realtà attuale molto diversa, fatta di lunghe telefonate, di racconti dettagliati, di risate, approfondimenti, riflessioni, domande. Che cosa è cambiato io non saprei dirlo completamente. Posso raccontarti che prima ancora che tu la conoscessi, un giorno Agata prese il mio telefono e inviò un messaggio a tua nonna scrivendole “ti voglio bene” seguito da un cuore. Io non lo avevo mai scritto e non lo avevo nemmeno mai detto. Posso dirti che prima ancora che tua nonna e Agata si incontrassero di persona già facevano lunghe chiacchierate al telefono il cui argomento principale eravamo io e te. Posso dirti che, senza rendermene conto, un giorno ti chiesi di andare dai nonni prendendoci due giorni da scuola e da lavoro e mentre tornavamo stavamo già entrambi progettando il viaggio successivo e che da allora raramente lasciamo trascorrere più di tre o quattro settimane senza ritornare. E, infine, posso raccontarti di come dopo quasi 40 anni trascorsi in un silenzio devastante, una domenica ci siamo seduti a tavola e ho chiesto a tua nonna se ci raccontava come aveva conosciuto tuo nonno. Così, d’improvviso, mentre sciorinava sulla tavola apparecchiata il suo racconto d’altri tempi, ho distolto lo sguardo dai suoi occhi allegri e commossi e l’ho lasciato sorvolare tutt’intorno. Ho visto Agata rapita e divertita, ho visto tuo nonno imbarazzato e contento, tua cugina che sorrideva, te che ascoltavi con un orecchio e con le mani ti avvinghiavi a Agata. Ho visto me in mezzo a tutti noi e improvvisamente ho fatto una scoperta che mi ha lasciato senza fiato: questa è la mia famiglia ed è la famiglia più bella del mondo. 

C’è un merito in tutto ciò: di Agata, tuo, dello psicanalista, di San Paolo, della pazienza dei tuoi nonni, di tante altre combinazioni fortunate che hanno portato a questa riscoperta. La verità è che il merito stesso è della vita che prende a volte direzioni insensate, anche se mai sbagliate, e che ti porta a fare magari un tragitto lunghissimo per arrivare dove saresti potuto arrivare con un semplice saltello, esattamente dove la risposta a tutte le domande fa capolino in ogni storia (e la nostra non fa certo eccezione): lì dove sta l’amore. 
Nel nostro bagno di casa, la tazza che contiene gli spazzolini recita “la vita può esser capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti”. Forse non ho ancora la capacita completa per capire tutto ciò che è successo finora, so però per certo che ho avuto la più straordinaria fortuna si potesse desiderare. Non fortuna di caso, casualità. Ma fortuna di benedizione, salvezza, grazia. Questa fortuna ha tanti nomi e tante facce: la tua, quella di Agata, quella di nonno e nonna, degli zii, delle cugine, degli amici. E la mia.

Here comes the sun

Ti ho lasciato a casa di tua zia perché volevo stare un po’ con mio padre. Tu sei salita al piano di sopra con le tue cugine e non sapevi me ne sarei andato di lì a poco. Mentre tua zia mi preparava un caffè, sentivo la tua voce che dettava istruzioni per un gioco. Poi sono uscito, salito in macchina e partito a retromarcia per uscire dal vialetto. Ero già sulla strada quando mi sono fermato e ho fissato un punto davanti ai miei occhi. La casa degli zii era lì davanti a me. L’ho vista nella sua interezza e provato a immaginare il muro attraverso il quale avrei potuto vederti, se avessi avuto una vista bionica. Non ti avevo detto ciao né che me ne sarei andato, anche se solo per qualche ora. Ero solo in mezzo alla strada, qualche fiocco di neve danzava leggero verso l’erba gelata dei prati e il vetro davanti a me cominciava già ad appannarsi. Ho pensato “via, sarà solo qualche ora”, ma invece di continuare in avanti, ho fatto retromarcia e sono tornato nel vialetto. Ho suonato alla porta e tua zia è venuta ad aprire sapendo che avrebbe trovato me dall’altra parte: “cosa hai dimenticato?” mi ha chiesto. Io ho sussurrato “nulla”, fatto qualche passo in avanti e salito due gradini della scala che porta al piano di sopra. Da lì ti ho chiamata, due volte. Tu mi hai risposto, io ti ho detto soltanto che stavo andando via, che sarei passato a riprenderti più tardi. Hai risposto ok e ti ho sentita scappare per tornare a giocare. Tua zia ha scosso la testa, in una smorfia di esasperazione. Più leggero me ne sono salito in macchina e sono tornato in paese. 

Ho fatto tutto questo quasi senza pensare, sicuramente senza riflettere. In una maniera meccanica, come per rispondere solamente a un’esigenza di giustizia che premeva da dentro, che a tratti si scontrava con un senso di ridicolo e superfluo. Guidando però mi sono reso conto di ciò che avevo appena fatto. L’importanza di un gesto superfluo eppure necessario e imprescindibile: salutarsi. Anche senza ricordare esattamente qualcosa, ho provato dentro una sensazione di abbandono e delusione che giaceva silente da qualche parte nella memoria. Ho rivisto la mia mano stretta in un’altra, e il vuoto dentro il quale era avvolta al mattino dopo. Una sensazione senza spazio né tempo che da qualche parte è ancora viva e ferisce. 

Mentre scalavo le marcie per affrontare una curva, ho notato che il paesaggio attorno era di un bianco più spesso. Ho acceso l’aria calda della macchina, sorriso e fatto una cosa che faccio molto poco spesso. Mi sono fatto i complimenti. 

Le feste di Pablo

Quando avevo più o meno la tua età, i tuoi nonni decisero di trasferire tutta la famiglia nel loro paese d’origine. Io e tuo zio eravamo bambini. Mi ricordo un pranzo, forse una cena, nella cucina con le piastrelle a fiori gialli. Tuo nonno ci chiese cosa ne pensavamo, io pensai alle vacanze. Ma quando fu più chiaro esultammo di gioia. Andare in paese era sempre una festa. I nostri nonni ad accoglierci, la libertà di poter scorrazzare in strada, il verde della collina ovunque tutto intorno. Forse non solo questo, non so. Eravamo felici. Mi ricordo il camion dei traslochi. Mi ricordo i primi tempi ammucchiati in 4 in una stanza, in attesa che la nostra casa venisse ultimata. Mi ricordo le premure di mia nonna, i pranzetti e le cene, la prima neve, il giubbotto celeste che avevo addosso e mi ricordo esattamente l’emozione, la voglia di conservarla e tenerla per quando sarebbe finita. Mi riempii le tasche di neve, poi tornai in casa. Le risate di tua nonna e della mia. 
Il resto però non fu più meraviglioso, come lo era quando andavamo in paese in vacanza. E il peggio doveva ancora arrivare.

Arrivò quando cominciò la scuola. Avevo già frequentato in città la prima. Avevo una mia idea di cosa fossero le elementari. Dovetti riadattarla con martello e scalpello per renderla vagamente simile a quello che vedevo. In classe eravamo in 14. 10 maschi e 4 femmine. Avevamo due maestre, una scuola che cadeva a pezzi, un piano didattico che faceva acqua da tutte le parti. Ricordo poche cose, tutte brutte. Non c’era la mensa ma un lunghissimo corridoio che veniva riadattato tutti i giorni. L’odore di cucinato entrava nelle aule e rimaneva nell’aria fino all’uscita. Ricordo il riposino sui banchi che eravamo costretti a fare nel pomeriggio perché le maestre potessero vedere la puntata di Beautiful alla televisione in corridoio. Ricordo le maestre (non le mie per fortuna) violente: quella che usava un righello di plastica di 50 centimetri come bacchetta, quella che ti tirava le orecchie fino a farle sanguinare. Certe volte potevamo uscire all’aperto. I maschi in pochi secondi si organizzavano per correre dietro a un pallone, le femmine usavano una delle panchine del campo da calcio come casupola dove raccontarsi segreti. Io facevo la spola tra il campo da calcio e la panchina mai convinto di quale fosse il posto mio. 

Allora volevo fare lo scienziato da grande, a limite l’inventore. Passavo pomeriggi interi a disegnare prototipi di cose che avrebbero facilitato la vita di milioni di persone, progetti che per lo più rimanevano un abbozzo su un foglio, privo com’ero di qualunque possibilità costruttiva. Gli altri maschi volevano fare il ruspista, il camionista, i più arditi forse il poliziotto. Mi sentivo e sapevo di essere diverso. Non giocavo a pallone e quando lo facevo venivo messo in porta. L’unica raccomandazione che avevo era rimanere fino alla fine della partita, per evitare di lasciare la mia squadra con un uomo in meno. Ma non riuscivo a stare dentro a qualcosa che non aveva termine, non un termine che potessi capire. Non c’erano tempi regolamentari, né una fine stabilita a chi arriva prima a 10 gol, per dire. Si giocava per giocare, così, a oltranza, fino a sera, fino a quando uno di loro non fosse stato trascinato via, fino a quando non era quasi buio o palesemente l’ora di cena. Mi annoiavo così tanto.

Tutti ricordano i tempi delle elementari come un’età dell’oro. La mia è stata un periodo lunghissimo tra un arrivo e una fuga. Non conservo cose belle di quel tempo trascorso a guardar bambini correre dietro un pallone su un campo di cemento e sassi. Volevo esplorare il mondo, cercare tesori, scavare buche o costruire case sull’albero. Non avevo mai nessuno con cui farlo. Così passavo gran parte del tempo a fantasticare e il restante a far finta di essere uno di loro. Poi arrivava il momento in cui venivo riconosciuto e finivo quasi sempre per fare a botte o estraniarmi ancora di più, spesso entrambe le cose.

Penso queste cose mentre ti guardo giocare con le tue amiche al parco. Al confronto con la mia, la tua mi pare un’infanzia dorata eppure non serve fare chissà quale esercizio di fantasia per scoprire quanto molti dei sentimenti che animavano il mio cuore e la mia mente, appartengano anche a te. Fai fatica a sentirti parte di un gruppo. Rimani spesso a osservare, in attesa che qualcuno ti trascini dentro. Te ne stai ferma e in silenzio come se avessi bisogno del permesso degli altri per correre e giocare. E qualche volta ti arrabbi, ci rimani male, ti offendi. Perché ti pare che gli altri usino i tuoi segreti, i tuoi piccoli errori o quelle perle di intimità che hai donato a una di loro, come merce qualsiasi, pastura per pesci. Non so esattamente come aiutarti. Vorrei dirti di scioglierti un po’, esser meno rigida, più simile agli altri, ma so che non servirebbe. Siamo così. 

Ora è il parco, un giro in bicicletta che perdi dietro al gruppo e ti ritrovi a fare da sola. La tua amica preziosa che rivela agli altri che ti ha visto parlare con la tua bici mentre tu stringi forte gli occhi e ti chiedi “Perché? Perché mi tradisci?”. Domani saranno le feste, quelle alle quali ti annoierai o vorrai non esser mai andata. Le feste a casa di Pablo, dove te ne starai magari a osservare, ascoltare la musica e canticchiare senza ballare. Quante ne ho viste di feste finite nel piazzale della chiesa del paese, in due, in macchina. Avessimo fumato, probabilmente ci sarebbe un una nuvola di mistero e tormento in quelle ore trascorse a raccontarsi niente. Ma le uniche nuvole di fumo erano quelle di vapore che disegnavano i nostri fiati, tra una pipì alla parete della chiesa e una buonanotte. Eppure penso che la tua grande fortuna sia non essere me. Allora è possibile anche che se vai a casa di Pablo e arrivi in ritardo, molti diranno finalmente, e tu li accoglierai con un sorriso pazzesco e completamente a tuo agio. Finisce che ti diverti e entri dentro quella bolla sospesa nella quale le notti passano come un soffio tra una risata e un sospiro. E già ti vedo che parli, racconti, ascolti e ridi, ridi ancora. Il telefono ti squilla, tu urli “sono alla festa di Pablo, vieni alla festa di Pablo, non sai quanta gente c’è”, mentre la nostra solitudine si scioglie in leggerezza che vendica tutte le notti in cui io non ero stato.

Facciamo finta

Facciamo finta di avere una villa col giardino, le querce con l’altalena, il prato inglese sempre perfetto e la casetta sull’albero. Non una casa sull’albero qualunque. Ma di quelle bellissime di legno, col tetto, una scala a chiocciola per raggiungerla, magari anche due ambienti. La casa delle Chipettes. In questo giardino facciamo ci sono anche due amache, un barbecue, una sedia a dondolo sulla quale io fumo la pipa nelle sere di primavera. Naturalmente la pipa non fa male, il fumo non puzza e facciamo pure che nel frattempo sono diventato bravo a riempirne il camino e riesco a non farla spegnere ogni tre minuti. Facciamo che non ci sono più compiti da fare e che io non ti dico più “che palle anche questo weekend hai compiti da fare… possiamo non farli?” e tu non sei costretta a rispondermi “sì, papi. Dobbiamo.” Facciamo che è primavera tutto l’anno, non fa né caldo né freddo, si sta bene ma ogni tanto, quando ci va, fa freddissimo fuori, piove, il rumore della pioggia risuona dentro la stanza e che, a prescindere dal piano in cui siamo, sentiamo il ticchettio del temporale sul tetto sopra la nostra testa, come se fossimo in una mansarda. Le stanze sono piene di petricore fortissimo, come fossimo in un bosco, e improvvisamente ci ficchiamo sotto il piumone invernale per provare quella meravigliosa sensazione di abbraccio delle coperte. Sui nostri comodini appaiono gli hamburger (va bene, per te un hot-dog) e le patatine e la panna cotta al caramello e sulla parete viene proiettato un film ma non abbiamo passato quaranta minuti a sceglierlo, no. Il proiettore si è acceso e ha scelto esattamente il film che volevamo vedere, quello che io per me e tu per te avevamo in cuore di voler vedere.
Facciamo che abbiamo un garage. Io premo il tasto per aprire la saracinesca e dentro c’è una moto. È una Bonneville. È verde petrolio, ha le marmitte cromate ed è lucidissima. E anche se non potrebbe mai essere così, facciamo che abbiamo anche un sidecar che possiamo attaccare e staccare dalla mia Bonneville tutte le volte che vogliamo. Ora lo agganciamo. Ci mettiamo entrambi il casco e gli occhialoni da pilota d’aereo che ci fanno le facce buffe, come giapponesi della seconda guerra mondiale. Come Tozzifan direi io sorridendo ma tu per sorridere dovrai aspettare ancora un po’. Sulla nostra moto col sidecar raggiungiamo una collina. È verde, verdissima. È piena primavera, ci sono i fiori e sembra di stare a Castelluccio di Norcia durante la fioritura della lavanda ma non nella realtà, no. In quelle foto che trovi su google, quelle photoshoppate. In mezzo a questa radura facciamo che c’è una mongolfiera. È ancora a terra ma ha il pallone già gonfio. Io e te ci saliamo sopra e io levo l’ancora che la tiene ferma a terra. Lentamente la mongolfiera sale e noi ci affacciamo per ammirare il paesaggio. Passiamo sopra San Gimignano, sfioriamo il campanile della Collegiata, e poi facciamo lo slalom tra la torre degli Ardinghelli, quella dei Becci, dei Capatelli, dei Chigi e poi tutte le altre in ordine alfabetico. Poi ti aggrappi alla leva del fuoco che nessuno dei due sa come chiamare. Una vampata fa salire improvvisamente il pallone tra le nuvole per poi riabbassarsi lentamente, come planando. Siamo a Machu Picchu, vedi. E non c’è nessuno. Ma nessuno nessuno. Solo io e te e il nostro pallone areostatico. Sorvoliamo la città abbandonata e tu hai la tua Coolpix, io la mia Pen-f e lì, dalla nostra posizione privilegiata, scattiamo delle foto meravigliose, senza intrusi, senza turisti, senza fretta. Tu però hai voglia di andare dai nonni e va bene, ti dico. Così stavolta tiro io la leva. Stesso movimento, su su su, poi giù giù giù. E ora siamo sulla piazza del paese. Io vorrei rimanere lì in alto, continuare a osservare il luogo nel quale sono cresciuto senza esser visto, ma tu vuoi scendere e allora atterriamo sul tetto della casa dei nonni. Ci caliamo dalla grondaia e arriviamo sul balcone. Tua nonna ha già apparecchiato, è ora di pranzo e sulla tavola fumano le lasagne e il camino è acceso e incredibilmente c’è tutta la famiglia. Mangiamo tutto quello che ci va, poi io bevo la sambuca e tu svuoti una vaschetta di gelato con 3 etti di panna montana sopra.  Salutiamo tutti ma senza tristezza. “Ciao nonna, ciao zii, ciao cugine”. Risaliamo per la grondaia, riprendiamo la mongolfiera e finalmente torniamo a casa e stanchi stanchi ce ne andiamo a dormire almeno 12 ore. Non prima però di aver salutato e dato da mangiare a Gagarin, il mio bulldog inglese, e Lilli e Sally, i tuoi due pony che ci aspettano in giardino.

Possiamo fare questo e possiamo fare un milione di altre cose. Tante le faremo, moltissime altre rimarranno solo nei nostri sogni. Intanto però vengo a prenderti a scuola. Tu te ne stai seduta sul tuo seggiolino e guardi trasognante fuori dal finestrino. Ti chiedo, guardandoti nello specchietto retrovisore, a che pensi. Mi rispondi che riflettevi su Miracolo sulla 34esima strada che hai rivisto per la ventesima volta la sera prima. Mi racconti che hai capito una cosa – dici proprio così – che Susan ha tutto il diritto di chiedere un papà e un fratellino ma proprio non riesci a capacitarti di come possa chiedere a Babbo Natale una casa nuova. Lei una casa ce l’ha già. Perché mai desiderare qualcosa che già ha? Non ti pare giusto e, a pensarci bene, non pare giusto nemmeno a me desiderare tutto quello che già ho.