L’amore ai tempi del Coronavirus

Quando sono uscito di casa stamattina sul lungotevere ho visto il primo albero di Giuda fiorito. Ero in coda dietro un autobus, l’albero è entrato nel mio campo visivo ma solo quando sono ripartito ho registrato l’informazione e realizzato il significato. È quasi primavera.
Le strade erano quasi deserte. Da casa a lavoro ho impiegato 11 minuti. Lo so perché il motorino aveva l’orologio sfasato e l’ho sistemato prima di partire.
Nelle orecchie la radio mi ha passato Gomma dei Baustelle e mi è venuta una strana allegria. La strada libera invogliava ad andare veloce e stranamente tutti i semafori erano verdi. Sulle banchine dei tram c’era poca gente. Ho provato a vedere se qualcuno avesse la mascherina ma se non fosse stato per il poco traffico, non avrei notato nessuna differenza con la Roma del mese scorso o di quello prima ancora.
Sai, fa effetto sentirti parlare del Coronavirus. Ne parli come se sapessi tante cose, mi chiedo se ne sai addirittura più di me. Io evito invece di farlo, quantomeno con te. Tu invece scopri le cose di ogni giorno con la semplicità del disegno di una casa e dici “è per colpa del Coronavirus?”, serafica come se aprissi l’ombrello perché piove.

Sei stata contenta quando l’altra mattina ti ho detto che non saresti andata a scuola. Hai fatto un piccolo balletto di esultanza mentre eri ancora rannicchiata sotto le coperte e la faccia felice con gli occhi a mezzaluna che fai quando scopri qualcosa di geniale. Io invece ero preoccupato. Di quella preoccupazione che mi assale ogni volta che succede qualcosa che non controllo. Mi hai chiesto se potevi venire a lavoro da me, ti ho portato invece a casa di tua madre che è raffreddata e che mi ha fatto pensare “avrà il Coronavirus?”. Ma non l’ho detto né a te né a lei.
Tua nonna mi ha scritto su whatsapp se vogliamo portarti lì per il periodo in cui non vai a scuola. Ho pensato che sarebbe bello approfittarne e restare qualche giorno lì insieme, io e te, come sospesi in una pausa. È rimasto però solo un pensiero. Le ho risposto “vediamo”, mi ha riempito il telefono di cuori. 

I cuori di tua nonna sono una recente acquisizione. Prima quasi non mi scriveva. Ora invece lo fa più facilmente. È un modo per recuperare il tanto tempo perso senza necessari strappi. È merito di Agata. Un giorno ha preso il mio telefono, ha scrollato whatsapp, ha trovato il numero di tua nonna e le ha mandato un messaggio per dirle che avevo scongelato i fagioli che lei mi aveva dato l’ultima volta che eravamo stati lì. Una cosa che non avevo mai fatto prima. Ma ben più eclatante è stata la sua chiusa. Un “ti voglio bene” che credo tua nonna sia cascata dalla sedia quando ha letto. 

Agata è così. Ha la chiave di accesso ai sentimenti delle persone. Ci legge dentro, li decodifica, li tira fuori come sassi dal letto di un fiume. La sabbia che si alza e disperde, intorbidisce un po’ l’acqua lasciando l’impressione che si sia rovinato qualcosa. Invece poi la corrente la porta via e rimane il sasso bello e limpido.
È questo che sta facendo con me. È questo che credo faccia con tutte le persone che incontra.

È successo così anche a te? Avrei voluto farti un milione di domande quando vi siete incontrate qualche giorno fa al mercato di Testaccio. Lei aveva preso un tavolo, noi siamo arrivati, breve presentazione, serietà e qualche forma di tensione. Poi io e te siamo andati a prendere i panini. Sai l’ho capito che eri preoccupata. Sbadigliavi, ti trascinavo, mi hai detto senza nessun entusiasmo il panino che volevi. La vera svolta però c’è stata quando dopo pranzo siamo andati a prendere il gelato nella tua gelateria preferita. Vi ho indicato un tavolo mentre facevo la fila. Quando sono tornato con i coni, mi sono fermato a qualche metro da voi che non mi guardavate più. Ridevate ed eravate una accanto all’altra. Eravate diventate amiche. Mi sono un po’ commosso, ho aspettato qualche secondo ancora e poi sono venuto a sedermi.

C’è l’amore dentro ogni gesto di questo inverno che finisce. Noi non lo vediamo. Ma c’è. Non so se la gente ha realmente paura o è cullata da questo sentimento per prendere un po’ le distanze da una vita stanca e faticosa. Un po’ è bello se lo vedi così. Io mi faccio mille paranoie, poi però svolto l’angolo, freno, mi metto in coda a un autobus e aspetto il verde al semaforo. Nel frattempo c’è un albero che fiorisce e una primavera che arriva e io nemmeno me ne ero accorto.

P.s. Il titolo iniziale di questa lettera era The rhythm of the night… vabbè.

Quest’uomo

Ho scoperto, forse già lo sapevo, certamente lo speravo, che hai il mio senso dell’umorismo. Per lo meno, credo tu abbia un senso dell’umorismo simile a quello che io mi attribuisco: acuto, sottile, a volte un po’ ruvido, talvolta pungente, istintivo e spontaneo. Non è una cosa che viene fuori sempre. Deve esserci di base una specie di alchimia che si instaura con le persone che ti stanno intorno. Funziona così anche per me: intimità, agio, rilassatezza. 

L’altro giorno, per dire, eravamo in macchina e io ti chiedevo se avresti voluto andare al cinema a vedere i Me contro Te. Tu eri indecisa perché non eri sicura ti sarebbe piaciuto. Allora io ti ho detto che nessuno va al cinema a vedere un film che sa per certo gli piacerà, è la seduzione della sorpresa. E una sorpresa può essere bella o brutta. Naturalmente mentivo perché io vado al cinema a vedere solo i film dei registi che mi piacciono o quelli che mi consigliano persone di cui mi fido. Ma questo non te l’ho detto perché vorrei farti crescere un po’ meglio di me. Ho allora cominciato a scherzare e raccontarti di quanto possa essere bello scoprire di aver visto un film meraviglioso. Nel dirti questo ho detto “vedi un film che non ti aspettavi e dici bomba che capolavoro!” e tu hai cominciato a ridere tantissimo per il mio “bomba”. E mentre ridevi mi dicevi “papà ma come parli?” e io ti ho detto che parlo come parlano i giovani e tu mi hai risposto di essere giovane e non aver mai detto “bomba”. E io allora ti ho detto che ti autorizzavo a dirlo ma tu non mi hai preso sul serio e mi hai detto che una cosa così non esiste e non puoi dirla ai tuoi amici perché non esiste nemmeno per loro e poi hai continuato a ridere ancora un po’. Ridevo anch’io e riflettevo nel frattempo sul tuo “papà”. Riflettevo sui modi con i quali ti rivolgi a me. Generalmente mi chiami papi, delle volte pipi, quando vuoi essere ilare mi dici padre (e io mi rivolgo a te dicendoti figlia), altre ancora inventi dei nomignoli che si esauriscono lì per lì. Usi però la parola papà solamente quando sei molto seria, quando vuoi raccontarmi qualcosa sulla quale pretendi un ascolto speciale. Il tuo papà blocca le cose, come a dire attenzione da questo momento devi ascoltare meglio. E allora mentre ridevo mi immaginavo me nella tua testa, mi immaginavo questo padre quasi quarantenne che usa parole da ventenne che ha rubato per strada a qualche adolescente e si infila in bocca per farcire una conversazione di un elemento di scalpore e immediatamente tu lo percepisci, lo decodifichi e ti chiedi perché, anche se ridi, ti chiedi chi io sia in quell’istante o forse chi io voglia essere. E nel farlo forse mi costringi a riflettere davvero su quanto e come io sia me stesso, quanto e come possa apparirti realmente chi sono. E immediatamente capisco che quel “bomba” lanciato alla rifusa in una frase è un estraneo tra noi. Tu fai questo e capisco chiaramente che davanti a te sono sempre nudo, un padre, un uomo. Come in una striscia continua e senza pause, sono adolescente, adulto, senior. Sono tutto quello che sono stato e quello che sarò, sono l’insieme delle parole che ho detto, quelle che ho pensato, quelle che ho solo sentito senza pronunciare. Davanti a te io sono solo io, senza trasformazioni né trucchi, sono il mio nome. È per questo che quando un attimo dopo mi hai detto “papi tu sarai anche giovane dentro ma fuori sei molto vecchio” ho riso quasi con le lacrime agli occhi perché mi sono visto coi i capelli tutti bianchi, le rughe profonde e le mani rinseccolite mentre provo a ballare una tarantella senza esserne capace. E quella tarantella la ballo perché tu suoni la fisarmonica e io devo seguire solo il ritmo, nient’altro.

Poi siamo arrivati a casa e hai notato che avevo attaccato alla parete il disegno che mi avevi fatto per il mio compleanno. Nel disegno ci siamo io e te sotto ad un cuore gigantesco. Allora disegnavi ancora le figure umane con delle gambe lunghissime. Quando sei entrata, hai visto il disegno e mi hai detto “papi ti avevo fatto magrissimo”. Io ti ho risposto “mi hai fatto come sono” e tu hai aggiunto “no, se volessi farti come sei non entreresti in due fogli”. Ecco, a questo punto dovrebbe scattare la mia solita sviolinata sul quanto sia bello e unico e sensazionale averti come figlia. E invece no. Stavolta ti scrivo per dirti che non mi importa se sono vecchio o grasso, ciò che voglio, ho e sono è essere me stesso e esserlo con te e per te e questo è davvero la cosa più straordinaria che possa capitare in una vita. E questo, sì, è davvero una bomba!

Il naso di Totoro

Hai sempre avuto una grande passione per il disegno che, negli anni, è diventata un vero e proprio talento. In questo abbiamo meriti sia io che tua madre. Lei perché ti ha sempre portato, sin da quando eri piccolissima, in giro per mostre, riempiendoti la testa di Van Gogh, Monet, Turner, Picasso. Io perché inconsapevolmente ti ho trasmesso una passione per il disegno che mi ha sempre solleticato ma alla quale ho permesso di entrare nella mia vita solo in tempi recentissimi concedendomi prima un corso, poi un set di matite, carboncini, grafite e fogli pregiati con i quali mi vedi armeggiare ormai da mesi.

Così, dal niente, ogni tanto ti vedo strappare un foglio dal mio blocco e cominciare a trafficare con matita e pennarelli. Ultimamente mi hai portato un disegno che mi ha lasciato a bocca aperta. È Totoro, immerso nel verde di un prato, col suo ombrello nero sulla testa. In alto c’è il sole e un manto di cielo avvolge l’orizzonte. In un angolo c’è scritto a penna il tuo nome e il mio. Il disegno è preciso nei dettagli, il tratto non è mai incerto e persino il colore dei pennarelli è distribuito uniformemente. Non credo nessuno indovinerebbe che lo ha fatto una bambina di appena sette anni.

Stasera stavamo per metterci a letto e hai visto sulla mia scrivania il tuo Totoro. Ti avevo già fatto lavare i denti e mettere il pigiama ed era, insomma, il momento esatto in cui io ti dico di metterti a letto e tu cerchi qualunque scusa per guadagnare ancora un minuto. Poi ti è cascato l’occhio sul disegno che io avevo lasciato in bella vista per ricordare a me stesso di portarlo a incorniciare e mi hai detto “mi sono dimenticata di fargli il naso, ora glielo faccio” e io ti ho detto di non farlo ché era già bello così e che prima di mettersi a dormire non bisognerebbe fare nient’altro. Ma tu sei testarda e hai afferrato un pennarello nero e disegnato una specie di uncino che non somiglia affatto ad un naso tra gli occhi di Totoro. Devi essertene pentita immediatamente perché sei scoppiata in un pianto disperato e sei saltata sul mio letto, a pancia in giù e mentre urlavi e sbattevi i pugni sul cuscino, un fiume di lacrime mi bagnava le lenzuola. Io ho provato a calmarti ma tu hai cominciato ad urlare ancora più forte “Perché l’ho fatto? Perché?”.

È stato in quel momento che ho sentito la voce di mio padre dentro. Stava per venir fuori, era sul punto di comporre una frase ed espellerla con stizza e cinismo dalla bocca e io l’ho indovinata. La voce stava per dire “così impari a non darmi retta, io te l’avevo detto!”, ma l’ho fermata per tempo e ricacciata dentro. Mi sono invece concesso qualche respiro, chiedendomi se i vicini stessero chiamando il telefono azzurro sentendoti urlare. Poi mi sono avvicinato a te, ti ho abbracciata forte e, mentre ti accarezzavo i capelli, ti ho raccontato la storia delle tessitrici di tappeti persiani. È una storia che mi hai sentito raccontare tante volte ma credo ti piaccia molto perché me la fai raccontare ogni volta come fosse la prima. C’è questo paese lontano che si chiama Persia, dove tessono i più bei tappeti del mondo. Le tessitrici possono impiegare anche mesi per tesserne uno dalle geometrie complicatissime, dai colori incantevoli e dalle trame misteriose. E poi abbassando il tono della voce, come per rivelarti un segreto, ti ho chiesto “sai cosa fanno ad un certo punto?”. Tu avevi intanto smesso di piangere ed eri solo in attesa del resto della storia. “Sbagliano”, ti ho detto in un sibilo furtivo. “Sbagliano, inserendo un difetto nel loro
tappeto”. Tu allora mi hai chiesto “perché?” anche se già conoscevi la risposta. E io ti ho detto “per ricordare a se stessi che nulla è davvero perfetto”. A quel punto aspettavi che legassi la mia storia a quello che era accaduto e allora ti ho spiegato che capita a tutti di pentirsi ferocemente per aver detto, fatto, essersi comportati in maniera sbagliata. Ma l’errore è credere che esista una maniera giusta di fare le cose. Facciamo ciò che sentiamo, ciò che siamo nel momento in cui lo facciamo, anche se un minuto, un’ora, un mese dopo non ci riconosciamo e vorremmo convincere noi e gli altri che ciò che è stato non ci appartiene e potremmo farlo in mille modi migliori. Facciamo errori tutti quanti, anche tuo padre, continuamente. E proprio come te, si dispera, sbattendo i pugni sul cuscino e lasciando che le lacrime bagnino le lenzuola. Ma non possiamo tornare indietro, per quanto gravi siano gli errori che abbiamo fatto. Per quanto disgustosi, ripugnanti, e per quanto forte sia il nostro pentimento, sono comunque i nostri errori e resteranno lì per ricordarci quello che siamo: esseri imperfetti.

Ciò che davvero possiamo fare, ti ho detto, è smettere di ossessionarci su ciò che abbiamo o non abbiamo fatto e guardare avanti sapendo che ciò che è successo, per quanto doloroso, ci aiuterà a fortificarci, a conoscerci, migliorarci e tornarci utile domani. “Vedi”, ti ho detto, “ciò che rende
veramente speciale quel disegno, non è quanto sia bello – per quanto sia indiscutibilmente bello – né che adesso abbia un difetto. Ciò che lo rende speciale è il ricordo che custodisce. Un ricordo fatto di te che strappi un foglio dal mio blocco, che decidi cosa disegnare e come, che scrivi i nostri nomi in un angolo e mi dici “papà ho fatto un disegno per te”.
E mentre ti dicevo queste cose, hai chiuso gli occhi e ti sei addormentata nel mio letto. Io ti ho rimboccato le coperte, ho sistemato i cuscini ai tuoi lati per evitare che girandoti potessi cascare, mi sono alzato e sono venuto a scrivere questa storia.