Il naso di Totoro

Hai sempre avuto una grande passione per il disegno che, negli anni, è diventata un vero e proprio talento. In questo abbiamo meriti sia io che tua madre. Lei perché ti ha sempre portato, sin da quando eri piccolissima, in giro per mostre, riempiendoti la testa di Van Gogh, Monet, Turner, Picasso. Io perché inconsapevolmente ti ho trasmesso una passione per il disegno che mi ha sempre solleticato ma alla quale ho permesso di entrare nella mia vita solo in tempi recentissimi concedendomi prima un corso, poi un set di matite, carboncini, grafite e fogli pregiati con i quali mi vedi armeggiare ormai da mesi.

Così, dal niente, ogni tanto ti vedo strappare un foglio dal mio blocco e cominciare a trafficare con matita e pennarelli. Ultimamente mi hai portato un disegno che mi ha lasciato a bocca aperta. È Totoro, immerso nel verde di un prato, col suo ombrello nero sulla testa. In alto c’è il sole e un manto di cielo avvolge l’orizzonte. In un angolo c’è scritto a penna il tuo nome e il mio. Il disegno è preciso nei dettagli, il tratto non è mai incerto e persino il colore dei pennarelli è distribuito uniformemente. Non credo nessuno indovinerebbe che lo ha fatto una bambina di appena sette anni.

Stasera stavamo per metterci a letto e hai visto sulla mia scrivania il tuo Totoro. Ti avevo già fatto lavare i denti e mettere il pigiama ed era, insomma, il momento esatto in cui io ti dico di metterti a letto e tu cerchi qualunque scusa per guadagnare ancora un minuto. Poi ti è cascato l’occhio sul disegno che io avevo lasciato in bella vista per ricordare a me stesso di portarlo a incorniciare e mi hai detto “mi sono dimenticata di fargli il naso, ora glielo faccio” e io ti ho detto di non farlo ché era già bello così e che prima di mettersi a dormire non bisognerebbe fare nient’altro. Ma tu sei testarda e hai afferrato un pennarello nero e disegnato una specie di uncino che non somiglia affatto ad un naso tra gli occhi di Totoro. Devi essertene pentita immediatamente perché sei scoppiata in un pianto disperato e sei saltata sul mio letto, a pancia in giù e mentre urlavi e sbattevi i pugni sul cuscino, un fiume di lacrime mi bagnava le lenzuola. Io ho provato a calmarti ma tu hai cominciato ad urlare ancora più forte “Perché l’ho fatto? Perché?”.

È stato in quel momento che ho sentito la voce di mio padre dentro. Stava per venir fuori, era sul punto di comporre una frase ed espellerla con stizza e cinismo dalla bocca e io l’ho indovinata. La voce stava per dire “così impari a non darmi retta, io te l’avevo detto!”, ma l’ho fermata per tempo e ricacciata dentro. Mi sono invece concesso qualche respiro, chiedendomi se i vicini stessero chiamando il telefono azzurro sentendoti urlare. Poi mi sono avvicinato a te, ti ho abbracciata forte e, mentre ti accarezzavo i capelli, ti ho raccontato la storia delle tessitrici di tappeti persiani. È una storia che mi hai sentito raccontare tante volte ma credo ti piaccia molto perché me la fai raccontare ogni volta come fosse la prima. C’è questo paese lontano che si chiama Persia, dove tessono i più bei tappeti del mondo. Le tessitrici possono impiegare anche mesi per tesserne uno dalle geometrie complicatissime, dai colori incantevoli e dalle trame misteriose. E poi abbassando il tono della voce, come per rivelarti un segreto, ti ho chiesto “sai cosa fanno ad un certo punto?”. Tu avevi intanto smesso di piangere ed eri solo in attesa del resto della storia. “Sbagliano”, ti ho detto in un sibilo furtivo. “Sbagliano, inserendo un difetto nel loro
tappeto”. Tu allora mi hai chiesto “perché?” anche se già conoscevi la risposta. E io ti ho detto “per ricordare a se stessi che nulla è davvero perfetto”. A quel punto aspettavi che legassi la mia storia a quello che era accaduto e allora ti ho spiegato che capita a tutti di pentirsi ferocemente per aver detto, fatto, essersi comportati in maniera sbagliata. Ma l’errore è credere che esista una maniera giusta di fare le cose. Facciamo ciò che sentiamo, ciò che siamo nel momento in cui lo facciamo, anche se un minuto, un’ora, un mese dopo non ci riconosciamo e vorremmo convincere noi e gli altri che ciò che è stato non ci appartiene e potremmo farlo in mille modi migliori. Facciamo errori tutti quanti, anche tuo padre, continuamente. E proprio come te, si dispera, sbattendo i pugni sul cuscino e lasciando che le lacrime bagnino le lenzuola. Ma non possiamo tornare indietro, per quanto gravi siano gli errori che abbiamo fatto. Per quanto disgustosi, ripugnanti, e per quanto forte sia il nostro pentimento, sono comunque i nostri errori e resteranno lì per ricordarci quello che siamo: esseri imperfetti.

Ciò che davvero possiamo fare, ti ho detto, è smettere di ossessionarci su ciò che abbiamo o non abbiamo fatto e guardare avanti sapendo che ciò che è successo, per quanto doloroso, ci aiuterà a fortificarci, a conoscerci, migliorarci e tornarci utile domani. “Vedi”, ti ho detto, “ciò che rende
veramente speciale quel disegno, non è quanto sia bello – per quanto sia indiscutibilmente bello – né che adesso abbia un difetto. Ciò che lo rende speciale è il ricordo che custodisce. Un ricordo fatto di te che strappi un foglio dal mio blocco, che decidi cosa disegnare e come, che scrivi i nostri nomi in un angolo e mi dici “papà ho fatto un disegno per te”.
E mentre ti dicevo queste cose, hai chiuso gli occhi e ti sei addormentata nel mio letto. Io ti ho rimboccato le coperte, ho sistemato i cuscini ai tuoi lati per evitare che girandoti potessi cascare, mi sono alzato e sono venuto a scrivere questa storia.