Quest’uomo

Ho scoperto, forse già lo sapevo, certamente lo speravo, che hai il mio senso dell’umorismo. Per lo meno, credo tu abbia un senso dell’umorismo simile a quello che io mi attribuisco: acuto, sottile, a volte un po’ ruvido, talvolta pungente, istintivo e spontaneo. Non è una cosa che viene fuori sempre. Deve esserci di base una specie di alchimia che si instaura con le persone che ti stanno intorno. Funziona così anche per me: intimità, agio, rilassatezza. 

L’altro giorno, per dire, eravamo in macchina e io ti chiedevo se avresti voluto andare al cinema a vedere i Me contro Te. Tu eri indecisa perché non eri sicura ti sarebbe piaciuto. Allora io ti ho detto che nessuno va al cinema a vedere un film che sa per certo gli piacerà, è la seduzione della sorpresa. E una sorpresa può essere bella o brutta. Naturalmente mentivo perché io vado al cinema a vedere solo i film dei registi che mi piacciono o quelli che mi consigliano persone di cui mi fido. Ma questo non te l’ho detto perché vorrei farti crescere un po’ meglio di me. Ho allora cominciato a scherzare e raccontarti di quanto possa essere bello scoprire di aver visto un film meraviglioso. Nel dirti questo ho detto “vedi un film che non ti aspettavi e dici bomba che capolavoro!” e tu hai cominciato a ridere tantissimo per il mio “bomba”. E mentre ridevi mi dicevi “papà ma come parli?” e io ti ho detto che parlo come parlano i giovani e tu mi hai risposto di essere giovane e non aver mai detto “bomba”. E io allora ti ho detto che ti autorizzavo a dirlo ma tu non mi hai preso sul serio e mi hai detto che una cosa così non esiste e non puoi dirla ai tuoi amici perché non esiste nemmeno per loro e poi hai continuato a ridere ancora un po’. Ridevo anch’io e riflettevo nel frattempo sul tuo “papà”. Riflettevo sui modi con i quali ti rivolgi a me. Generalmente mi chiami papi, delle volte pipi, quando vuoi essere ilare mi dici padre (e io mi rivolgo a te dicendoti figlia), altre ancora inventi dei nomignoli che si esauriscono lì per lì. Usi però la parola papà solamente quando sei molto seria, quando vuoi raccontarmi qualcosa sulla quale pretendi un ascolto speciale. Il tuo papà blocca le cose, come a dire attenzione da questo momento devi ascoltare meglio. E allora mentre ridevo mi immaginavo me nella tua testa, mi immaginavo questo padre quasi quarantenne che usa parole da ventenne che ha rubato per strada a qualche adolescente e si infila in bocca per farcire una conversazione di un elemento di scalpore e immediatamente tu lo percepisci, lo decodifichi e ti chiedi perché, anche se ridi, ti chiedi chi io sia in quell’istante o forse chi io voglia essere. E nel farlo forse mi costringi a riflettere davvero su quanto e come io sia me stesso, quanto e come possa apparirti realmente chi sono. E immediatamente capisco che quel “bomba” lanciato alla rifusa in una frase è un estraneo tra noi. Tu fai questo e capisco chiaramente che davanti a te sono sempre nudo, un padre, un uomo. Come in una striscia continua e senza pause, sono adolescente, adulto, senior. Sono tutto quello che sono stato e quello che sarò, sono l’insieme delle parole che ho detto, quelle che ho pensato, quelle che ho solo sentito senza pronunciare. Davanti a te io sono solo io, senza trasformazioni né trucchi, sono il mio nome. È per questo che quando un attimo dopo mi hai detto “papi tu sarai anche giovane dentro ma fuori sei molto vecchio” ho riso quasi con le lacrime agli occhi perché mi sono visto coi i capelli tutti bianchi, le rughe profonde e le mani rinseccolite mentre provo a ballare una tarantella senza esserne capace. E quella tarantella la ballo perché tu suoni la fisarmonica e io devo seguire solo il ritmo, nient’altro.

Poi siamo arrivati a casa e hai notato che avevo attaccato alla parete il disegno che mi avevi fatto per il mio compleanno. Nel disegno ci siamo io e te sotto ad un cuore gigantesco. Allora disegnavi ancora le figure umane con delle gambe lunghissime. Quando sei entrata, hai visto il disegno e mi hai detto “papi ti avevo fatto magrissimo”. Io ti ho risposto “mi hai fatto come sono” e tu hai aggiunto “no, se volessi farti come sei non entreresti in due fogli”. Ecco, a questo punto dovrebbe scattare la mia solita sviolinata sul quanto sia bello e unico e sensazionale averti come figlia. E invece no. Stavolta ti scrivo per dirti che non mi importa se sono vecchio o grasso, ciò che voglio, ho e sono è essere me stesso e esserlo con te e per te e questo è davvero la cosa più straordinaria che possa capitare in una vita. E questo, sì, è davvero una bomba!

La guerra è finita

Eravamo al parco. Quello attorno al cinema, vicino alla nuova casa che tua madre ha scelto per voi due. Tu avevi appena iniziato a girare allegramente su una macchina a pedali, percorrendo il tracciato immaginario che io ti avevo indicato dopo aver lasciato la mia carta d’identità all’omino del noleggio. Quello, vedendoti partire, ti ha urlato dietro “è vietato andare sull’erba” e tu, che sei ligissima alle regole, hai notato che nel mio circuito c’era un tratto sull’erba, fermandoti e rimanendo perplessa sul dove andare.
Avevamo appena finito l’aperitivo al bar. Tua madre aveva preso un cocktail alla frutta disgustoso, io uno spritz campari e tu un gelato e le patatine. Così mentre percorrevi il tuo circuito immaginario, ne ho approfittato per andare a fare la pipì. Ho aspettato passassi davanti alla nostra tribuna d’onore, ho finto una specie di ola, tu hai fatto ciao con la mano, lasciando che la tua macchina sbandasse un po’ e poi sono andato.

Quando sono tornato ho visto tua madre che parlava con un uomo. Non lo avevo mai visto prima ma non mi ci è voluto molto per capire dal tono e dallo sguardo che ci stava chiaramente provando. Mi sono avvicinato, con la camminata da bullo, mentre fingevo una fintissima nonchalance. Lui mi ha guardato arrivare, con la faccia di chi si chiede “chi sarà questo?”, tua madre ha detto solo il mio nome e io gli ho lasciato tendere la mano e tenerla sospesa per un tempo lunghissimo mentre guardavo te e ti incitavo inutilmente in una gara che vedevo solo io. Poi gliel’ho stretta, continuando a tenere gli occhi su di te che nel frattempo urlavi “vado velocissimo papà!”

Il tizio allora ha continuato a parlare con tua madre, piazzando se stesso in un ipotetico appuntamento futuro. Io mi sono allontanato di qualche passo e mentre con gli occhi ti seguivo, con le orecchie ero dentro la loro conversazione. Gli ho sentito dire “dai, ti scrivo, ci aggiorniamo, sì, va bene, facciamo nei prossimi giorni”. Poi è andato via. Tua madre allora mi si è avvicinata e mi ha chiesto se fosse ora di riconsegnare la macchina a pedali mentre tu ti addentravi sul pezzetto di percorso sull’erba con la faccia di chi stava rubando una caramella. Io ho risposto “quello ci stava provando”. Lei ha sorriso, del sorriso che le illumina il viso da quando è nata, e ha sussurrato soltanto “dici?”. Io ho finto sicurezza e aggiunto “non sono nato mica ieri?”. Lei ha guardato verso l’orizzonte, socchiuso gli occhi e sussurrato “tu no, ma io sì”. 

Così, mentre venivo a disincastrarti dalla macchina a pedali, ho pensato che avevo appena conquistato una delle vette più alte della mia vita: poter parlare con tua madre senza imbarazzo, ormai lontani dal nostro campo di battaglia, di altri uomini e donne. E ora, mentre ti scrivo, me la immagino mentre mi legge sotto la luce leggera di una lampada da tavolo e sorseggia piano la sua tisana. Poi, termina il racconto, sorride, prende il telefono e mi scrive un messaggio su whatsapp: “carino il nuovo racconto!”.

Sei il mio vice-sceriffo preferito!

Fare il padre è il mestiere più difficile del mondo. Quando poi sei un genitore separato, tutto è più complicato perché il tempo che passo con te sto con te senza interruzioni, senza distrazioni. Quando si è in due, uno dei due può permettersi il lusso delle pause. Quando si è soli, tutto è più complicato. Lo è, a maggior ragione, quando il rapporto è inframmezzato da giorni di distanza, in cui non ci vediamo. Il tempo che passiamo insieme deve colmare quello perso e recuperare le cose che non ci siamo detti, quelle che non abbiamo fatto, pur senza interrompere la tua routine quotidiana fatta di scuola, amiche, attività ludico-ricreative-sportive. Una fatica tremenda insomma. A tal punto che quando ci fermiamo (generalmente accade prima di mettersi a letto), è come riprendere fiato dopo una corsa. Ti guardo, tu ti rilassi, finisci di raccontarmi le cose che ti tornano in mente, io ti accarezzo i capelli e diventiamo solo padre e figlia, una storia da raccontare, un futuro da costruire.
Ho sempre provato a non farti sentire molta differenza tra lo stare con tua madre e lo stare con me. Ti porto al parco, ti inseguo mentre corri sui pattini, ti vengo in soccorso quando mi chiami e l’acuto della tua voce che implora “papà” copre distanze siderali.   

Però non volevo dire dello stare insieme. Volevo raccontarti e sorprendermi di qualche pomeriggio fa, quando siamo andati a vedere Toy Story 4 al cinema.
Non saprei descrivere esattamente perché, ma abbiamo entrambi una straordinaria passione per Toy Story. Il tuo personaggio preferito è Woody, seguito da Jessie. Il mio è senza dubbio Buzz Lightyear, anche se quello che mi fa ridere di più è Rex. Credo che il tuo essere affezionata a Woody sia dovuto alla sicurezza che trasmette, quel suo saper tenere sempre tutto sotto controllo, far regnare l’armonia tra i giocattoli e far vincere sempre l’amicizia. Somiglia molto al tuo modo di essere o, per lo meno, all’idea del mondo che mi racconti. Odii quando c’è un po’ di discordia tra le tue amiche o quando qualcuna di loro impazzisce e comincia a prendere in giro te o qualcun’altra del gruppo. Non è dovuto all’incapacità di vivere il conflitto quanto alla sua totale incomprensione. Per te non c’è mai ragione di litigare e quando succede ci rimani così tanto male che gli altri fanno fatica a capire il tuo disorientamento. Vorresti che le cose si rimettessero a posto, in qualunque modo e che l’armonia regnasse sempre, senza intoppi.
Io adoro invece Linghtyear perché sento che mi somiglia molto. È silenzioso, spesso in disparte ma non si tira mai indietro quando c’è bisogno d’aiuto e rivela doti e capacità straordinarie. Il suo non capire le batture o non saper leggere sempre la realtà, il suo vivere in un presente bidimensionale, diviso tra ciò che avviene per tutti gli altri e un mondo fatto di basi e razzi spaziali, missioni interplanetarie e poteri cosmici che nessun altro vede, è molto mio. 

Ci commuoviamo sempre al cinema o a casa davanti ai film che ci piacciono. Generalmente la nostra commozione non è sincronizzata. Su di te fanno effetto soprattutto le ingiustizie. Io mi commuovo quasi sempre per gli abbandoni o gli addii.
In Toy Story 4 c’è una scena in cui una bambina si è persa al luna park. È dietro una parete, piange, è disperata. È bloccata dalla paura e non sa cosa fare né come. Woody la vede e insieme a Gabby Gabby decide di aiutarla. Gabby Gabby le si avvicina furtiva, poi prende la posa da bambola, tira il cordino del suo disco vocale. La bambina si volta, la vede, l’abbraccia e trova la forza per uscire dall’ombra e chiedere aiuto. È stato più o meno a questo punto che tu hai cominciato a piangere a dirotto. Ti sei buttata tra le mie braccia e piangevi di un pianto inconsolabile. Io volevo a tutti i costi calmarti, anche perché piangevi a singhiozzi e tutto il cinema avrà pensato che ti stavo menando, ma purtroppo stavo piangendo anch’io e ogni frase che provavo a dire sotto voce mi moriva in gola strozzata dalla commozione. Ci siamo allora solo abbracciati e lasciati consolare dal calore delle braccia. Ecco, in momenti come questi penso che essere padre sia la cosa più bella e unica del mondo. Ed è talmente mia che va verso l’infinito e oltre.  

Rushmore

La parete di fronte al mio letto è ampia e bianca. Ho voluto lasciarla così da quando mi sono trasferito in questa casa e dopo poche settimane ho comprato un proiettore e ti ho fatto una sorpresa. Credo te lo ricorderai anche se sono passati quasi due anni.
Hai sempre avuto una predilezione per il cinema al quale sei abituata sin da piccolissima. Davanti a quello schermo gigantesco sul quale si componevano storie sei rimasta sin da subito rapita, manifestando una autentica passione per quella magia che si può comporre ogni volta come fosse la prima esclusivamente in una sala buia. Un po’ come me, passeresti tutti i pomeriggi della tua vita sotto al grande schermo, in quella stanza nella quale, quando le luci si spengono, si viene trasportati letteralmente in una realtà nella quale non siamo spettatori ma protagonisti.
Così quando quella sera di luglio, ho spento le luci e acceso il proiettore tu hai spalancato gli occhi ed esclamato “papà hai portato il cinema a casa!” ed era esattamente quello che speravo accadesse.

Da quella sera abbiamo inaugurato quelle che affettuosamente chiamiamo tra noi seratine speciali, che col tempo abbiamo reso sempre più speciali affiancando al film i nostri (quasi sempre tuoi) piatti preferiti che mangiamo rigorosamente a letto sui tavolini di ikea. È un rito bello che riserviamo esclusivamente alle serate in cui il giorno dopo tu non vai a scuola e io a lavoro. Di solito il rito si inaugura nel primo pomeriggio del venerdì o del sabato, quando io ti chiedo “seratina speciale?” e tu esulti facendo sapere a tutto il palazzo che sei contenta. A quel punto pianifichiamo cosa mangiare. Andiamo a far la spesa, compriamo le cotolette oppure gli hot-dog o ancora gli hamburger. Le verdure sono rigorosamente vietate e alla fine della cena ci concediamo un gelato o un dolce, a seconda della stagione. 

Un tempo sceglievi sempre tu cosa vedere e io ti lasciavo fare. Abbiamo così visto decine di volte tutti i classici Disney partendo da Cenerentola, passando per Biancaneve e arrivando ai più recenti Frozen o Coco. La tua curiosità deve aver intuito che lasciarmi proporre delle alternative poteva portarti verso mari inesplorati e interessanti. Così lentamente hai cominciato a fidarti delle mie proposte, forse anche soltanto perché sei un’avida consumatrice di trailer (trei come li chiami tu), che io ti sottopongo ripetutamente nella fase di scelta del film. Ma è stato grazie a questo che ho potuto farti conoscere alcuni dei film ai quali ero più affezionato nella mia infanzia. E.T., NavigatorLa Storia Infinita, i GooniesJumanji. Li guardiamo insieme e insieme a te io li rivedo come fosse la prima volta, dividendo lo sguardo tra la parete e i tuoi occhi che osservano avidamente e vivono ogni passaggio con la gioia e lo stupore di un bambino. Ho una mappa mentale, le tappe della quale lentamente stiamo percorrendo. Tu ancora non lo sai ma presto conoscerai Ritorno al futuroIndiana Jones e, prima o poi, guarderemo insieme Rushmore e ti racconterò di quel periodo della mia vita in cui lo guardavo a ripetizione e mi auguravo giorno e notte che apparisse un Max Fisher, mi invitasse alla premiere di una piece teatrale e mi assegnasse un posto vicino a lei. Quel giorno, sono certo, mi farai un sacco di domande e rideremo tanto nel pensare quanto scemo sia stato tuo padre e quanto indiscutibilmente bello sia Rushmore. Tu sarai un po’ più grande di oggi ed enormemente matura. Mi fisserai e mi dirai: “papà, ti identificavi in Herman Blume ma in realtà eri tu Max Fisher”. A quel punto io fisserò il pavimento riflettendo, tu sorriderai del tuo sorriso meraviglioso e probabilmente mi chiederai “Nihilo sanctum estne?”.

Intanto ci spariamo per la trentesima volta Frozen e subito dopo ti addormenti nel mio letto. Prima di chiudere gli occhi mi chiedi “Papi, domattina mi porti la colazione a letto?”. Io ti sussurro “shhhh… dormi adesso” e dentro ti rispondo “certo, amore mio!”.

Il naso di Totoro

Hai sempre avuto una grande passione per il disegno che, negli anni, è diventata un vero e proprio talento. In questo abbiamo meriti sia io che tua madre. Lei perché ti ha sempre portato, sin da quando eri piccolissima, in giro per mostre, riempiendoti la testa di Van Gogh, Monet, Turner, Picasso. Io perché inconsapevolmente ti ho trasmesso una passione per il disegno che mi ha sempre solleticato ma alla quale ho permesso di entrare nella mia vita solo in tempi recentissimi concedendomi prima un corso, poi un set di matite, carboncini, grafite e fogli pregiati con i quali mi vedi armeggiare ormai da mesi.

Così, dal niente, ogni tanto ti vedo strappare un foglio dal mio blocco e cominciare a trafficare con matita e pennarelli. Ultimamente mi hai portato un disegno che mi ha lasciato a bocca aperta. È Totoro, immerso nel verde di un prato, col suo ombrello nero sulla testa. In alto c’è il sole e un manto di cielo avvolge l’orizzonte. In un angolo c’è scritto a penna il tuo nome e il mio. Il disegno è preciso nei dettagli, il tratto non è mai incerto e persino il colore dei pennarelli è distribuito uniformemente. Non credo nessuno indovinerebbe che lo ha fatto una bambina di appena sette anni.

Stasera stavamo per metterci a letto e hai visto sulla mia scrivania il tuo Totoro. Ti avevo già fatto lavare i denti e mettere il pigiama ed era, insomma, il momento esatto in cui io ti dico di metterti a letto e tu cerchi qualunque scusa per guadagnare ancora un minuto. Poi ti è cascato l’occhio sul disegno che io avevo lasciato in bella vista per ricordare a me stesso di portarlo a incorniciare e mi hai detto “mi sono dimenticata di fargli il naso, ora glielo faccio” e io ti ho detto di non farlo ché era già bello così e che prima di mettersi a dormire non bisognerebbe fare nient’altro. Ma tu sei testarda e hai afferrato un pennarello nero e disegnato una specie di uncino che non somiglia affatto ad un naso tra gli occhi di Totoro. Devi essertene pentita immediatamente perché sei scoppiata in un pianto disperato e sei saltata sul mio letto, a pancia in giù e mentre urlavi e sbattevi i pugni sul cuscino, un fiume di lacrime mi bagnava le lenzuola. Io ho provato a calmarti ma tu hai cominciato ad urlare ancora più forte “Perché l’ho fatto? Perché?”.

È stato in quel momento che ho sentito la voce di mio padre dentro. Stava per venir fuori, era sul punto di comporre una frase ed espellerla con stizza e cinismo dalla bocca e io l’ho indovinata. La voce stava per dire “così impari a non darmi retta, io te l’avevo detto!”, ma l’ho fermata per tempo e ricacciata dentro. Mi sono invece concesso qualche respiro, chiedendomi se i vicini stessero chiamando il telefono azzurro sentendoti urlare. Poi mi sono avvicinato a te, ti ho abbracciata forte e, mentre ti accarezzavo i capelli, ti ho raccontato la storia delle tessitrici di tappeti persiani. È una storia che mi hai sentito raccontare tante volte ma credo ti piaccia molto perché me la fai raccontare ogni volta come fosse la prima. C’è questo paese lontano che si chiama Persia, dove tessono i più bei tappeti del mondo. Le tessitrici possono impiegare anche mesi per tesserne uno dalle geometrie complicatissime, dai colori incantevoli e dalle trame misteriose. E poi abbassando il tono della voce, come per rivelarti un segreto, ti ho chiesto “sai cosa fanno ad un certo punto?”. Tu avevi intanto smesso di piangere ed eri solo in attesa del resto della storia. “Sbagliano”, ti ho detto in un sibilo furtivo. “Sbagliano, inserendo un difetto nel loro
tappeto”. Tu allora mi hai chiesto “perché?” anche se già conoscevi la risposta. E io ti ho detto “per ricordare a se stessi che nulla è davvero perfetto”. A quel punto aspettavi che legassi la mia storia a quello che era accaduto e allora ti ho spiegato che capita a tutti di pentirsi ferocemente per aver detto, fatto, essersi comportati in maniera sbagliata. Ma l’errore è credere che esista una maniera giusta di fare le cose. Facciamo ciò che sentiamo, ciò che siamo nel momento in cui lo facciamo, anche se un minuto, un’ora, un mese dopo non ci riconosciamo e vorremmo convincere noi e gli altri che ciò che è stato non ci appartiene e potremmo farlo in mille modi migliori. Facciamo errori tutti quanti, anche tuo padre, continuamente. E proprio come te, si dispera, sbattendo i pugni sul cuscino e lasciando che le lacrime bagnino le lenzuola. Ma non possiamo tornare indietro, per quanto gravi siano gli errori che abbiamo fatto. Per quanto disgustosi, ripugnanti, e per quanto forte sia il nostro pentimento, sono comunque i nostri errori e resteranno lì per ricordarci quello che siamo: esseri imperfetti.

Ciò che davvero possiamo fare, ti ho detto, è smettere di ossessionarci su ciò che abbiamo o non abbiamo fatto e guardare avanti sapendo che ciò che è successo, per quanto doloroso, ci aiuterà a fortificarci, a conoscerci, migliorarci e tornarci utile domani. “Vedi”, ti ho detto, “ciò che rende
veramente speciale quel disegno, non è quanto sia bello – per quanto sia indiscutibilmente bello – né che adesso abbia un difetto. Ciò che lo rende speciale è il ricordo che custodisce. Un ricordo fatto di te che strappi un foglio dal mio blocco, che decidi cosa disegnare e come, che scrivi i nostri nomi in un angolo e mi dici “papà ho fatto un disegno per te”.
E mentre ti dicevo queste cose, hai chiuso gli occhi e ti sei addormentata nel mio letto. Io ti ho rimboccato le coperte, ho sistemato i cuscini ai tuoi lati per evitare che girandoti potessi cascare, mi sono alzato e sono venuto a scrivere questa storia.