Chiuso dall’interno

Ti piace raccontare storie, inventarle dal niente e sei anche brava. Lo fai senza un reale piano, al contrario di quello che ti ho spiegato quando ti ho detto che raccontare storie è come costruire un mobile o una casa: serve sempre un progetto. In realtà è solo una cosa che ho detto, convincendo poco sia te che me che scrivo a tutt’oggi senza un progetto, semplicemente lanciando le parole sul foglio bianco del computer, così come i pensieri le mischiano e le dita compongono, limitandomi a sistemarle alla fine.
Le tue storie sono molto articolate, piane di incisi e tangenti che spesso si perdono o ci fanno perdere in storie o pezzi di altre storie. È però bello starti ad ascoltare. Vuoi che ti dica ogni tanto di sì, anche solo con la testa, per confermarti che ci sono, sono lì dove tu mi stai portando. Anche questo lo abbiamo in comune. Pure io mi interrompo quando racconto se chi mi sta di fronte non mi dice di tanto in tanto “uhm uhm” o “sì”.

La storia che mi racconti ultimamente è divertente. È cominciata qualche settimana fa mentre tornavamo in macchina dal mare. Mi hai chiesto ancora cosa voglio fare da grande. Io ti ho risposto l’astronauta o il pilota di mongolfiere, non ricordo. Tu mi hai detto allora che avevi il mestiere perfetto per me e che se volevo mi potevi spiegare come fare. Volevo. Hai detto allora che il mestiere del futuro, quello che mi farà guadagnare tanti soldi, è lo scaccoliere (o scaccolista, hai detto proprio così, perché, hai spiegato, si può dire in entrambi i modi). Lo scaccoliere è uno specialista, come un medico, ha un suo studio, al quinto piano di un edificio all’Eur e riceve per appuntamento. “Visita” un certo numero di persone al giorno, gli toglie le caccole dal naso e poi le mette nel computer per analizzarle. Ha il responso solo dopo qualche giorno, perché il computer deve fare calcoli complessi per sapere se le caccole sono buone oppure marce. Quando finalmente si ha il responso, le persone tornano e vengono a ritirare le caccole buone (quelle marce vanno al macero), se le portano via, se la mangiano o ci fanno quello che vogliono.

È una storia disgustosa che fa venire il vomito solo a leggerla o pensarla. Te l’ho detto e tu hai riso tanto soddisfatta della reazione che hai ottenuto. Col tempo hai arricchito questa storia di tanti particolari: le modalità di prenotazione degli appuntamenti, le tecniche di scaccolamento, i profili dei “pazienti”. Ad un certo punto, mi hai persino raccontato l’arredamento dello studio dello scaccolista. E ogni volta io mi sono sentito fiero della tua fantasia e dell’uso che ne fai. Le tangenti che prende e le stanze che riempie di minuzie e particolari che creano uno spazio comodo e leggero riservato a noi due. So che la tua passione per le caccole non è casuale. È una di quelle storture da me indotte che ti ho convinta di avere una venerazione per le caccole a tal punto dal convincerti a mettere da parte quelle più grandi. È una cosa schifosa, lo so. Ma è parte del nostro mondo, fatto di sorrisi, risate, battute buffe, talvolta scomode, qualche volta esagerate. Io ci sto bene e so che pure tu ci stai alla grande. E allora ci stanno bene anche le caccole. Solo questo.

Intanto ci ho riflettuto un po’. Non so se me la sento così dal niente di mollare tutto e avviare una carriera da scaccolista. Non so nemmeno se il mondo sarebbe pronto per una cosa così. Forse mi prendo un altro po’ di tempo per pensarci. Nel frattempo, chissà, trovo il modo per diventare astronauta o pilota di mongolfiera perché se c’è una cosa che mi insegni giorno dopo giorno è che davvero posso diventare tutto ciò che voglio. Posso perché voglio, perché tu ci credi e perché prendi sul serio tutto ciò che dico, anche quando è una cosa aberrante come conservare una caccola per farmela vedere.

La guerra è finita

Eravamo al parco. Quello attorno al cinema, vicino alla nuova casa che tua madre ha scelto per voi due. Tu avevi appena iniziato a girare allegramente su una macchina a pedali, percorrendo il tracciato immaginario che io ti avevo indicato dopo aver lasciato la mia carta d’identità all’omino del noleggio. Quello, vedendoti partire, ti ha urlato dietro “è vietato andare sull’erba” e tu, che sei ligissima alle regole, hai notato che nel mio circuito c’era un tratto sull’erba, fermandoti e rimanendo perplessa sul dove andare.
Avevamo appena finito l’aperitivo al bar. Tua madre aveva preso un cocktail alla frutta disgustoso, io uno spritz campari e tu un gelato e le patatine. Così mentre percorrevi il tuo circuito immaginario, ne ho approfittato per andare a fare la pipì. Ho aspettato passassi davanti alla nostra tribuna d’onore, ho finto una specie di ola, tu hai fatto ciao con la mano, lasciando che la tua macchina sbandasse un po’ e poi sono andato.

Quando sono tornato ho visto tua madre che parlava con un uomo. Non lo avevo mai visto prima ma non mi ci è voluto molto per capire dal tono e dallo sguardo che ci stava chiaramente provando. Mi sono avvicinato, con la camminata da bullo, mentre fingevo una fintissima nonchalance. Lui mi ha guardato arrivare, con la faccia di chi si chiede “chi sarà questo?”, tua madre ha detto solo il mio nome e io gli ho lasciato tendere la mano e tenerla sospesa per un tempo lunghissimo mentre guardavo te e ti incitavo inutilmente in una gara che vedevo solo io. Poi gliel’ho stretta, continuando a tenere gli occhi su di te che nel frattempo urlavi “vado velocissimo papà!”

Il tizio allora ha continuato a parlare con tua madre, piazzando se stesso in un ipotetico appuntamento futuro. Io mi sono allontanato di qualche passo e mentre con gli occhi ti seguivo, con le orecchie ero dentro la loro conversazione. Gli ho sentito dire “dai, ti scrivo, ci aggiorniamo, sì, va bene, facciamo nei prossimi giorni”. Poi è andato via. Tua madre allora mi si è avvicinata e mi ha chiesto se fosse ora di riconsegnare la macchina a pedali mentre tu ti addentravi sul pezzetto di percorso sull’erba con la faccia di chi stava rubando una caramella. Io ho risposto “quello ci stava provando”. Lei ha sorriso, del sorriso che le illumina il viso da quando è nata, e ha sussurrato soltanto “dici?”. Io ho finto sicurezza e aggiunto “non sono nato mica ieri?”. Lei ha guardato verso l’orizzonte, socchiuso gli occhi e sussurrato “tu no, ma io sì”. 

Così, mentre venivo a disincastrarti dalla macchina a pedali, ho pensato che avevo appena conquistato una delle vette più alte della mia vita: poter parlare con tua madre senza imbarazzo, ormai lontani dal nostro campo di battaglia, di altri uomini e donne. E ora, mentre ti scrivo, me la immagino mentre mi legge sotto la luce leggera di una lampada da tavolo e sorseggia piano la sua tisana. Poi, termina il racconto, sorride, prende il telefono e mi scrive un messaggio su whatsapp: “carino il nuovo racconto!”.