Roma capoccia

So che ti pare tutto complicato adesso. Più che complicato, a tuo sfavore. Hai l’impressione – penso – che ti stia trattando male, trascinando in qualcosa che non hai voluto né scelto e per il quale non ti ho dato alternative. Nonostante stia passando intere ore a raccontarti quanto fortunata tu sia, non riesci a toglierti di dosso l’aura di tristezza e nostalgia che ti lega a un passato recente nel quale eravamo in due, ovunque e comunque. Ora invece siamo in tre e ti sta bene, a volte anche benissimo. Ma è l’idea che ti fa star male e con la quale non riesci a venire a compromessi. L’idea che 2 non sarà mai più 2 e 3 non è divisibile per 2. Perché il tuo 2 è fatto di passeggiate, risate, scorribande, complicità, sponde nelle quali le nostre palle rimbalzano da un lato all’altro, finendo qualche volta in buca ma un istante dopo sono di nuovo sul tappeto verde pronte a rotolare allegre. Da un paio d’anni c’è però una palla in più sul nostro tavolo da gioco. È una palla verde, non so dire se sia il 6 pieno oppure il 14 mezzo. Gioca insieme a noi che siamo certamente l’1 pieno e il 9 mezzo, entrambi gialli come il sole dell’inno della Roma. Il che vuol dire che se Agata è il 6 sta tra le mie palle, se invece è il 14 sta con le tue. 

Il punto è che tu finora hai sempre pensato che Agata giocasse campionati interi con me quando tu non ci sei ma solo alcune sessioni comuni in tre, ogni tanto, senza scadenza. Invece col tempo ti ho fatto capire che voglio Agata nella nostra squadra, tutti i giorni, in un girone che non è né mio, né tuo ma nostro. Ma non è facile, come non è stato facile far nessuna delle cose che abbiamo fatto insieme e solo poi sono diventate normali. Così ti pare assurdo e complicato lasciare il nostro tavolo per passare a giocare su un tavolo nel quale possiamo muoverci meglio tutti e tre. È per questo che ti arrabbi con me e mi dici che non ne vuoi sapere. Eppure mi basta ritornare a casa e trovarvi sotto la stessa coperta abbracciate mentre guardate Maria De Filippi, per capire che non c’è nulla a tuo svantaggio in quello che stiamo facendo. Ma non riesco a convincerti che sia la cosa migliore, di fidarti di me, che ci sarò sempre e tra noi due non cambierà mai nulla a prescindere dal tappeto verde sul quale giochiamo. Fidati di me, ti ripeto fino allo sfinimento. Ma non ce la fai a sentirmelo ripetere e ti volti dal lato del finestrino mentre ti porto a scuola. 

Voglio raccontarti una cosa anche se so mi odierai perché come sempre riduco tutto a una metafora calcistica. Lo scorso dicembre giocavamo in casa contro l’Inter. Era una di quelle partite toste nelle quali sai che può succedere tutto e non escludi nemmeno il miracolo. Io, oltre al mio normale attaccamento al calcio e all’orgoglio di tifoso, speravo doppiamente di tornare a casa con una vittoria sulle labbra. Lo speravo perché Agata odia l’Inter, per ragioni sue e un po’ complicate da spiegare qui. Odia l’Inter e ama la Roma, ma soltanto perché ama me. Così volevo tornare a casa e entrare dicendo “Pelato di merda piglia e porta a casa!” che è una frase in codice che l’avrebbe fatta ridere e gioire, ubriaca insieme a me dell’euforia di una vittoria insperata. 

Insomma, loro primi in classifica, noi impantanati in una mezza classifica senza onore né gloria ma dentro la pancia dello stadio era chiara a tutti la voglia che avevamo di vincerla. Alla fine del primo tempo eravamo però già sotto di tre gol e i nostri si passavano la palla senza convinzione e senza costruire. Il disegno era di quelli sconcertanti che avrebbero potuto rivelare una disfatta simile a quella recente di Bodo o quelle più antiche e non meno pesanti contro Barcellona, Bayern, Manchester o Fiorentina. Per fortuna o per pietà dell’avversario, la partita non ha subito quella piega e a un quarto d’ora dalla fine è successo qualcosa che non avrei mai immaginato e che non avevo mai visto prima. Eravamo sconfitti, senza alcuna possibilità di recuperare il risultato. Persi in una stagione mediocre, senza ambizioni e senza midollo. Eppure la curva prende a cantare un coro che in breve contagia tutto lo stadio: Ale ale Roma ale, Ale ale Roma ale. A ripetizione, senza fine e senza senso. La partita era persa e anche le ambizioni della stagione eppure tutto lo stadio cantava a squarciagola quel coro, come una nenia infinita, dolce, malinconica, viva. Ale ale Roma ale, fino all’ultimo minuto di gioco, fino al triplice fischio dell’arbitro e oltre. Non esisteva più lo stadio, non esisteva la partita, né la sconfitta. Esisteva solo la Roma e la sua gente. Nessuno cantava più per ciò che avveniva o poteva avvenire in campo. Tutti, indistintamente, cantavano per ciò che avevano nel cuore, per la Roma. Fino a quel momento, non avevo mai capito esattamente cosa significasse il titolo del nostro inno “Roma non si discute, si ama”. Fino a quel momento, non avevo mai cantato veramente il mio amore per la Roma, insieme a migliaia di altre persone che non conosco e non conoscerò mai. Cantavo, piangevo, incespicavo nelle poche sillabe di quel ritornello, poi ricominciavo. Cantavo, piangevo, amavo. Una passione così duratura, lunga, che legava il 90 per cento della mia esistenza a una squadra. Un bambino di 7 anni che scopre il calcio, un quarantenne felice che ama allo stesso modo e con la stessa forza di cent’anni fa.

Perché ti ho raccontato questo? Non lo so esattamente ma so per certo che significa qualcosa. Perché ti può sembrare di vincere o che tu abbia tutte le carte in regola per sperarci. A volte puoi anche perdere sonoramente, prendere schiaffi che ti suoneranno nelle orecchie per tutta la vita. Ma l’amore, l’amore non finisce mai e io te lo canterò sempre, fino all’ultimo respiro che mi sarà concesso per ricordartelo, ricordarti che al di là delle sconfitte o delle vittorie, esiste sempre l’amore. Anche se adesso ti sembra banalotto e già sentito, fidati di me. Perché questo amore è tutto ciò che ci rimarrà nei momenti complicati che ci sono e che verranno. L’unico calmante che ci farà sentire di nuovo bene quando ci sentiremo soli, in ansia, preoccupati o tristi. Il coraggio che ci servirà quando avremo paura. Fidati di me, perché sono il tifoso più accanito, più assiduo, più scalmanato che c’è.

T’immagini

C’è stato un tempo nel quale ogni chiamata con tua nonna aveva una durata prestabilita che non superava mai, dico mai, i due minuti e mezzo. Anche il plot di queste telefonate era invariabile, suonava più o meno così:

– Come va?
– Bene e a voi?
– Tutto bene.
– Avete mangiato?
– Sì e tu?
– Non ancora, tra poco.
– Che tempo c’è?
– Ha piovuto. Ora sole, lì?
– Sole.
– Avete deciso quando venire?
– Non lo so, spero presto.

Poi arrivava il momento dei saluti che era introdotto da una lunga serie di miei “vabbè dai” che annunciavano la fine della conversazione. Mediamente due/tre volte la settimana, a orari fissi, in tarda serata e spesso anche domenica all’ora di pranzo. Nel frattempo, correvano via interi spezzoni di vita nostri e loro di cui reciprocamente ignoravamo l’esistenza. Se tua nonna veniva ricoverata in ospedale, che so per dei controlli, un nervo infiammato, una cisti, io non lo sapevo; se tuo nonno piantava o raccoglieva fagioli, ceci, patate, pomodori, zucchine o melanzane, io non lo sapevo; se i tuoi nonni facevano un viaggio, spostavano una parete di casa, compravano un divano nuovo o mandavano in assistenza la tv o la lavatrice, io non lo sapevo. Se tu cadendo ti sbucciavi un ginocchio, se imparavi ad andare in bicicletta senza rotelle o a pattinare, se ti regalavo un fumetto e ti trovavo seduta in bagno a leggerlo voracemente, loro non lo sapevano; Se io ricevevo una promozione o una gratificazione a lavoro, se mi iscrivevo a un corso per approfondire qualche argomento, prendevo la patente della moto, andavo allo stadio e vincevo oppure tornavo a casa depresso perché avevamo perso male, stai pur certa che loro non lo sapevano. In compenso però conoscevo benissimo la loro dieta e le condizioni climatiche di quel pezzo d’Italia. 

Probabilmente tutto ciò ti suona strano e non nostro. Perché è contrapposto a una realtà attuale molto diversa, fatta di lunghe telefonate, di racconti dettagliati, di risate, approfondimenti, riflessioni, domande. Che cosa è cambiato io non saprei dirlo completamente. Posso raccontarti che prima ancora che tu la conoscessi, un giorno Agata prese il mio telefono e inviò un messaggio a tua nonna scrivendole “ti voglio bene” seguito da un cuore. Io non lo avevo mai scritto e non lo avevo nemmeno mai detto. Posso dirti che prima ancora che tua nonna e Agata si incontrassero di persona già facevano lunghe chiacchierate al telefono il cui argomento principale eravamo io e te. Posso dirti che, senza rendermene conto, un giorno ti chiesi di andare dai nonni prendendoci due giorni da scuola e da lavoro e mentre tornavamo stavamo già entrambi progettando il viaggio successivo e che da allora raramente lasciamo trascorrere più di tre o quattro settimane senza ritornare. E, infine, posso raccontarti di come dopo quasi 40 anni trascorsi in un silenzio devastante, una domenica ci siamo seduti a tavola e ho chiesto a tua nonna se ci raccontava come aveva conosciuto tuo nonno. Così, d’improvviso, mentre sciorinava sulla tavola apparecchiata il suo racconto d’altri tempi, ho distolto lo sguardo dai suoi occhi allegri e commossi e l’ho lasciato sorvolare tutt’intorno. Ho visto Agata rapita e divertita, ho visto tuo nonno imbarazzato e contento, tua cugina che sorrideva, te che ascoltavi con un orecchio e con le mani ti avvinghiavi a Agata. Ho visto me in mezzo a tutti noi e improvvisamente ho fatto una scoperta che mi ha lasciato senza fiato: questa è la mia famiglia ed è la famiglia più bella del mondo. 

C’è un merito in tutto ciò: di Agata, tuo, dello psicanalista, di San Paolo, della pazienza dei tuoi nonni, di tante altre combinazioni fortunate che hanno portato a questa riscoperta. La verità è che il merito stesso è della vita che prende a volte direzioni insensate, anche se mai sbagliate, e che ti porta a fare magari un tragitto lunghissimo per arrivare dove saresti potuto arrivare con un semplice saltello, esattamente dove la risposta a tutte le domande fa capolino in ogni storia (e la nostra non fa certo eccezione): lì dove sta l’amore. 
Nel nostro bagno di casa, la tazza che contiene gli spazzolini recita “la vita può esser capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti”. Forse non ho ancora la capacita completa per capire tutto ciò che è successo finora, so però per certo che ho avuto la più straordinaria fortuna si potesse desiderare. Non fortuna di caso, casualità. Ma fortuna di benedizione, salvezza, grazia. Questa fortuna ha tanti nomi e tante facce: la tua, quella di Agata, quella di nonno e nonna, degli zii, delle cugine, degli amici. E la mia.

Cast away

Eccomi qua. 41 anni suonati, la barba di Tom Hanks in Cast Away e lo sguardo del quindicenne che resta serio e strizza gli occhi per sembrare più grande. E tu, dall’alto dei tuoi 9, dall’altra parte del mondo, senza di me.
Nelle poche foto arrivate dal tuo gruppo scout, hai la faccia sbattuta anche se sorridi. Ho provato a ingrandire ma ho trovato solo pixel confusi. Volevo vedere se avevi le occhiaie, segno che non eri riuscita a dormire o che avevi pianto. Invece non ho saputo niente per tutto questo interminabile tempo trascorso dal momento in cui sei scomparsa in autobus a ora, la mattina del giorno in cui tornerai.

Credo di aver aggiornato dalle 80 alle 100 volte al giorno la pagina facebook del tuo gruppo, osservato la mia pancia comprimersi al peso dell’ansia che disegnava ferite, maltrattamenti e prigioni nelle quali eri intrappolata, guardato compulsivamente il calendario, recitato come un mantra una filastrocca che diceva “mai più, non ce la faccio, chi me l’ha fatto fare”. E alla fine è arrivata questa giornata. Tu come ti senti? Probabilmente sarai più grande quando scenderai dall’autobus. Ti scioglierai in un pianto e ti concentrerai sulle “torture” che sentirai d’aver subito. Solo lentamente, nei prossimi giorni, rivelerai i momenti di felicità e spensieratezza che hanno riempito queste dieci giornate assurde e inconcepibili. Allora scoprirai che hai fatto tutto da sola: partire, stare, rimanere, resistere, divertirti, stringere nuove amicizie, rinsaldare quelle preesistenti e sentirti in qualche modo grande e importante.

Ho avuto paura. Paura potessi farti male, perderti, persino morire. Anche se alla partenza ti avevo elencato una gran quantità di “vedrai”.  E tu adesso stai tornando a casa. Riesco a percepire l’emozione di questa mattina, mentre raccogli le tue cose sparse per la stanza e incredula ripeti tra te e te “ce l’ho fatta, ce l’ho fatta”. Ti capiterà tante altre volte nella vita di volere, senza saperlo, partire e ogni volta sentirai di essere sul punto di non poterne più e di dover lasciar perdere. A volte capiterà anche di farlo davvero. Raccogliere tutto e andarsene prima della fine o prima ancora dell’inizio. Spero però che la tua vita sarà piena di cose portate a termine, avventure che avranno il tuo nome e il tuo orgoglio, plasmate con la forza del tuo coraggio. 

Qualche anno prima che nascessi ero stato assunto da una compagnia di geoispezioni marine. Un lavoretto estivo da fare a bordo di una nave in mare aperto. Un paio di mesi al massimo nei quali avrei usato la strumentazione di bordo per dare indicazioni alle persone che avrebbero lavorato sotto la pancia della nave. La società che mi aveva assunto era dell’amico di un mio amico. Mi avevano addestrato, fatto fare un corso di salvataggio in mare e detto e dato tutto quello che c’era da sapere e avere. Mi vedevo come Corto Maltese, sulla poppa della nave, quando a sera il lavoro era finito e me ne stavo a osservare le stelle e riempirmi il naso d’aria di mare e libertà. Eppure a due giorni dalla partenza tutto l’entusiasmo che avevo s’era sciolto come una pasticca di vitamine nell’acqua. Era rimasta solo la paura: di fallire e rimanere solo. E nessuno che mi dicesse “sì che ce la fai”. Una paura così forte contro la quale nulla potei. 
A distanza di tanti anni, porto ancora dentro i segni di quella battaglia persa. Sono graffi di orgoglio e rimpianto che hanno scavato un solco indelebile dentro al ricordo. 
Ci ho pensato tante volte ultimamente. Ci pensavo anche mentre mi imploravi di crederti, ché non ce la facevi a partire, davvero. Io ti rispondevo che sarei stato un pessimo padre se ti avessi creduto. E ora so che avevo ragione perché ho ascoltato la voce che veniva da dentro al posto dei lamenti che arrivavano alle orecchie. 

Sei stata brava e forte e, nonostante tutto il dolore pagato con la moneta della lontananza e dell’ansia, questa volta ho vinto anch’io, insieme a te. Bentornata a casa, amore mio.

Tempo d’estate

È stata dura tornare qui. È dura ogni volta che ci allontaniamo dai buoni propositi tornare a occuparcene. Un attimo soltanto. Una settimana. Un mese. Per sempre. Da una parte l’obbligo, dall’altra la fatica di rispettarlo. La pigrizia che fa della costanza brandelli di foglie secche al vento. 

“Come stai, amore?”, ti chiedo ogni tanto. Lo chiedo anche a Agata. Entrambe rispondete tra il sorpreso e il divertito “bene!”. Io capisco dentro l’intervallo impercettibile tra le due sillabe il vostro stato d’animo. Vi chiamo. Tirandovi la mano per tenervi salde nello stesso posto. Provare finalmente a parlarvi. Agata non ce la fa proprio a rilassarsi. Respira, ti guarda fisso in faccia, guarda pure me. Dice “allora?”. Tu stai zitta. Entrambe vorreste che fossi io a tirarci fuori dal pasticcio nel quale siamo. Non so dove guardare. Se guardo te faccio un torto a lei, se guardo lei, lo faccio a te. Mi divido lo sguardo, ma finisco per guardare a terra o da un’altra parte. Poi interrompo il silenzio e dico solo “vorrei che riuscissimo a star bene, tutti e tre insieme”. Vorrei, ci penso immediatamente, suona strano. Sembra quasi riconoscere l’impossibilità di ciò che viene dopo. Allora continuo sovrastando il sospiro di Agata. Ti guardo e finalmente abdico. “Amore io e Agata vogliamo che tu sia felice, non c’è felicità possibile se tu non stai bene”. Guardo Agata che sembra lontana e rassegnata e dico anche a lei che la sua felicità è il mio bisogno più grande e chiedo a te di rispettarla e contribuire a preservarla, perché nella felicità di Agata c’è anche la mia.

Finiamo per andarcene, perché la tua compagna di classe e suo padre ci aspettano al museo. Agata rimane dentro la porta, sguardo basso e un macigno nel petto. Io e te saliamo in ascensore e tu non sai come chiedermi cosa sia quella cosa che è successa. E in realtà faccio fatica anch’io a decifrarla. Rimaniamo sospesi nel silenzio per 7 piani. Poi tu trovi le parole per chiedermi se abbiamo litigato. Ti chiedo chi. Io, tu, Agata, rispondi. Ti dico di no, non abbiamo litigato. Abbiamo invece fatto una cosa grande. Ci siamo parlati, abbiamo provato per la prima volta a salire su quell’elefante indiano che sostava in mezzo al soggiorno da due anni. Ma l’elefante è gigantesco e noi non siamo bravi addomesticatori. Eppure avere anche solo capito che il pachiderma si stava prendendo tutto il nostro spazio è una rivoluzione. 

Ho una sola missione nella vita: far sentire al sicuro te e lei. Inevitabilmente però se costruisco un rifugio intorno a te, Agata ha l’impressione che per farlo rubi pezzi al rifugio che avevo cominciato  intorno a lei. E così fai anche tu, quando vedi che inchiodo un’altra asse nella parete del suo riparo. 
La soluzione sembrerebbe facile e rassicurante: unire i due ripari e farne uno solo nel quale stare tutti e tre. Convincere entrambe che ciò sia possibile, è complicato come può essere stato per Fermi dividere l’atomo. Io però mi ostino a sistemare assi, chiodi, malta e isolanti da una parte perché ho visto le carte segrete di questo progetto e lo conosco per quello che è: una villetta con l’affaccio al mare e il giardino florido dove ci sono piante e fiori per ogni stagione. Puntualmente però tu mi nascondi i chiodi, proprio quando mi servono. Oppure Agata guarda quel pezzetto di costruzione che ho tirato su e con la faccia schifata mi dice “è sbilenco!”. Altre volte invece vi trovo entrambe indaffarate a sistemare assi e montanti e mentre ridete e vi prendete in giro tiriamo su le pareti di un’intera stanza. 
Perché la verità è che questa casa somiglia molto alla vita: a volte è semplicissima e siamo come Forrest Gump mentre tutto gli è facile. Altre volte però pare di stare in mezzo all’oceano col motore della barca rotta e siamo improvvisamente in All is lost. 
Eppure pezzo dopo pezzo questa casa la stiamo tirando su, anche se certe volte né tu né lei riuscite a vedere nemmeno il terreno sul quale sta crescendo. Ed è robusta perché ha le fondamenta fatte di consapevolezza, i muri d’amore e il tetto d’accettazione. Ci abbiamo messo quasi un anno a fare le fondamenta; nel frattempo però stavamo già costruendo i muri e ora è tempo di darle un tetto. 
E il materiale di questo tetto è un materiale speciale, che può produrre ognuno di noi col suo impegno e la sua fede. Alcune tegole sono fatte di una monetina che cade varie volte sul pavimento e del sorriso che riconosce in esse il gioco di un bambino.  Altre hanno la forma di una porta chiusa, di noi due che parliamo a bassa voce, del bisogno di una figlia di sentire che suo padre sarà sempre solo per lei. Ma ci sono anche tegole fatte di caccole appallottolate e poggiate sul comodino dal mio lato del letto. Altre ancora, infine, hanno forma, peso e colore identico a tegole lasciate nel passato. Misurarle, soppesarle, confrontarle e sistemarle in un incastro geometrico perfetto è una cosa che potete fare solo voi due insieme.
È possibile che ci saranno tegole che sembreranno sempre dissonanti in questa trama: quelle desaturate dei baci e degli abbracci non dati e quelle degli abbracci e dei baci ostentati e rinnovati. Forse però capire che un bacio dato ferisce quanto uno non ricevuto, può aiutare a riequilibrare e ridistribuire queste tegole o troppo colorate o troppo grigie.

Quando sei partita per il tuo primo weekend scout eri terrorizzata dal non riuscire a dormire fuori casa. Io ti ho rassicurato come potevo, ti ho accompagnato fin lì e in un attimo in cui siamo rimasti soli, ho preso il portachiavi con l’omino che ho sempre attaccato al mazzo di casa e te l’ho dato. Ti ho detto “è il mio portafortuna”. Tu mi hai chiesto da quanto lo avevo e perché fosse fortunato. Ti ho detto soltanto che da quando lo porto in tasca la mia vita è cambiata. Non ti ho detto però, per non ferirti, che ce l’ho dal giorno in cui io e tua madre ci siamo lasciati. Solo da allora ho scoperto quanto amore potevi darmi e quanto potevo darne io a te. È sbocciata, cresciuta e divenuta forte la nostra unione. E poi è arrivata Agata e sono nato un’altra volta. 
Tu te lo sei ficcato in tasca e mi hai detto grazie. 
Quando il giorno dopo siamo venuti a prenderti, eri stravolta e felice. Eri anche più grande e matura. Mi hai ridato il portachiavi e confessato che ti aveva portato fortuna. Ho sussurrato “sono molto fiero di te” e tu hai risposto “anche io lo sono di te, perché sei riuscito a dormire lontano da me questa notte”. Ho pensato a quanto grande fossi diventata e ho continuato a rifletterci per giorni interi. Alla fine ho capito che è questa l’accettazione di cui è fatto il tetto. L’accettazione complicata e lenta ma anche forte e duratura che l’amore per l’altro esiste e prescinde dal nostro e non gli toglie niente.

Una come te

Hai una capacità incredibile di contrastare l’ingiustizia. Una specie di piglio che non ti abbandona fino a quando non dimostri, rimanendo senza fiato, il torto che hai subito. Il fatto è che qualche volta questi torti non sono affatto torti ma semplici situazioni nelle quali ti trovi e credi di subire. Storie attraverso le quali ti contrapponi agli altri e ritieni di incassare anche lì dove non ci sono contrapposizioni. Imbarchi la rabbia che va a nozze col tuo orgoglio, e cominci un’arringa che usi come un grimaldello per forzare la serratura di chi ti sta di fronte. Ascolti, o fai finta di ascoltare, poi ritorni esattamente al punto di partenza, cominciando una nuova frase con “sì, però”. 
Mi fai un po’ ridere e allo stesso tempo arrabbiare. Provo con la pazienza di un bonzo a spiegarti che le cose non stanno esattamente come le hai viste tu, mi interrompi e ritorni sul punto ma se provo a interromperti io allora vuol dire che non ti ascolto e faccio il prepotente. Una partita a ping pong nella quale tu interpreti Forrest Gump e io me stesso (e anche nella vita reale non ho mai colpito più di tre volte consecutive la pallina che arrivava nella mia parte di campo).
È per questo che l’altro giorno ti ho detto per scherzare che quando sarai grande ti pagherò l’università solo per iscriverti a Giurisprudenza. Se non lo farai, ti ho detto, farai bene a cercarti un lavoro per pagarti gli studi. Tu hai riso probabilmente senza capire. Poi mi hai chiesto perché penso che dovresti diventare un avvocato da grande e ti ho risposto che solo gli avvocati si accaniscono così tanto nei confronti delle cause perse. Stavolta ho riso io e tu sei rimasta a riflettere guardando da una parte. La mia ansia è venuta in tuo soccorso e mi ha fatto dire che stavo scherzando e avrai il sacrosanto diritto di scegliere tutto ciò che vorrai, tranne sposare un laziale. Stavolta abbiamo riso entrambi.

La mia professoressa di matematica al liceo voleva mi iscrivessi a Matematica. Credo avrebbe accettato anche Ingegneria o Fisica. Quando, dopo l’esame di maturità, le dissi che mi sarei iscritto a Lettere mi guardò come fossi la pozzanghera d’olio di una bottiglia che ti è appena scivolata di mano schiantandosi sul pavimento. Disse “Perché sprecare una mente scientifica a Lettere?”.  Io sorrisi amaro e non risposi ma lasciai che quella domanda mi ossessionasse per tutta l’estate e usasse la mia mano per mettere una croce su una Facoltà scientifica al momento dell’iscrizione. Scelsi Informatica per far contenta lei, mio padre che voleva mi iscrivessi a Economia, me stesso a cui piacevano i computer. Nessuno dei tre in realtà trovò soddisfazione nella scelta fatta e dopo un anno in cui cercai disperatamente di capire cosa si studiasse nel Corso che avevo scelto, diedi un colpo di mano e tornai sulla scelta iniziale. Ma a quel punto era di nuovo tardi per tutto. Avevo perso un anno, la borsa di studio e pure un bel po’ di stima. Mi iscrissi sì a Lettere ma puntai verso l’ennesimo ripiego. Ero a Roma, capitale dell’archeologia mondiale. In questo vidi il prospero futuro lavorativo che mi avrebbe accolto dopo la laurea, soppiantando per sempre le ambizioni letterarie che mi avevano tenuto compagnia fin lì. Fu un errore naturalmente. Perché non servì molto tempo per capire che di archeologia, reperti e stratigrafia mi interessava ben poco. Ma stavolta era davvero troppo tardi per cambiare ancora e con un po’ d’ostinazione sono arrivato fino alla fine del percorso. 

Sai già che ti racconterò questa storia altre centotrentamila volte prima che ti iscriverai davvero all’università. Sempre che tu voglia fare l’università o che per allora esista ancora il mondo che conosciamo. Ma so che probabilmente anche allora non saprò rispondere alla domanda “quindi cosa avresti voluto fare?”, riempiendo la risposta di forse e ipotesi e voli di gallina su interessi  più o meno accattivanti. La verità è che c’è un mondo da scoprire ma quel mondo non è fuori ma dentro di te. Esplorarlo è il viaggio più misterioso e affascinante della vita. 

Here comes the sun

Ti ho lasciato a casa di tua zia perché volevo stare un po’ con mio padre. Tu sei salita al piano di sopra con le tue cugine e non sapevi me ne sarei andato di lì a poco. Mentre tua zia mi preparava un caffè, sentivo la tua voce che dettava istruzioni per un gioco. Poi sono uscito, salito in macchina e partito a retromarcia per uscire dal vialetto. Ero già sulla strada quando mi sono fermato e ho fissato un punto davanti ai miei occhi. La casa degli zii era lì davanti a me. L’ho vista nella sua interezza e provato a immaginare il muro attraverso il quale avrei potuto vederti, se avessi avuto una vista bionica. Non ti avevo detto ciao né che me ne sarei andato, anche se solo per qualche ora. Ero solo in mezzo alla strada, qualche fiocco di neve danzava leggero verso l’erba gelata dei prati e il vetro davanti a me cominciava già ad appannarsi. Ho pensato “via, sarà solo qualche ora”, ma invece di continuare in avanti, ho fatto retromarcia e sono tornato nel vialetto. Ho suonato alla porta e tua zia è venuta ad aprire sapendo che avrebbe trovato me dall’altra parte: “cosa hai dimenticato?” mi ha chiesto. Io ho sussurrato “nulla”, fatto qualche passo in avanti e salito due gradini della scala che porta al piano di sopra. Da lì ti ho chiamata, due volte. Tu mi hai risposto, io ti ho detto soltanto che stavo andando via, che sarei passato a riprenderti più tardi. Hai risposto ok e ti ho sentita scappare per tornare a giocare. Tua zia ha scosso la testa, in una smorfia di esasperazione. Più leggero me ne sono salito in macchina e sono tornato in paese. 

Ho fatto tutto questo quasi senza pensare, sicuramente senza riflettere. In una maniera meccanica, come per rispondere solamente a un’esigenza di giustizia che premeva da dentro, che a tratti si scontrava con un senso di ridicolo e superfluo. Guidando però mi sono reso conto di ciò che avevo appena fatto. L’importanza di un gesto superfluo eppure necessario e imprescindibile: salutarsi. Anche senza ricordare esattamente qualcosa, ho provato dentro una sensazione di abbandono e delusione che giaceva silente da qualche parte nella memoria. Ho rivisto la mia mano stretta in un’altra, e il vuoto dentro il quale era avvolta al mattino dopo. Una sensazione senza spazio né tempo che da qualche parte è ancora viva e ferisce. 

Mentre scalavo le marcie per affrontare una curva, ho notato che il paesaggio attorno era di un bianco più spesso. Ho acceso l’aria calda della macchina, sorriso e fatto una cosa che faccio molto poco spesso. Mi sono fatto i complimenti. 

Tutte le parole

Babbo Natale ti ha portato un vocabolario, proprio come gli avevi chiesto. Credo che anche a lui che vede di tutto da migliaia di anni, una richiesta del genere non capiti di frequente.
È andata più o meno così. Hai visto che la tua maestra di italiano aveva un librone sopra la cattedra e che, di tanto in tanto, attingeva da esso significati che sciorinava alla classe. Non deve avervi spiegato esattamente di cosa si trattava perché ti sei chiesta per giorni cosa fosse quel librone misterioso. Quando tua madre ti ha spiegato che si trattava di un dizionario, hai fatto una di quelle espressioni di stupore e incredulità che ti fanno sgranare gli occhi e ripetere a profusione “Davvero!? Davvero!?”.
E sì, dentro quel libro gigante ci sono tutte le parole della nostra lingua. Incredibile, vero? Tu puoi pensare o dire la più complicata delle frasi che ti verranno in mente e dentro quel libro ci sarà la spiegazione di ognuna di esse, parola per parola, significato per significato.
Non ti pareva vero e hai pensato bene che se esisteva una cosa così tu dovevi averla. Una cosa magica e piena di meraviglia. A chi potevi chiederla se non a Babbo Natale?
E Babbo Natale credo te l’abbia portata gongolando, perché una bambina come te credo non la conosca nemmeno lui.
E tu hai soppesato sulle tue mani quel pacco, mi hai guardato con lo sguardo di chi la sa lunga e hai detto “credo di sapere cosa c’è qui dentro”. E c’era proprio il libro delle parole, il tuo primo dizionario. Dopo averlo aperto, lo hai sfogliato in lungo e in largo, assaporando quell’odore misterioso e travolgente che hanno i libri appena aperti e poi me lo hai passato come per dirmi “wow, ho un tesoro”. E io c’ho ficcato il naso dentro e ti ho detto “crederesti che qui ci sono proprio tutte le parole?” e tu mi hai risposto “ma tutte tutte?”. E io per dimostrartelo sono andato alla C e ho cercato cacca  e te ne ho letto il significato e tu hai riso ed era la risata di chi ha fatto una scoperta clamorosa, la risata del successo. Io ti ho guardato negli occhi e un po’ credo i miei brillassero e ho solo pensato “dio quanto sono fiero”. E ho aspettato di esser solo con te per dirti una cosa che sono certo non t’avevo mai detto. Perché in questi quasi 9 anni che ci conosciamo, penso di averti raccontato 3 miliardi di volte di quanto tu sia una bambina fortunata per esser nata, avere una casa (anzi due), una salute di ferro, e tutte le piccole grandi cose che hai e sei. E mai, credo mai, in tutto questo tempo, ti ho detto quanto fortunato io sia e mi senta nell’avere una figlia. Non una figlia qualunque, ma te. E ho voluto lo sapessi, lo sentissi dentro le parole che mettevo insieme e i cui significati semplici avresti potuto rintracciare immediatamente nel tuo dizionario, che sono il papà più felice e fortunato della terra perché ho la mia splendida, geniale, introversa, a volte timida, qualche volta lunatica, sempre e solo e semplicemente mia figlia.
E voglio chiudere questa letterina di fine vacanze con una parola che non credevo mi avrebbe mai riguardato così tanto. Sai qual è? Felice: agg. [lat. felix –īcis, dalla stessa radice di fecundus, quindi propr. «fertile»]. – 1. Che si sente pienamente soddisfatto nei proprî desiderî, che ha lo spirito sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato: è un uomo f.; essereviverecredersidirsi f.; far f., rendere funa persona;

Celia de la Serna

È morto Maradona. Così, di punto in bianco, è arrivata questa notizia che è diventata l’unica notizia di cui parlare. Mi hai chiesto in macchina chi fosse Maradona. E io mi sono riempito il petto di orgoglio per essere il primo a parlartene. Diego Armando Maradona, ho iniziato, con l’aria dei racconti epici che – almeno per ora – ti fanno ancora cambiare posizione e allungare le orecchie a sentire la favola in arrivo. Era un bambino poverissimo, da piccolo. Talmente povero che la sua famiglia spesso non aveva cibo per tutti e sua madre doveva fingere un mal di pancia per lasciare cibo a sufficienza per i figli. Aveva un sogno, diventare un calciatore professionista e giocare un mondiale. Fece molto di più: vinse un mondiale e divenne il calciatore più forte di tutti i tempi. Perché? ti ho chiesto a quel punto. E tu hai risposto perché era molto forte o perché aveva un gran talento. E io ti ho detto che l’una e l’altra cosa non bastano a diventare il migliore e realizzare un sogno. Per realizzare un sogno serve fede. Credere incessantemente, ovunque e comunque al sogno, anche quando la povertà, la miseria, l’immensità talvolta insensata del mondo che viviamo fa di tutto per convincerti che quel sogno è più misero di te, ridicolo come solo i sogni sanno essere, inutile come un calzino spaiato. 
Tu hai fatto quella cosa meravigliosa che vorrei non smettessi mai di fare. Hai guardato fuori dal finestrino, lasciando che macchine, autobus e motorini popolassero per un secondo la tua vista e poi, senza guardare, mi hai detto: io vorrei diventare Akela da grande. E io mi sono commosso un po’, come al solito, quando riscopro che sei la cosa più bella e importante e preziosa che la vita m’abbia donato. E trattenendo un singhiozzo in gola, ti ho detto semplicemente che mi pareva perfetto. 

Sai, amore, volevo raccontarti una cosa che forse nessuno, oltre tuo zio, sa. Quando ero piccolo odiavo Maradona. Lo odiavo perché aveva reso ridicole tutte le altre squadre che giocavano contro la sua, compresa la mia Roma. Lo odiavo perché aveva trascinato il Napoli verso vittorie che nessuno avrebbe mai potuto nemmeno immaginare. Lo odiavo perché mi faceva sentire umiliato, come umiliati erano probabilmente tutti gli altri che stavano dall’altra parte del campo. Ma il problema vero è che non puoi giocare con Dio. Dio è sopra ogni cosa. Puoi stare a guardare e godere dei prodigi che ti offre ma pensare soltanto di metterti al suo livello, giocarci addirittura contro è una bestemmia indicibile. Così io pagai lo stesso prezzo di superbia di tutti gli altri che non si arresero all’evidenza. Convinsi mio padre a portarmi in giro con la mia bandiera giallorossa il giorno stesso in cui tutto il mondo si tingeva d’azzurro. Urlando come un cretino “Roma, Roma, Roma” fuori dal finestrino, mentre l’unica cosa che davvero avrei voluto fare era far parte di quel sogno che improvvisamente e senza fatica Dio aveva regalato agli umani. 

Ecco, te lo volevo raccontare per due ragioni: la prima è che arrendersi ai miracoli non è mai segno di debolezza; la seconda è che se il tuo sogno è grande e vero e autentico travolgerà chiunque e qualunque cosa lo ostacoli, anche i detrattori.  

Come stai?

Come stai amore? Come va la scuola? Le tue amiche? I tuoi pensieri, i tuoi giorni, la tua vita? A volte mi perdo interi pezzi della tua storia. Ne ritrovo qualche frammento dopo giorni, dentro stralci di conversazione che riguardano altro. Ti ascolto pronunciare nomi, tirare fila di pensieri iniziati tanto tempo prima, in un tempo in cui io ero altrove. Allora provo a rincorrere questi pezzi, implorandoti di aiutarmi al colmare il laghetto divenuto mare che s’è insinuato tra ieri e ora. Tu ci provi, senza troppo entusiasmo. Ti sorprendi. Dici cose come “ma come, non lo sai?”.
E io non lo so, mi sono perso o ti ho persa per qualche istante che è diventato secolo.
“Mi aiuti a preparare la cena? Puoi occuparti tu di apparecchiare la tavola?” e intanto mi sveli l’arcano della tua nuova maestra di italiano che ha un nome che inizia per O e non per U come pensavi tu. Ma dov’ero io quando lo hai scoperto? Com’era la tua faccia in quell’istante o qualche minuto dopo o prima? Mentre la tua amica faceva una battuta e tu incredibilmente hai pensato fosse uno scherzo e non ci sei rimasta male, crescendo vertiginosamente nel giro di una manciata di lancette. 

C’è dentro di me una specie di tristezza atavica. Forse non è nemmeno tristezza. È tentazione di tristezza. Come un affetto immotivato, dovuto ad anni di relazione intensa con essa. Ti svegli la mattina, ti guardi attorno, non trovi nulla che veramente non vada eppure dentro senti una piastrella di serenità che cede sotto al peso della malinconia. Sarà l’autunno o la pioggia che imperversa fuori dalla finestra e batte cadenzata e ritmica sopra alla tettoia del giardino. La mente racchiusa dentro al buio degli occhi spenti che ritornano alla mansarda della mia infanzia, l’acqua e il vento sulle tegole del tetto, il tuono, il temporale. 
Oppure è solo che non hai più un libretto d’istruzioni a cui aggrapparti. Leggerlo fino in fondo, come ai tempi dell’università quando per preparare un esame c’era sempre uno dei libri che si chiamava “manuale”. 

Agata dice che non parlo molto. Non sono capace di condividere la vita e faccio dei miei giorni un gomitolo stretto stretto che tengo solo per me. Mi sorprendo, faccio la faccia di chi casca dalle nuvole e le chiedo, quasi supplico di spiegarmi, dirmi di nuovo, ancora, perché. Lei non se lo spiega come io non me lo spieghi. Dice solo che più di così non sa che dire, è sfinita. E io rimetto in ordine tutti i pensieri. Riprendo in mano i passaggi che mi hanno portato a ridere, parlare, muovermi, camminare, spostarmi in tutte le ore che riesco a riacchiappare. E non ricordo i silenzi perché non contano quanto un silenzio ma quanto una frase concisa con un mucchio di sottotesto che  viene lasciato al lettore per il piacere di scoprire. Eppure non basta. Agata rassegnata mi dice che non ce la fa più e l’unico modo che ha per accettarlo è lasciarmi cuocere nel mio brodo, tenendomi fuori dall’oceano nel quale nuota. Così fa. E non mi dice molto per giorni. Anzi, mi dice solo che si sente meglio. Sente che ora siamo pari. E io me ne sto asciutto sopra un pontile e guardo quel mare che mi circonda e vorrei bagnarmici fino a dove non tocco più e a volte immergermi completamente, finché l’aria che ho nei polmoni me lo permette. Invece sono fuori e mi sento fuori, come un bambino che non sa nuotare e ha pure paura dell’acqua. Mi metto seduto e aspetto che venga a prendermi. Ma lei non viene e d’improvviso capisco che sono solo.

Mio nonno non parlava mai. Aveva un modo esageratamente essenziale di comunicare. E noi, tutta la sua famiglia, avevamo ridotto al minimo le nostre aspettative di comunicare con lui. Succede forse la stessa cosa anche a me, anche a noi?
Ma come te lo spiego e come lo spiego ad Agata che quando passi buona parte della tua esistenza a pensarti da solo i pensieri finisce che diventano sottili sottili, quasi invisibili e spesso fatichi persino a sentirli tu stesso che li hai partoriti? Come faccio a far capire a lei e a te che il mio interesse esasperante per le vostre vite, la mia voglia di conoscere fino all’ultimo granello di sabbia che ha svuotato la vostra clessidra, deriva dalla stessa voglia sproporzionata di esser scoperto, aperto, percorso, vissuto, amato? Tanti interrogativi corrispondono a tanto desiderio di raccontare. Ma la fatica che ho fatto nel cominciare questa lettera è la stessa che faccio nel cominciare un discorso da zero e come vedi anche qui ho cominciato con una domanda.  

Siamo quello che siamo e a volte ciò che siamo è tanto sporco da non apparire plausibile nemmeno a noi stessi. Ne portiamo il peso dentro. Come un fardello di piombo che ci tiene ancorati a terra. E avvicinarci alla pancia somiglia tanto ad un tentativo di autodistruzione che rende facile alla paura di farci schizzar via come un indice che scivola veloce nell’incavo di un pollice per scacciare un insetto. E diventiamo fragili e mediocri, taciturni e reticenti, a volte persino falsi. Perché non c’è niente al mondo, amore mio, di più difficile che far i conti con se stessi.
E quei conti non tornano se mentre li metti in fila bari sugli spiccioli. Li fai una volta, poi la seconda e alla terza sembrano i conti di un ubriaco. E ti senti ridicolo, sei ridicolo, perché un uomo che bara è un uomo che non vale niente. E la risposta a tutti i dubbi ce l’hai sempre avuta tra le mani: perché niente vale la pena vivere quanto la verità. Ma probabilmente ora che lo sai è appena diventato troppo tardi.

L’estate addosso

È un periodo complicato, vero amore? Hai voluto sapere di più su me e Agata e io, nella mia maniera strampalata, forse anche arrangiata, ti ho detto quello che sentivo. E mentre dicevi “non voglio” capivo che entrambi in quel momento stavamo crescendo. Non è questo il punto di arrivo di una cosa cominciata tanto tempo fa? 
Non c’era tensione nelle parole che sceglievo mentre la mia bocca te le rivolgeva. Non c’era ansia, né paura. Ma soltanto la voglia di aprirti la porta di una stanza dentro la quale non sopportavo non fossi ancora entrata. Per lo meno, non fossimo ancora entrati insieme.
La tua compagna di classe racconta dall’inizio della scuola di avere un ragazzo. Dice che è più grande di voi, che frequenta un’altra scuola e che mentre siete a mensa, qualche volta, vi spia dalla finestra. Questo gli permette di conoscervi ad uno ad uno. Subito la tua classe si è divisa tra chi crede alla storia del fidanzato e chi non ci crede. Tu stai nel mezzo. Un po’ perché non riesci a mettere davvero a fuoco una cosa che non vedi e che di per sé ha tanti elementi che non ti tornano (ma se questo bambino va a scuola allora come può vederci dalla finestra mentre siamo a mensa?). Dall’altra però c’è la fiducia cieca che riponi nelle tue amiche, nelle persone, nel mondo in generale e che semplicemente ti impone di credere.

Di base, volevi sapere cosa significasse davvero innamorarsi. E allora senza essermelo mai preparato mi sono trovato a raccontarti qualcosa che non sapevo nemmeno di sapere. Ti ho detto che l’amore è qualcosa che riguarda chiunque, senza età e senza filtri e nasce come un fiore selvatico, senza seme, in posti dove non avresti mai creduto potesse nascere qualcosa. D’improvviso c’è e quel fiore cresce e vive alimentandosi della sua stessa e sola vita. Succede alle persone. Si vedono un giorno, poi un altro giorno, e nasce in ognuno dei due una specie di curiosità. “Wow anche a te piace il fegato alla piastra?”, “ma davvero tifi per la Roma?”, “Oddio è incredibile che anche a te faccia schifo il cocomero”. Cose così, forse banali. Poi questa scoperta diventa voglia, quasi frenesia di far sapere all’altro quali sono le cose che a te piacciono: “devi assolutamente vedere A proposito di Davis!”, “ti è piaciuto?”, “Sì, ti prego vediamo insieme I ponti di Madison County”. E ti rendi conto che quell’emozione che tu provi è la stessa che prova l’altro nel farti entrare nel suo mondo, mentre prende confidenza col tuo. E improvvisamente, senza che tu abbia capito come, hai voglia di sapere tutto dell’altro e senti quasi l’angoscia, un’angoscia piacevole e totalizzante, di raccontare ogni cosa di te. E vorresti che vedesse ogni posto che hai visto e incontrasse ogni persona che conosci, e mangiasse e bevesse ogni cosa che hai mangiato e bevuto da quando sei nato. E capisci che ogni singolo atomo che riempie la tua vita ora riguarda anche lui e anche il minimo sussurro della sua è indelebilmente tuo. E ogni minuto che passi con lui è uguale al più bel giorno d’estate che tu abbia mai vissuto. Ecco, ti ho detto, succede una cosa così. E quando due persone si incontrano e scoprono che tutto questo è vero per entrambi, allora quel fiore selvatico è già nato e se ne sta al sole a riempirsi di linfa vitale e beatitudine. 

Tu sei rimasta zitta a metà tra il divertito e il sorpreso. Anche se dentro probabilmente hai avuto paura. Paura che tutto questo possa toglierti ciò che è tuo, tuo e basta, tuo e di nessun altro. E io l’ho capito, abdicando alle convinzioni che tutto possa essere facile e lineare. Perché di facile e lineare nella vita non c’è niente. Ma allo stesso tempo so – lo so per certo – che l’amore potrà convincerti che tuo padre ci sarà sempre e ti amerà ovunque e comunque con la stessa forza del primo giorno. Perché l’amore smuove le montagne e trasforma il deserto in aiuole fiorite. Non aver paura, amore mio. Perché dove c’è bene non può esserci male e l’amore non si può dividere ma soltanto moltiplicare.