Come stai?

Come stai amore? Come va la scuola? Le tue amiche? I tuoi pensieri, i tuoi giorni, la tua vita? A volte mi perdo interi pezzi della tua storia. Ne ritrovo qualche frammento dopo giorni, dentro stralci di conversazione che riguardano altro. Ti ascolto pronunciare nomi, tirare fila di pensieri iniziati tanto tempo prima, in un tempo in cui io ero altrove. Allora provo a rincorrere questi pezzi, implorandoti di aiutarmi al colmare il laghetto divenuto mare che s’è insinuato tra ieri e ora. Tu ci provi, senza troppo entusiasmo. Ti sorprendi. Dici cose come “ma come, non lo sai?”.
E io non lo so, mi sono perso o ti ho persa per qualche istante che è diventato secolo.
“Mi aiuti a preparare la cena? Puoi occuparti tu di apparecchiare la tavola?” e intanto mi sveli l’arcano della tua nuova maestra di italiano che ha un nome che inizia per O e non per U come pensavi tu. Ma dov’ero io quando lo hai scoperto? Com’era la tua faccia in quell’istante o qualche minuto dopo o prima? Mentre la tua amica faceva una battuta e tu incredibilmente hai pensato fosse uno scherzo e non ci sei rimasta male, crescendo vertiginosamente nel giro di una manciata di lancette. 

C’è dentro di me una specie di tristezza atavica. Forse non è nemmeno tristezza. È tentazione di tristezza. Come un affetto immotivato, dovuto ad anni di relazione intensa con essa. Ti svegli la mattina, ti guardi attorno, non trovi nulla che veramente non vada eppure dentro senti una piastrella di serenità che cede sotto al peso della malinconia. Sarà l’autunno o la pioggia che imperversa fuori dalla finestra e batte cadenzata e ritmica sopra alla tettoia del giardino. La mente racchiusa dentro al buio degli occhi spenti che ritornano alla mansarda della mia infanzia, l’acqua e il vento sulle tegole del tetto, il tuono, il temporale. 
Oppure è solo che non hai più un libretto d’istruzioni a cui aggrapparti. Leggerlo fino in fondo, come ai tempi dell’università quando per preparare un esame c’era sempre uno dei libri che si chiamava “manuale”. 

Agata dice che non parlo molto. Non sono capace di condividere la vita e faccio dei miei giorni un gomitolo stretto stretto che tengo solo per me. Mi sorprendo, faccio la faccia di chi casca dalle nuvole e le chiedo, quasi supplico di spiegarmi, dirmi di nuovo, ancora, perché. Lei non se lo spiega come io non me lo spieghi. Dice solo che più di così non sa che dire, è sfinita. E io rimetto in ordine tutti i pensieri. Riprendo in mano i passaggi che mi hanno portato a ridere, parlare, muovermi, camminare, spostarmi in tutte le ore che riesco a riacchiappare. E non ricordo i silenzi perché non contano quanto un silenzio ma quanto una frase concisa con un mucchio di sottotesto che  viene lasciato al lettore per il piacere di scoprire. Eppure non basta. Agata rassegnata mi dice che non ce la fa più e l’unico modo che ha per accettarlo è lasciarmi cuocere nel mio brodo, tenendomi fuori dall’oceano nel quale nuota. Così fa. E non mi dice molto per giorni. Anzi, mi dice solo che si sente meglio. Sente che ora siamo pari. E io me ne sto asciutto sopra un pontile e guardo quel mare che mi circonda e vorrei bagnarmici fino a dove non tocco più e a volte immergermi completamente, finché l’aria che ho nei polmoni me lo permette. Invece sono fuori e mi sento fuori, come un bambino che non sa nuotare e ha pure paura dell’acqua. Mi metto seduto e aspetto che venga a prendermi. Ma lei non viene e d’improvviso capisco che sono solo.

Mio nonno non parlava mai. Aveva un modo esageratamente essenziale di comunicare. E noi, tutta la sua famiglia, avevamo ridotto al minimo le nostre aspettative di comunicare con lui. Succede forse la stessa cosa anche a me, anche a noi?
Ma come te lo spiego e come lo spiego ad Agata che quando passi buona parte della tua esistenza a pensarti da solo i pensieri finisce che diventano sottili sottili, quasi invisibili e spesso fatichi persino a sentirli tu stesso che li hai partoriti? Come faccio a far capire a lei e a te che il mio interesse esasperante per le vostre vite, la mia voglia di conoscere fino all’ultimo granello di sabbia che ha svuotato la vostra clessidra, deriva dalla stessa voglia sproporzionata di esser scoperto, aperto, percorso, vissuto, amato? Tanti interrogativi corrispondono a tanto desiderio di raccontare. Ma la fatica che ho fatto nel cominciare questa lettera è la stessa che faccio nel cominciare un discorso da zero e come vedi anche qui ho cominciato con una domanda.  

Siamo quello che siamo e a volte ciò che siamo è tanto sporco da non apparire plausibile nemmeno a noi stessi. Ne portiamo il peso dentro. Come un fardello di piombo che ci tiene ancorati a terra. E avvicinarci alla pancia somiglia tanto ad un tentativo di autodistruzione che rende facile alla paura di farci schizzar via come un indice che scivola veloce nell’incavo di un pollice per scacciare un insetto. E diventiamo fragili e mediocri, taciturni e reticenti, a volte persino falsi. Perché non c’è niente al mondo, amore mio, di più difficile che far i conti con se stessi.
E quei conti non tornano se mentre li metti in fila bari sugli spiccioli. Li fai una volta, poi la seconda e alla terza sembrano i conti di un ubriaco. E ti senti ridicolo, sei ridicolo, perché un uomo che bara è un uomo che non vale niente. E la risposta a tutti i dubbi ce l’hai sempre avuta tra le mani: perché niente vale la pena vivere quanto la verità. Ma probabilmente ora che lo sai è appena diventato troppo tardi.

Facciamo finta

Facciamo finta di avere una villa col giardino, le querce con l’altalena, il prato inglese sempre perfetto e la casetta sull’albero. Non una casa sull’albero qualunque. Ma di quelle bellissime di legno, col tetto, una scala a chiocciola per raggiungerla, magari anche due ambienti. La casa delle Chipettes. In questo giardino facciamo ci sono anche due amache, un barbecue, una sedia a dondolo sulla quale io fumo la pipa nelle sere di primavera. Naturalmente la pipa non fa male, il fumo non puzza e facciamo pure che nel frattempo sono diventato bravo a riempirne il camino e riesco a non farla spegnere ogni tre minuti. Facciamo che non ci sono più compiti da fare e che io non ti dico più “che palle anche questo weekend hai compiti da fare… possiamo non farli?” e tu non sei costretta a rispondermi “sì, papi. Dobbiamo.” Facciamo che è primavera tutto l’anno, non fa né caldo né freddo, si sta bene ma ogni tanto, quando ci va, fa freddissimo fuori, piove, il rumore della pioggia risuona dentro la stanza e che, a prescindere dal piano in cui siamo, sentiamo il ticchettio del temporale sul tetto sopra la nostra testa, come se fossimo in una mansarda. Le stanze sono piene di petricore fortissimo, come fossimo in un bosco, e improvvisamente ci ficchiamo sotto il piumone invernale per provare quella meravigliosa sensazione di abbraccio delle coperte. Sui nostri comodini appaiono gli hamburger (va bene, per te un hot-dog) e le patatine e la panna cotta al caramello e sulla parete viene proiettato un film ma non abbiamo passato quaranta minuti a sceglierlo, no. Il proiettore si è acceso e ha scelto esattamente il film che volevamo vedere, quello che io per me e tu per te avevamo in cuore di voler vedere.
Facciamo che abbiamo un garage. Io premo il tasto per aprire la saracinesca e dentro c’è una moto. È una Bonneville. È verde petrolio, ha le marmitte cromate ed è lucidissima. E anche se non potrebbe mai essere così, facciamo che abbiamo anche un sidecar che possiamo attaccare e staccare dalla mia Bonneville tutte le volte che vogliamo. Ora lo agganciamo. Ci mettiamo entrambi il casco e gli occhialoni da pilota d’aereo che ci fanno le facce buffe, come giapponesi della seconda guerra mondiale. Come Tozzifan direi io sorridendo ma tu per sorridere dovrai aspettare ancora un po’. Sulla nostra moto col sidecar raggiungiamo una collina. È verde, verdissima. È piena primavera, ci sono i fiori e sembra di stare a Castelluccio di Norcia durante la fioritura della lavanda ma non nella realtà, no. In quelle foto che trovi su google, quelle photoshoppate. In mezzo a questa radura facciamo che c’è una mongolfiera. È ancora a terra ma ha il pallone già gonfio. Io e te ci saliamo sopra e io levo l’ancora che la tiene ferma a terra. Lentamente la mongolfiera sale e noi ci affacciamo per ammirare il paesaggio. Passiamo sopra San Gimignano, sfioriamo il campanile della Collegiata, e poi facciamo lo slalom tra la torre degli Ardinghelli, quella dei Becci, dei Capatelli, dei Chigi e poi tutte le altre in ordine alfabetico. Poi ti aggrappi alla leva del fuoco che nessuno dei due sa come chiamare. Una vampata fa salire improvvisamente il pallone tra le nuvole per poi riabbassarsi lentamente, come planando. Siamo a Machu Picchu, vedi. E non c’è nessuno. Ma nessuno nessuno. Solo io e te e il nostro pallone areostatico. Sorvoliamo la città abbandonata e tu hai la tua Coolpix, io la mia Pen-f e lì, dalla nostra posizione privilegiata, scattiamo delle foto meravigliose, senza intrusi, senza turisti, senza fretta. Tu però hai voglia di andare dai nonni e va bene, ti dico. Così stavolta tiro io la leva. Stesso movimento, su su su, poi giù giù giù. E ora siamo sulla piazza del paese. Io vorrei rimanere lì in alto, continuare a osservare il luogo nel quale sono cresciuto senza esser visto, ma tu vuoi scendere e allora atterriamo sul tetto della casa dei nonni. Ci caliamo dalla grondaia e arriviamo sul balcone. Tua nonna ha già apparecchiato, è ora di pranzo e sulla tavola fumano le lasagne e il camino è acceso e incredibilmente c’è tutta la famiglia. Mangiamo tutto quello che ci va, poi io bevo la sambuca e tu svuoti una vaschetta di gelato con 3 etti di panna montana sopra.  Salutiamo tutti ma senza tristezza. “Ciao nonna, ciao zii, ciao cugine”. Risaliamo per la grondaia, riprendiamo la mongolfiera e finalmente torniamo a casa e stanchi stanchi ce ne andiamo a dormire almeno 12 ore. Non prima però di aver salutato e dato da mangiare a Gagarin, il mio bulldog inglese, e Lilli e Sally, i tuoi due pony che ci aspettano in giardino.

Possiamo fare questo e possiamo fare un milione di altre cose. Tante le faremo, moltissime altre rimarranno solo nei nostri sogni. Intanto però vengo a prenderti a scuola. Tu te ne stai seduta sul tuo seggiolino e guardi trasognante fuori dal finestrino. Ti chiedo, guardandoti nello specchietto retrovisore, a che pensi. Mi rispondi che riflettevi su Miracolo sulla 34esima strada che hai rivisto per la ventesima volta la sera prima. Mi racconti che hai capito una cosa – dici proprio così – che Susan ha tutto il diritto di chiedere un papà e un fratellino ma proprio non riesci a capacitarti di come possa chiedere a Babbo Natale una casa nuova. Lei una casa ce l’ha già. Perché mai desiderare qualcosa che già ha? Non ti pare giusto e, a pensarci bene, non pare giusto nemmeno a me desiderare tutto quello che già ho.

Tutto tu vuoi

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo. Forse lo sei davvero. Questa bambina si chiama Ah. 
Proprio così, Ah. Come uno sbadiglio, come la prima nota di una risata, come dire “ho capito”. È un nome tra i sogni, la felicità e l’intelligenza. Secondo me è un nome bellissimo, e se fossi stato meno tradizionalista, se avessi avuto meno anni, idee più folli e l’ardire di seguirle, se tua madre non avesse saputo da sempre il tuo nome, adesso anche tu potresti chiamarti così.

Ah è nata in un giorno di pioggia sottilissima, aghi d’acqua tanto fini e innocui che non riuscivano a bagnare nessuno. Quel giorno il sole è sorto alle cinque e quarantasette minuti e tramontato inspiegabilmente due ore più tardi rispetto a quanto riportava l’almanacco. In quelle due ore Ah è rimasta quasi immobile nella sua culla, la sua mamma guardava oltre la finestra aspettando che la luce calasse, il suo papà guardava il suo cuore ormai perso, addormentato nel piccolissimo torace di Ah. Anch’io ho fatto questo nel tuo primo giorno di vita; guardavo te, instancabilmente, e guardavo il mio cuore scindersi come un atomo, diventare tuo, e crescere crescere. Crescere.
Ah non ha un’età precisa. Non è possibile stabilire quanti anni siano trascorsi dalla sua nascita. Fino al suo terzo compleanno ci sono state torte con candeline rosa, poi non più. Poi i pensieri e le parole di Ah hanno cominciato a evolversi in maniera spropositata, non appartenevano più a quelli di una bambina della sua età, non potevano essere contenuti in un numero. Cinque, sei, sette anni, nessuna di queste lancette le apparteneva. Tutto ciò che faceva era così stupefacente da non poter essere misurato, controllato. Il tempo non era più necessario. Lei ragionava con la saggezza di ottanta lune, comprendeva ciò che ai bambini viene celato, per proteggerli, si dice serva a proteggerli. Osservava apparentemente indifferente comportamenti che sarebbe stata presto in grado di ripetere con la precisione di un liutaio. Imparava termini mai usati da nessuno, disegnava mondi sconosciuti, abitati dalle persone a cui voleva bene. Disegnava enormi barche di zucchero e tendoni del circo in fiera nel cortile della sua casa. Al timone suo padre. Sul filo, sospeso tra una nuvola e una stella a trenta punte, suo padre. Marinaio ed equilibrista. E medico, dottore di tutte le malattie curabili con le caramelle. 
Ecco, queste cose possono sembrare sciocche. Ecco, non lo sono. Queste cose sono le stesse che fai tu, e credo le stesse che faccia ogni bambino del mondo, ma tu le fai meglio. Ogni bambino le fa meglio. 
Ogni bambino dal niente genera mondi irrazionali, eppure di quei mondi sa dire, raccontare, spiegare, con una logica convincente al punto da lasciare senza fiato il più illustre rettore universitario. Ogni bambino ha fermato il tempo il giorno in cui è nato. Tutti i bambini hanno rallentato la rotazione terrestre consentendo al sole di splendere più a lungo. È da qui che nasce l’espressione venire alla luce, non si tratta solo della luce fuori dal pancione delle loro mamme, è una luce speciale, un bacio dal cielo alla culla, lungo il tempo che serve a capacitarsi di quanto possa essere eccezionale il miracolo che avviene da sempre, eppure non riesce a perdere neanche una sfumatura d’ombra dello stupore che si trascina dietro a ogni respiro, passo, gesto.

Ti racconto questa cosa. Ah un giorno era a casa, era pomeriggio, sua madre le stava preparando il pane con la confettura di albicocche, le piacciono molto le albicocche. Suo padre non stava bene: solo un po’ di febbre, qualche starnuto. Ad Ah era stato detto di non avvicinarsi a lui, avrebbe potuto ammalarsi. Camminava appena, instabile, i passi strani dei cuccioli, che sollevano troppo le ginocchia e sembrano avanzare come muovendosi nel cerchio di una danza africana. Con quei passi è andata verso la stanza del suo papà, sua madre a rincorrerla per portarla indietro, invece non ce n’è stato bisogno. Ah si è fermata davanti alla porta, l’orecchio teso fino all’istante in cui un colpo di tosse è riuscito a sovrastare il volume basso della televisione, allora si è voltata, “tosse”, ha detto, l’espressione vagamente contrita andava trasformandosi in sollievo. “Tosse solo”, ha pronunciato queste due parole come a stabilire che era tutto a posto, tornando in cucina e sedendosi sullo sgabello, finalmente serena. Non so cosa siano le malattie per i bambini, un pericolo suppongo, intuiscono l’ipotesi degenerativa che si cela dietro quel termine, quella condizione. So che la premura e la dolcezza di Ah, che senza entrare, senza disturbare, si accerta che il suo papà sia malato ma ci sia, che stia bene in fondo, che la sua sia solo tosse, per me è una cosa così grande, dolce, così piena di protezione, interesse, e potrei andare avanti e riempire pagine di aggettivi, ma non lo farò. Dirò solo che per me sei tu, i tuoi baci piccolissimi, infiniti, pronti, come urgentissimi. La tua capacità d’intuire, sapere qual è il momento in cui quei baci mi servono davvero, e mi servono così tanto che non ricordo più di che colore fosse il mare, che sapore avessero le arance prima dei tuoi baci. 

Lascia che ti racconti ancora qualcosa. Ah ogni tanto canta qualche strofa della canzone preferita di suo padre, anche tu lo fai. È normale, va bene, facciamo finta che sia normale, ma non lo è. Ti piacciono canzoni diverse da quelle che ascolto io, eppure di tanto in tanto mi concedi di ascoltare dalla tua voce, che lo sai, è la mia voce preferita in assoluto, la versione live della colonna sonora di un pezzetto della mia vita. Non è normale quello che mi succede, non è normale come mi sento, dura un istante, un momento di comunione tra te, me e chi sono stato prima ancora che tu esistessi. Quell’istante non è normale.
Ah ha i suoi gusti, oltre alle albicocche le piacciono molto il cioccolato e la polenta che fa sua nonna in inverno, che è anche il piatto preferito di suo padre. Tu hai i tuoi gusti, ti piacciono le patatine e il gelato, non ti piace il cocomero. Allora, il cocomero piace a tutti. A tutti. È grande, tondo come un pallone da spiaggia, verde come una zebra se le zebre facessero la fotosintesi, e poi è rosso, dentro è sorprendentemente rosso, questo basta a renderlo fantastico. Poi c’è il fatto che il cocomero non lo trovi dal fruttivendolo tutti i giorni, come le carote, no, devi aspettare l’estate, il caldo, la fine della scuola, allora il cocomero diventa prezioso e spensierato, freschezza dopo tanto sudare. Il cocomero piace a tutti, per forza. Ma a te no. E neanche a me. Capisci? Vogliamo tornare a dire che è normale anche questo? Va bene. È normale. È normale solo se non sei un padre però. Altrimenti è magia, è qualcosa di mio che è cresciuto dentro te, qualcosa che non potevo immaginare fino al giorno in cui hai rifiutato quella fetta rossa e hai fatto la stessa faccia che credo di aver fatto io la prima volta in cui qualcuno mi ha messo davanti un cocomero dicendomi di assaggiarlo. Dicendomi che era buono, troppo buono.

Ah, e questo non è il nome di quella bambina. Ah adesso è il mio sbadiglio, il prologo di ogni volta che sogno di averti con me, è la prima nota della mia risata quando mi rendo conto che non ho bisogno di sognare, tu ci sei. 
È la parte più vera di me che comprende quanto meravigliosa sia la vita. Ah, ho capito. È questo il senso di tutto.
La tua vita, e la mia dentro la tua.