Here comes the sun

Ti ho lasciato a casa di tua zia perché volevo stare un po’ con mio padre. Tu sei salita al piano di sopra con le tue cugine e non sapevi me ne sarei andato di lì a poco. Mentre tua zia mi preparava un caffè, sentivo la tua voce che dettava istruzioni per un gioco. Poi sono uscito, salito in macchina e partito a retromarcia per uscire dal vialetto. Ero già sulla strada quando mi sono fermato e ho fissato un punto davanti ai miei occhi. La casa degli zii era lì davanti a me. L’ho vista nella sua interezza e provato a immaginare il muro attraverso il quale avrei potuto vederti, se avessi avuto una vista bionica. Non ti avevo detto ciao né che me ne sarei andato, anche se solo per qualche ora. Ero solo in mezzo alla strada, qualche fiocco di neve danzava leggero verso l’erba gelata dei prati e il vetro davanti a me cominciava già ad appannarsi. Ho pensato “via, sarà solo qualche ora”, ma invece di continuare in avanti, ho fatto retromarcia e sono tornato nel vialetto. Ho suonato alla porta e tua zia è venuta ad aprire sapendo che avrebbe trovato me dall’altra parte: “cosa hai dimenticato?” mi ha chiesto. Io ho sussurrato “nulla”, fatto qualche passo in avanti e salito due gradini della scala che porta al piano di sopra. Da lì ti ho chiamata, due volte. Tu mi hai risposto, io ti ho detto soltanto che stavo andando via, che sarei passato a riprenderti più tardi. Hai risposto ok e ti ho sentita scappare per tornare a giocare. Tua zia ha scosso la testa, in una smorfia di esasperazione. Più leggero me ne sono salito in macchina e sono tornato in paese. 

Ho fatto tutto questo quasi senza pensare, sicuramente senza riflettere. In una maniera meccanica, come per rispondere solamente a un’esigenza di giustizia che premeva da dentro, che a tratti si scontrava con un senso di ridicolo e superfluo. Guidando però mi sono reso conto di ciò che avevo appena fatto. L’importanza di un gesto superfluo eppure necessario e imprescindibile: salutarsi. Anche senza ricordare esattamente qualcosa, ho provato dentro una sensazione di abbandono e delusione che giaceva silente da qualche parte nella memoria. Ho rivisto la mia mano stretta in un’altra, e il vuoto dentro il quale era avvolta al mattino dopo. Una sensazione senza spazio né tempo che da qualche parte è ancora viva e ferisce. 

Mentre scalavo le marcie per affrontare una curva, ho notato che il paesaggio attorno era di un bianco più spesso. Ho acceso l’aria calda della macchina, sorriso e fatto una cosa che faccio molto poco spesso. Mi sono fatto i complimenti. 

La tua canzone

Ti ho lasciata pochi minuti fa davanti scuola. La maniglia del tuo zaino in una mano, nell’altra la mia mano. Hai detto “ciao papi” e hai fatto per scappar via ma io ti ho trattenuta reclamando un altro bacio, più grande di quello precedente. Mi hai accontentato e fatto un sorriso proprio bello. Poi sei andata e io, come al solito, sono rimasto lì a guardarti scomparire nel corridoio della tua scuola. Mentre andavi però ti sei girata due volte per guardare se ero ancora lì e io c’ero e agitavo un braccio come se fossi appena salita su un transatlantico che ti avrebbe portato dall’altra parte del mondo. Tu ridevi, io ti mandavo baci, gli altri genitori mi passavano accanto indifferenti.
Credo il bidello della tua scuola si sia accorto che rimango sempre lì un paio di minuti dopo che sei entrata. Mi guarda o forse sono solo io che mi sento guardato. A volte me lo immagino che scuote la testa come a dire “questi papà apprensivi”. Non so se è realmente così. So però che ogni volta, faccio finta di tirare fuori le cuffie dalla giacca, le srotolo, me le ficco nelle orecchie e questo mi consente di avere circa un paio di minuti di velata nonchalance.

Stamattina, mentre venivo a lavoro, faceva freddo. Quel freddo che a Roma si vede ben poco d’inverno. Mi pungeva alle caviglie e alle ginocchia e per evitarlo andavo piano e stringevo le gambe verso il centro del motorino. Facendo slalom nel traffico, pensavo a te, alla tua giornata a scuola. Spesso quando siamo insieme ci raccontiamo di scambiarci. Io vado a scuola per te e tu vieni a lavoro per me. Quando facciamo questo gioco tu mi interroghi sulle cose che dovrò vivere nella mia giornata al tuo posto, così so per certo ogni cosa che accade dal momento in cui in cui ti lascio. Nella mia giornata al tuo posto so dunque che dovrò affrontare una piccola ricreazione, prima che arrivi la maestra, poi l’appello, delle spiegazioni, un’altra ricreazione (un po’ più lunga) insieme a una merenda, altra spiegazione o esercizi in classe, mensa, piccola ricreazione, esercizi e poi attesa dell’uscita. Quando invece ti chiedo “e tu al mio lavoro cosa farai?”, tu mi rispondi che preparerai dei caffè (quanti? Per chi? Non si sa. È solo che ti piace usare la macchina Nespresso del mio ufficio), poi ti siederai alla mia scrivania e stamperai dei disegni da colorare. Il mio lavoro è dunque questo per te: fare caffè e stampare disegni. Non male.

Ora sono a lavoro davvero, mentre tu avrai superato l’appello e sarai nel mezzo della prima spiegazione del mattino. Mi perdo un po’ a pensarti, seduta nel tuo banco, illuminata di traverso dalla luce calda di questo sole d’inverno. Guardi la maestra attentissima a non perdere una parola. Io il caffè non me lo sono fatto, invece. Avevo finito le cialde e sono allora andato a prendermi un cappuccino al distributore automatico. Ho preso anche una Kinder Delice (e sì, lo so che non avrei dovuto e so anche che stando ai nostri accordi, se prendo una schifezza per me la devo prendere anche per te. Ti devo quindi una Kinder Delice). Sono poi arrivato in ufficio, ho acceso il computer e mentre cominciavo a scrivere questa lettera ho messo Coez su Spotify. Dovrei cominciare a lavorare un po’, non mi va. Quasi quasi mi metto a cercare qualche disegno da colorare su internet.