Tempo d’estate

È stata dura tornare qui. È dura ogni volta che ci allontaniamo dai buoni propositi tornare a occuparcene. Un attimo soltanto. Una settimana. Un mese. Per sempre. Da una parte l’obbligo, dall’altra la fatica di rispettarlo. La pigrizia che fa della costanza brandelli di foglie secche al vento. 

“Come stai, amore?”, ti chiedo ogni tanto. Lo chiedo anche a Agata. Entrambe rispondete tra il sorpreso e il divertito “bene!”. Io capisco dentro l’intervallo impercettibile tra le due sillabe il vostro stato d’animo. Vi chiamo. Tirandovi la mano per tenervi salde nello stesso posto. Provare finalmente a parlarvi. Agata non ce la fa proprio a rilassarsi. Respira, ti guarda fisso in faccia, guarda pure me. Dice “allora?”. Tu stai zitta. Entrambe vorreste che fossi io a tirarci fuori dal pasticcio nel quale siamo. Non so dove guardare. Se guardo te faccio un torto a lei, se guardo lei, lo faccio a te. Mi divido lo sguardo, ma finisco per guardare a terra o da un’altra parte. Poi interrompo il silenzio e dico solo “vorrei che riuscissimo a star bene, tutti e tre insieme”. Vorrei, ci penso immediatamente, suona strano. Sembra quasi riconoscere l’impossibilità di ciò che viene dopo. Allora continuo sovrastando il sospiro di Agata. Ti guardo e finalmente abdico. “Amore io e Agata vogliamo che tu sia felice, non c’è felicità possibile se tu non stai bene”. Guardo Agata che sembra lontana e rassegnata e dico anche a lei che la sua felicità è il mio bisogno più grande e chiedo a te di rispettarla e contribuire a preservarla, perché nella felicità di Agata c’è anche la mia.

Finiamo per andarcene, perché la tua compagna di classe e suo padre ci aspettano al museo. Agata rimane dentro la porta, sguardo basso e un macigno nel petto. Io e te saliamo in ascensore e tu non sai come chiedermi cosa sia quella cosa che è successa. E in realtà faccio fatica anch’io a decifrarla. Rimaniamo sospesi nel silenzio per 7 piani. Poi tu trovi le parole per chiedermi se abbiamo litigato. Ti chiedo chi. Io, tu, Agata, rispondi. Ti dico di no, non abbiamo litigato. Abbiamo invece fatto una cosa grande. Ci siamo parlati, abbiamo provato per la prima volta a salire su quell’elefante indiano che sostava in mezzo al soggiorno da due anni. Ma l’elefante è gigantesco e noi non siamo bravi addomesticatori. Eppure avere anche solo capito che il pachiderma si stava prendendo tutto il nostro spazio è una rivoluzione. 

Ho una sola missione nella vita: far sentire al sicuro te e lei. Inevitabilmente però se costruisco un rifugio intorno a te, Agata ha l’impressione che per farlo rubi pezzi al rifugio che avevo cominciato  intorno a lei. E così fai anche tu, quando vedi che inchiodo un’altra asse nella parete del suo riparo. 
La soluzione sembrerebbe facile e rassicurante: unire i due ripari e farne uno solo nel quale stare tutti e tre. Convincere entrambe che ciò sia possibile, è complicato come può essere stato per Fermi dividere l’atomo. Io però mi ostino a sistemare assi, chiodi, malta e isolanti da una parte perché ho visto le carte segrete di questo progetto e lo conosco per quello che è: una villetta con l’affaccio al mare e il giardino florido dove ci sono piante e fiori per ogni stagione. Puntualmente però tu mi nascondi i chiodi, proprio quando mi servono. Oppure Agata guarda quel pezzetto di costruzione che ho tirato su e con la faccia schifata mi dice “è sbilenco!”. Altre volte invece vi trovo entrambe indaffarate a sistemare assi e montanti e mentre ridete e vi prendete in giro tiriamo su le pareti di un’intera stanza. 
Perché la verità è che questa casa somiglia molto alla vita: a volte è semplicissima e siamo come Forrest Gump mentre tutto gli è facile. Altre volte però pare di stare in mezzo all’oceano col motore della barca rotta e siamo improvvisamente in All is lost. 
Eppure pezzo dopo pezzo questa casa la stiamo tirando su, anche se certe volte né tu né lei riuscite a vedere nemmeno il terreno sul quale sta crescendo. Ed è robusta perché ha le fondamenta fatte di consapevolezza, i muri d’amore e il tetto d’accettazione. Ci abbiamo messo quasi un anno a fare le fondamenta; nel frattempo però stavamo già costruendo i muri e ora è tempo di darle un tetto. 
E il materiale di questo tetto è un materiale speciale, che può produrre ognuno di noi col suo impegno e la sua fede. Alcune tegole sono fatte di una monetina che cade varie volte sul pavimento e del sorriso che riconosce in esse il gioco di un bambino.  Altre hanno la forma di una porta chiusa, di noi due che parliamo a bassa voce, del bisogno di una figlia di sentire che suo padre sarà sempre solo per lei. Ma ci sono anche tegole fatte di caccole appallottolate e poggiate sul comodino dal mio lato del letto. Altre ancora, infine, hanno forma, peso e colore identico a tegole lasciate nel passato. Misurarle, soppesarle, confrontarle e sistemarle in un incastro geometrico perfetto è una cosa che potete fare solo voi due insieme.
È possibile che ci saranno tegole che sembreranno sempre dissonanti in questa trama: quelle desaturate dei baci e degli abbracci non dati e quelle degli abbracci e dei baci ostentati e rinnovati. Forse però capire che un bacio dato ferisce quanto uno non ricevuto, può aiutare a riequilibrare e ridistribuire queste tegole o troppo colorate o troppo grigie.

Quando sei partita per il tuo primo weekend scout eri terrorizzata dal non riuscire a dormire fuori casa. Io ti ho rassicurato come potevo, ti ho accompagnato fin lì e in un attimo in cui siamo rimasti soli, ho preso il portachiavi con l’omino che ho sempre attaccato al mazzo di casa e te l’ho dato. Ti ho detto “è il mio portafortuna”. Tu mi hai chiesto da quanto lo avevo e perché fosse fortunato. Ti ho detto soltanto che da quando lo porto in tasca la mia vita è cambiata. Non ti ho detto però, per non ferirti, che ce l’ho dal giorno in cui io e tua madre ci siamo lasciati. Solo da allora ho scoperto quanto amore potevi darmi e quanto potevo darne io a te. È sbocciata, cresciuta e divenuta forte la nostra unione. E poi è arrivata Agata e sono nato un’altra volta. 
Tu te lo sei ficcato in tasca e mi hai detto grazie. 
Quando il giorno dopo siamo venuti a prenderti, eri stravolta e felice. Eri anche più grande e matura. Mi hai ridato il portachiavi e confessato che ti aveva portato fortuna. Ho sussurrato “sono molto fiero di te” e tu hai risposto “anche io lo sono di te, perché sei riuscito a dormire lontano da me questa notte”. Ho pensato a quanto grande fossi diventata e ho continuato a rifletterci per giorni interi. Alla fine ho capito che è questa l’accettazione di cui è fatto il tetto. L’accettazione complicata e lenta ma anche forte e duratura che l’amore per l’altro esiste e prescinde dal nostro e non gli toglie niente.

Insieme

Crederai al destino quando sarai grande? Amerai sorprenderti davanti alle piccole gigantesche coincidenze tra le quali inciamperai oppure passerai oltre senza dare alcun peso a quel pensiero che ti racconterà di un destino al quale tutti siamo soggetti?
Alcune volte ho pensato di averla scampata grossa, essere arrivato su un burrone spaventoso e rimanere fermo senza alcuna possibilità di scelta. Chi mi ha tenuto sopra la terraferma? Chi ha stabilito che l’ultimo granello di terra sdrucciola che teneva ancorato il mio piede in bilico non doveva cedere? Quando ero piccolo e cadevo non facendomi niente, mia nonna diceva che c’aveva messo il cuscino la Madonna. Non è un modo come un altro per dire che in quel momento la nostra volontà di resistere, restare, vivere, non ha alcun potere, semplicemente non conta? 

Sta arrivando di nuovo Natale. Un Natale strano ma così solito e consueto nelle sue poche certezze. Tu hai chiesto a Babbo Natale di rendere possibile la settimana natalizia che trascorriamo sempre dai tuoi nonni. Dentro di te sai per certo che non sarà possibile, per lo meno per il momento. E sai che servirebbe un miracolo e l’unico che può realizzare i miracoli dentro il tuo mondo è proprio Babbo Natale. Eppure qualcosa di straordinario succede. Succede ogni giorno.  Succede, per dire, che Agata rimane a Roma per starci accanto, rinunciano a qualcosa che ha visto riproporsi e amare ognuno dei suoi anni effettivi e degli altri dieci che sostiene di avere. Succede che io mi ripeto le quattro cose che so e provo a organizzare i giorni di festa per far stare bene tutti e tre. Succede che probabilmente, senza che io, te o lei, sappiamo come, il destino ci accompagna verso una normalità che diventa nostra.

Dentro ogni tuo singolo respiro osservo in silenzio e di nascosto quanto stai crescendo. E un po’ mi spaventa saperti timida e introversa e mi consola vederti caparbia e a volte cocciuta fino allo sfinimento. I tuoi progressi nella ricerca del tuo io, mi sorprendono fino alle lacrime. Perché tuo padre è il tuo tifoso più sfegatato e vede un gol pazzesco in ogni pensiero sotteso sul filo tirato tra l’attimo in cui hai pensato vorrei e quello in cui è diventato faccio. 
A volte vorremmo che la vita fosse prevedibile. Prevedibile come l’aprirsi o il chiudersi della porta del bagno accanto, quando tu sei nell’altro e hai appena fatto una puzzetta; come lo scaldabagno spento quando sei già nudo e sotto la doccia; come Una poltrona per due la vigilia di Natale. 
Nel mio destino era scrittodovessi averti, era scritto che io e te dovessimo diventare padre e figlia, che avremmo dovuto affrontare le asperità davanti alle quali la vita ci avrebbe messo, a volte vincere, altre perdere miseramente, qualche volta soffrire, tante altre gioire, sempre e comunque insieme. E insieme mi pare la parte più potente del nostro destino comune. La parte più preziosa e luminosa, ciò che mi dà la dimensione esatta del significato dell’essere qui e adesso.

Buon Natale, amore mio.