Tempo d’estate

È stata dura tornare qui. È dura ogni volta che ci allontaniamo dai buoni propositi tornare a occuparcene. Un attimo soltanto. Una settimana. Un mese. Per sempre. Da una parte l’obbligo, dall’altra la fatica di rispettarlo. La pigrizia che fa della costanza brandelli di foglie secche al vento. 

“Come stai, amore?”, ti chiedo ogni tanto. Lo chiedo anche a Agata. Entrambe rispondete tra il sorpreso e il divertito “bene!”. Io capisco dentro l’intervallo impercettibile tra le due sillabe il vostro stato d’animo. Vi chiamo. Tirandovi la mano per tenervi salde nello stesso posto. Provare finalmente a parlarvi. Agata non ce la fa proprio a rilassarsi. Respira, ti guarda fisso in faccia, guarda pure me. Dice “allora?”. Tu stai zitta. Entrambe vorreste che fossi io a tirarci fuori dal pasticcio nel quale siamo. Non so dove guardare. Se guardo te faccio un torto a lei, se guardo lei, lo faccio a te. Mi divido lo sguardo, ma finisco per guardare a terra o da un’altra parte. Poi interrompo il silenzio e dico solo “vorrei che riuscissimo a star bene, tutti e tre insieme”. Vorrei, ci penso immediatamente, suona strano. Sembra quasi riconoscere l’impossibilità di ciò che viene dopo. Allora continuo sovrastando il sospiro di Agata. Ti guardo e finalmente abdico. “Amore io e Agata vogliamo che tu sia felice, non c’è felicità possibile se tu non stai bene”. Guardo Agata che sembra lontana e rassegnata e dico anche a lei che la sua felicità è il mio bisogno più grande e chiedo a te di rispettarla e contribuire a preservarla, perché nella felicità di Agata c’è anche la mia.

Finiamo per andarcene, perché la tua compagna di classe e suo padre ci aspettano al museo. Agata rimane dentro la porta, sguardo basso e un macigno nel petto. Io e te saliamo in ascensore e tu non sai come chiedermi cosa sia quella cosa che è successa. E in realtà faccio fatica anch’io a decifrarla. Rimaniamo sospesi nel silenzio per 7 piani. Poi tu trovi le parole per chiedermi se abbiamo litigato. Ti chiedo chi. Io, tu, Agata, rispondi. Ti dico di no, non abbiamo litigato. Abbiamo invece fatto una cosa grande. Ci siamo parlati, abbiamo provato per la prima volta a salire su quell’elefante indiano che sostava in mezzo al soggiorno da due anni. Ma l’elefante è gigantesco e noi non siamo bravi addomesticatori. Eppure avere anche solo capito che il pachiderma si stava prendendo tutto il nostro spazio è una rivoluzione. 

Ho una sola missione nella vita: far sentire al sicuro te e lei. Inevitabilmente però se costruisco un rifugio intorno a te, Agata ha l’impressione che per farlo rubi pezzi al rifugio che avevo cominciato  intorno a lei. E così fai anche tu, quando vedi che inchiodo un’altra asse nella parete del suo riparo. 
La soluzione sembrerebbe facile e rassicurante: unire i due ripari e farne uno solo nel quale stare tutti e tre. Convincere entrambe che ciò sia possibile, è complicato come può essere stato per Fermi dividere l’atomo. Io però mi ostino a sistemare assi, chiodi, malta e isolanti da una parte perché ho visto le carte segrete di questo progetto e lo conosco per quello che è: una villetta con l’affaccio al mare e il giardino florido dove ci sono piante e fiori per ogni stagione. Puntualmente però tu mi nascondi i chiodi, proprio quando mi servono. Oppure Agata guarda quel pezzetto di costruzione che ho tirato su e con la faccia schifata mi dice “è sbilenco!”. Altre volte invece vi trovo entrambe indaffarate a sistemare assi e montanti e mentre ridete e vi prendete in giro tiriamo su le pareti di un’intera stanza. 
Perché la verità è che questa casa somiglia molto alla vita: a volte è semplicissima e siamo come Forrest Gump mentre tutto gli è facile. Altre volte però pare di stare in mezzo all’oceano col motore della barca rotta e siamo improvvisamente in All is lost. 
Eppure pezzo dopo pezzo questa casa la stiamo tirando su, anche se certe volte né tu né lei riuscite a vedere nemmeno il terreno sul quale sta crescendo. Ed è robusta perché ha le fondamenta fatte di consapevolezza, i muri d’amore e il tetto d’accettazione. Ci abbiamo messo quasi un anno a fare le fondamenta; nel frattempo però stavamo già costruendo i muri e ora è tempo di darle un tetto. 
E il materiale di questo tetto è un materiale speciale, che può produrre ognuno di noi col suo impegno e la sua fede. Alcune tegole sono fatte di una monetina che cade varie volte sul pavimento e del sorriso che riconosce in esse il gioco di un bambino.  Altre hanno la forma di una porta chiusa, di noi due che parliamo a bassa voce, del bisogno di una figlia di sentire che suo padre sarà sempre solo per lei. Ma ci sono anche tegole fatte di caccole appallottolate e poggiate sul comodino dal mio lato del letto. Altre ancora, infine, hanno forma, peso e colore identico a tegole lasciate nel passato. Misurarle, soppesarle, confrontarle e sistemarle in un incastro geometrico perfetto è una cosa che potete fare solo voi due insieme.
È possibile che ci saranno tegole che sembreranno sempre dissonanti in questa trama: quelle desaturate dei baci e degli abbracci non dati e quelle degli abbracci e dei baci ostentati e rinnovati. Forse però capire che un bacio dato ferisce quanto uno non ricevuto, può aiutare a riequilibrare e ridistribuire queste tegole o troppo colorate o troppo grigie.

Quando sei partita per il tuo primo weekend scout eri terrorizzata dal non riuscire a dormire fuori casa. Io ti ho rassicurato come potevo, ti ho accompagnato fin lì e in un attimo in cui siamo rimasti soli, ho preso il portachiavi con l’omino che ho sempre attaccato al mazzo di casa e te l’ho dato. Ti ho detto “è il mio portafortuna”. Tu mi hai chiesto da quanto lo avevo e perché fosse fortunato. Ti ho detto soltanto che da quando lo porto in tasca la mia vita è cambiata. Non ti ho detto però, per non ferirti, che ce l’ho dal giorno in cui io e tua madre ci siamo lasciati. Solo da allora ho scoperto quanto amore potevi darmi e quanto potevo darne io a te. È sbocciata, cresciuta e divenuta forte la nostra unione. E poi è arrivata Agata e sono nato un’altra volta. 
Tu te lo sei ficcato in tasca e mi hai detto grazie. 
Quando il giorno dopo siamo venuti a prenderti, eri stravolta e felice. Eri anche più grande e matura. Mi hai ridato il portachiavi e confessato che ti aveva portato fortuna. Ho sussurrato “sono molto fiero di te” e tu hai risposto “anche io lo sono di te, perché sei riuscito a dormire lontano da me questa notte”. Ho pensato a quanto grande fossi diventata e ho continuato a rifletterci per giorni interi. Alla fine ho capito che è questa l’accettazione di cui è fatto il tetto. L’accettazione complicata e lenta ma anche forte e duratura che l’amore per l’altro esiste e prescinde dal nostro e non gli toglie niente.

L’estate addosso

È un periodo complicato, vero amore? Hai voluto sapere di più su me e Agata e io, nella mia maniera strampalata, forse anche arrangiata, ti ho detto quello che sentivo. E mentre dicevi “non voglio” capivo che entrambi in quel momento stavamo crescendo. Non è questo il punto di arrivo di una cosa cominciata tanto tempo fa? 
Non c’era tensione nelle parole che sceglievo mentre la mia bocca te le rivolgeva. Non c’era ansia, né paura. Ma soltanto la voglia di aprirti la porta di una stanza dentro la quale non sopportavo non fossi ancora entrata. Per lo meno, non fossimo ancora entrati insieme.
La tua compagna di classe racconta dall’inizio della scuola di avere un ragazzo. Dice che è più grande di voi, che frequenta un’altra scuola e che mentre siete a mensa, qualche volta, vi spia dalla finestra. Questo gli permette di conoscervi ad uno ad uno. Subito la tua classe si è divisa tra chi crede alla storia del fidanzato e chi non ci crede. Tu stai nel mezzo. Un po’ perché non riesci a mettere davvero a fuoco una cosa che non vedi e che di per sé ha tanti elementi che non ti tornano (ma se questo bambino va a scuola allora come può vederci dalla finestra mentre siamo a mensa?). Dall’altra però c’è la fiducia cieca che riponi nelle tue amiche, nelle persone, nel mondo in generale e che semplicemente ti impone di credere.

Di base, volevi sapere cosa significasse davvero innamorarsi. E allora senza essermelo mai preparato mi sono trovato a raccontarti qualcosa che non sapevo nemmeno di sapere. Ti ho detto che l’amore è qualcosa che riguarda chiunque, senza età e senza filtri e nasce come un fiore selvatico, senza seme, in posti dove non avresti mai creduto potesse nascere qualcosa. D’improvviso c’è e quel fiore cresce e vive alimentandosi della sua stessa e sola vita. Succede alle persone. Si vedono un giorno, poi un altro giorno, e nasce in ognuno dei due una specie di curiosità. “Wow anche a te piace il fegato alla piastra?”, “ma davvero tifi per la Roma?”, “Oddio è incredibile che anche a te faccia schifo il cocomero”. Cose così, forse banali. Poi questa scoperta diventa voglia, quasi frenesia di far sapere all’altro quali sono le cose che a te piacciono: “devi assolutamente vedere A proposito di Davis!”, “ti è piaciuto?”, “Sì, ti prego vediamo insieme I ponti di Madison County”. E ti rendi conto che quell’emozione che tu provi è la stessa che prova l’altro nel farti entrare nel suo mondo, mentre prende confidenza col tuo. E improvvisamente, senza che tu abbia capito come, hai voglia di sapere tutto dell’altro e senti quasi l’angoscia, un’angoscia piacevole e totalizzante, di raccontare ogni cosa di te. E vorresti che vedesse ogni posto che hai visto e incontrasse ogni persona che conosci, e mangiasse e bevesse ogni cosa che hai mangiato e bevuto da quando sei nato. E capisci che ogni singolo atomo che riempie la tua vita ora riguarda anche lui e anche il minimo sussurro della sua è indelebilmente tuo. E ogni minuto che passi con lui è uguale al più bel giorno d’estate che tu abbia mai vissuto. Ecco, ti ho detto, succede una cosa così. E quando due persone si incontrano e scoprono che tutto questo è vero per entrambi, allora quel fiore selvatico è già nato e se ne sta al sole a riempirsi di linfa vitale e beatitudine. 

Tu sei rimasta zitta a metà tra il divertito e il sorpreso. Anche se dentro probabilmente hai avuto paura. Paura che tutto questo possa toglierti ciò che è tuo, tuo e basta, tuo e di nessun altro. E io l’ho capito, abdicando alle convinzioni che tutto possa essere facile e lineare. Perché di facile e lineare nella vita non c’è niente. Ma allo stesso tempo so – lo so per certo – che l’amore potrà convincerti che tuo padre ci sarà sempre e ti amerà ovunque e comunque con la stessa forza del primo giorno. Perché l’amore smuove le montagne e trasforma il deserto in aiuole fiorite. Non aver paura, amore mio. Perché dove c’è bene non può esserci male e l’amore non si può dividere ma soltanto moltiplicare.    

La fine dell’estate

Ti verso ancora l’acqua nel bicchiere e i pomeriggi con te sono tutto un coro di “papi ho sete”, “papi mi dai l’acqua”.  Non ci avevo mai fatto caso. Nel senso che non avevo mai collegato questa formula ai tuoi otto anni e mezzo, pensando a quando o come fosse ancora naturale versarti l’acqua. Rispondo a una domanda “ho sete” e trovo una soluzione “ecco l’acqua”. E se ti facessi però male così?
Non succede mai veramente di ricordare chi siamo stati in una dimensione spazio temporale più o meno esatta. Così, raramente capita di avere un ricordo e saperlo collocare nel tempo giusto che l’ha visto svolgersi. Cosa facevo alla tua età? Cosa pensavo? Cosa sapevo fare? Certamente ero un bambino molto solo. Nonostante avessi un fratello più o meno coetaneo, non eravamo molto uniti, anzi spesso ce ne stavamo ognuno per fatti suoi, a cercare di riempire le giornate ritagliandole intorno a una noia che era l’unica vera cosa che condividevamo. 
I nostri genitori erano impegnati in altro. Io e lui, pochi giochi e istinti completamente diversi. Lui correre, saltare, fisico e fiato. Io solo testa: intagliavo dentro alla fantasia favole, costruzioni, progetti, invenzioni che rimanevano solitamente una nuvola già evaporata al mattino dopo. Ricordo però chiaramente quando nacque nostra sorella e questo mi permette di avere un’idea precisissima dell’età che avevo, e avevo l’età che hai tu adesso. Ricordo quel primo anno che i nonni passarono a fare avanti e dietro dall’ospedale per capire cosa avesse questa bambina che non voleva crescere. E poi il sollievo, l’ambientamento, la familiarità di tutti i giorni.
Sai che le cambiavo il pannolino? Da solo, la prendevo in braccio, la mettevo sul letto e la cambiavo. Le davo da mangiare e quando si svegliava ed era sola nella sua culletta, andavo a farle compagnia e qualche volta, solo qualche volta, quando i tuoi nonni erano distratti, andavo da lei anche se non era sveglia e la prendevo lo stesso in braccio e la cullavo lentamente.
Può fare tutte queste cose un bambino di 9 anni e non puoi farle tu che sei capace di cose straordinarie? 

È strano però come tutte queste cose siano sempre state sotto i miei occhi e io non le abbia mai viste. Fa impressione pensarci adesso che ho finalmente gli occhi aperti e vedo il mondo attorno nitido com’è. Forse a volte sono come Rocky con gli occhi completamente chiusi, incapace di inquadrare il ring. E Agata è il mio Micky al quale imploro di aprirmi gli occhi per tornare lì su a fare la mia parte. Lei mi guarda ed è incredula che io possa esser ridotto così e ha la tentazione, la voglia – lo dice pure, in realtà – di lasciar perdere, ché è finita, non ne vale più la pena, sono messo troppo male. Però poi alla fine afferra una lametta e mi incide la parte sopra l’occhio, uno spruzzo di sangue mi ricopre la faccia, mi passa un panno per asciugarmi e finalmente riguardo il mondo e sono il campione che nessuno aveva mai visto, quello che ritorna sul ring e strapazza Apollo. E non è così che faccio anche con lei? Recidivo combatto una battaglia nella quale incasso solamente colpi e i colpi non vengono dal niente, sono tutti i miei sbagli, le cose che non vedo, gli occhi che non proteggo e mi si gonfiano fino a farmi non vedere più. Non sapevo già tutto dall’inizio? Eppure mi lascio andare e inevitabilmente sbaglio fino al momento in cui capisco. E lì, in quel momento, mi sento come il personaggio di Cechov: all’improvviso tutto gli fu chiaro

Non ti darò più l’acqua. È una promessa non una minaccia. Puoi prendertela da sola e se rompi un bicchiere non sarà un gran danno ché ne rompo già di mio tanti senza consumare tragedie. E smetterò lentamente di fare tante altre cose per te. Non perché non ti voglia più bene ma proprio perché te ne voglio da impazzire. E sai un’altra cosa? Quella crostata che diciamo ogni volta di fare insieme e poi finisco a fare quasi completamente io mentre tu ti limiti a rubare pezzetti d’impasto di nascosto, la prossima volta te la lascio fare da sola. Questa è la ricetta, lì la dispensa con le cose che servono. Divertiti! E se casca un po’ di farina per terra non aver paura: c’è il Dyson (che ovviamente puoi usare da sola). Ad Agata non lascerò preparare crostate ché in questo è già un fenomeno indiscusso. A lei lascerò viver la vita che desidera, standole accanto e riempiendo ogni ansa del suo fiume con il mio, fino a farli diventare paralleli e indissolubili. E per ogni sasso, ogni dosso o collinetta, stringerò i denti e ci andrò contro con tutta la forza che non so di avere. 

Tutto tu vuoi

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo. Forse lo sei davvero. Questa bambina si chiama Ah. 
Proprio così, Ah. Come uno sbadiglio, come la prima nota di una risata, come dire “ho capito”. È un nome tra i sogni, la felicità e l’intelligenza. Secondo me è un nome bellissimo, e se fossi stato meno tradizionalista, se avessi avuto meno anni, idee più folli e l’ardire di seguirle, se tua madre non avesse saputo da sempre il tuo nome, adesso anche tu potresti chiamarti così.

Ah è nata in un giorno di pioggia sottilissima, aghi d’acqua tanto fini e innocui che non riuscivano a bagnare nessuno. Quel giorno il sole è sorto alle cinque e quarantasette minuti e tramontato inspiegabilmente due ore più tardi rispetto a quanto riportava l’almanacco. In quelle due ore Ah è rimasta quasi immobile nella sua culla, la sua mamma guardava oltre la finestra aspettando che la luce calasse, il suo papà guardava il suo cuore ormai perso, addormentato nel piccolissimo torace di Ah. Anch’io ho fatto questo nel tuo primo giorno di vita; guardavo te, instancabilmente, e guardavo il mio cuore scindersi come un atomo, diventare tuo, e crescere crescere. Crescere.
Ah non ha un’età precisa. Non è possibile stabilire quanti anni siano trascorsi dalla sua nascita. Fino al suo terzo compleanno ci sono state torte con candeline rosa, poi non più. Poi i pensieri e le parole di Ah hanno cominciato a evolversi in maniera spropositata, non appartenevano più a quelli di una bambina della sua età, non potevano essere contenuti in un numero. Cinque, sei, sette anni, nessuna di queste lancette le apparteneva. Tutto ciò che faceva era così stupefacente da non poter essere misurato, controllato. Il tempo non era più necessario. Lei ragionava con la saggezza di ottanta lune, comprendeva ciò che ai bambini viene celato, per proteggerli, si dice serva a proteggerli. Osservava apparentemente indifferente comportamenti che sarebbe stata presto in grado di ripetere con la precisione di un liutaio. Imparava termini mai usati da nessuno, disegnava mondi sconosciuti, abitati dalle persone a cui voleva bene. Disegnava enormi barche di zucchero e tendoni del circo in fiera nel cortile della sua casa. Al timone suo padre. Sul filo, sospeso tra una nuvola e una stella a trenta punte, suo padre. Marinaio ed equilibrista. E medico, dottore di tutte le malattie curabili con le caramelle. 
Ecco, queste cose possono sembrare sciocche. Ecco, non lo sono. Queste cose sono le stesse che fai tu, e credo le stesse che faccia ogni bambino del mondo, ma tu le fai meglio. Ogni bambino le fa meglio. 
Ogni bambino dal niente genera mondi irrazionali, eppure di quei mondi sa dire, raccontare, spiegare, con una logica convincente al punto da lasciare senza fiato il più illustre rettore universitario. Ogni bambino ha fermato il tempo il giorno in cui è nato. Tutti i bambini hanno rallentato la rotazione terrestre consentendo al sole di splendere più a lungo. È da qui che nasce l’espressione venire alla luce, non si tratta solo della luce fuori dal pancione delle loro mamme, è una luce speciale, un bacio dal cielo alla culla, lungo il tempo che serve a capacitarsi di quanto possa essere eccezionale il miracolo che avviene da sempre, eppure non riesce a perdere neanche una sfumatura d’ombra dello stupore che si trascina dietro a ogni respiro, passo, gesto.

Ti racconto questa cosa. Ah un giorno era a casa, era pomeriggio, sua madre le stava preparando il pane con la confettura di albicocche, le piacciono molto le albicocche. Suo padre non stava bene: solo un po’ di febbre, qualche starnuto. Ad Ah era stato detto di non avvicinarsi a lui, avrebbe potuto ammalarsi. Camminava appena, instabile, i passi strani dei cuccioli, che sollevano troppo le ginocchia e sembrano avanzare come muovendosi nel cerchio di una danza africana. Con quei passi è andata verso la stanza del suo papà, sua madre a rincorrerla per portarla indietro, invece non ce n’è stato bisogno. Ah si è fermata davanti alla porta, l’orecchio teso fino all’istante in cui un colpo di tosse è riuscito a sovrastare il volume basso della televisione, allora si è voltata, “tosse”, ha detto, l’espressione vagamente contrita andava trasformandosi in sollievo. “Tosse solo”, ha pronunciato queste due parole come a stabilire che era tutto a posto, tornando in cucina e sedendosi sullo sgabello, finalmente serena. Non so cosa siano le malattie per i bambini, un pericolo suppongo, intuiscono l’ipotesi degenerativa che si cela dietro quel termine, quella condizione. So che la premura e la dolcezza di Ah, che senza entrare, senza disturbare, si accerta che il suo papà sia malato ma ci sia, che stia bene in fondo, che la sua sia solo tosse, per me è una cosa così grande, dolce, così piena di protezione, interesse, e potrei andare avanti e riempire pagine di aggettivi, ma non lo farò. Dirò solo che per me sei tu, i tuoi baci piccolissimi, infiniti, pronti, come urgentissimi. La tua capacità d’intuire, sapere qual è il momento in cui quei baci mi servono davvero, e mi servono così tanto che non ricordo più di che colore fosse il mare, che sapore avessero le arance prima dei tuoi baci. 

Lascia che ti racconti ancora qualcosa. Ah ogni tanto canta qualche strofa della canzone preferita di suo padre, anche tu lo fai. È normale, va bene, facciamo finta che sia normale, ma non lo è. Ti piacciono canzoni diverse da quelle che ascolto io, eppure di tanto in tanto mi concedi di ascoltare dalla tua voce, che lo sai, è la mia voce preferita in assoluto, la versione live della colonna sonora di un pezzetto della mia vita. Non è normale quello che mi succede, non è normale come mi sento, dura un istante, un momento di comunione tra te, me e chi sono stato prima ancora che tu esistessi. Quell’istante non è normale.
Ah ha i suoi gusti, oltre alle albicocche le piacciono molto il cioccolato e la polenta che fa sua nonna in inverno, che è anche il piatto preferito di suo padre. Tu hai i tuoi gusti, ti piacciono le patatine e il gelato, non ti piace il cocomero. Allora, il cocomero piace a tutti. A tutti. È grande, tondo come un pallone da spiaggia, verde come una zebra se le zebre facessero la fotosintesi, e poi è rosso, dentro è sorprendentemente rosso, questo basta a renderlo fantastico. Poi c’è il fatto che il cocomero non lo trovi dal fruttivendolo tutti i giorni, come le carote, no, devi aspettare l’estate, il caldo, la fine della scuola, allora il cocomero diventa prezioso e spensierato, freschezza dopo tanto sudare. Il cocomero piace a tutti, per forza. Ma a te no. E neanche a me. Capisci? Vogliamo tornare a dire che è normale anche questo? Va bene. È normale. È normale solo se non sei un padre però. Altrimenti è magia, è qualcosa di mio che è cresciuto dentro te, qualcosa che non potevo immaginare fino al giorno in cui hai rifiutato quella fetta rossa e hai fatto la stessa faccia che credo di aver fatto io la prima volta in cui qualcuno mi ha messo davanti un cocomero dicendomi di assaggiarlo. Dicendomi che era buono, troppo buono.

Ah, e questo non è il nome di quella bambina. Ah adesso è il mio sbadiglio, il prologo di ogni volta che sogno di averti con me, è la prima nota della mia risata quando mi rendo conto che non ho bisogno di sognare, tu ci sei. 
È la parte più vera di me che comprende quanto meravigliosa sia la vita. Ah, ho capito. È questo il senso di tutto.
La tua vita, e la mia dentro la tua.

Piangi Roma

A Roma fa caldo e la notte si fa fatica a dormire. Per me che tengo le imposte della finestra chiuse è anche peggio. Ho paura che entri un geco in casa e la paura vince sul caldo e il bisogno di areazione. Non so se tu riesci a percepirla. Ogni tanto, quando siamo per strada di sera, ti indico un geco sulle pareti dei palazzi e ti dico “guarda!”. Lo dico forse più a me che a te, per sembrarti coraggioso e senza paura. Tu osservi la bestia ma non ti avvicini mai. A volte dici “che schifo!”, qualche altra “come è ciccione”, ma non ho ancora capito se ti terrorizzano come terrorizzano me oppure se tutto sommato ti lasciano indifferente. Una delle ultime imprese compiute in casa vostra fu proprio catturare un geco che si era intrufolato in casa. Tua madre, che ne ha un timore forse anche superiore al mio, lo vide attraversare la parete dietro alla televisione. Tu eri già a letto che dormivi. Io non lo vidi e provai a rassicurarla, convincendola che l’aveva sognato. Quando però lo vidi anch’io fu il panico. Due adulti che saltano sul divano per paura di una creatura piccola e innocua però viscida e disgustosa. Il mio terrore principale è sempre stato trovarmelo nel letto, sentire le sue zampette da rettile che percorrono le mie gambe, fino a infilarsi sotto la t-shirt e poi chissà salirmi sul viso.

Passai più di due ore con una scatola di scarpe vuota in mano, sentendomi Willy il coyote che tenta di catturare Beep-Beep che però è troppo veloce, furbo e praticamente imprendibile. Alla fine però riuscii a catturarlo, smontando mezza casa e incastrandolo su una parete del corridoio, dietro agli scaffali con i tuoi giocattoli. Queste cose non te le ho mai raccontate per non sembrarti debole e soprattutto per non trasmetterti paure. Nella mia mente ho sempre desiderato che tu diventassi una di quelle bambine che vanno a caccia di lucertole, le catturano a mani nude e le osservano da vicino con la perizia di uno zoologo. Naturalmente tu non diventerai mai ciò che io o qualcun altro sogniamo o abbiamo sognato. Per dire che ieri notte ero a letto che continuavo a rigirarmi per trovare una posizione per dormire ed ero forse in quello stadio in cui stai già dormendo ma sei ancora cosciente. Poi ad un tratto suona il telefono, mi alzo di scatto spaventato, lo afferro e leggo il nome di tua madre sullo schermo. Guardo l’ora: mezzanotte e mezza. Mi affretto a rispondere. Dall’altra parte del telefono sento solo silenzio. Ripeto “pronto”, poi il nome di tua madre, fino a quando sento la tua vocina dirmi “papà… mi manchi tanto”.

Tu e tua madre siete per qualche giorno in vacanza a Barcellona. Andate in giro, ogni tanto mi inviate foto in cui sembrate rilassate e divertite. C’eravamo già sentiti almeno due volte durante la giornata, mi avevi raccontato di aver visitato l’acquario, di un pesce che sembrava una conchiglia, del taxi, del caldo, del gelato spagnolo che è meno buono di quello di Roma. In nessuno di questi momenti mi eri sembrata triste o che stessi pensando a me. Eppure nel cuore della notte hai aperto gli occhi, afferrato il telefono di tua madre, chiesto a Siri di chiamarmi per dirmi che ti mancavo tanto e che non riuscivi a dormire, anche se sei partita solo da due giorni. Mi si è stretto il cuore e ho provato in tutti i modi a farti ridere, senza successo. Allora mi sono risdraiato a letto e ho cominciato a raccontarti di quanto manchi anche tu a me. Nel dormiveglia devo averti raccontato dei grandi esploratori, che sono uno dei miei cavalli di battaglia, del fatto che se non avessero afferrato a due mani il coraggio e affrontato la lontananza, non avrebbero fatto nessuna delle scoperte che hanno fatto e, insomma, di pensare che sto bene e sei sempre nei miei pensieri e che, a differenza dei grandi esploratori, tu puoi sempre prendere il telefono e chiamarmi o addirittura vedermi in videocall.  Devo averti tranquillizzata perché mi hai salutato come fai sempre quando mi saluti al telefono: dici “ok, ciao!” e attacchi senza aspettare il mio saluto di risposta. Ho appoggiato il telefono sul comodino. Il sonno era ormai passato. Ho allora afferrato il libro che ho accanto a letto e cominciato a leggere. È il libro che mi hai regalato per il mio compleanno, una graphic novel. Tua madre mi ha detto che lo hai scelto perché il tizio in copertina somigliava a me e la cosa assurda è che in ogni pagina che leggo mi ritrovo in maniera inquietante. Vado avanti per un po’ nella lettura, fino a quando volto pagina e trovo il tuo disegno piegato in due. Ci siamo io e te che ci teniamo per mano e sopra di noi campeggia un cuore giallo gigantesco che contiene la scritta “sei il papà migliore del mondo!”. Sorrido, mi commuovo un po’, penso ad alta voce: Tu sei la figlia migliore del mondo!