Una come te

Hai una capacità incredibile di contrastare l’ingiustizia. Una specie di piglio che non ti abbandona fino a quando non dimostri, rimanendo senza fiato, il torto che hai subito. Il fatto è che qualche volta questi torti non sono affatto torti ma semplici situazioni nelle quali ti trovi e credi di subire. Storie attraverso le quali ti contrapponi agli altri e ritieni di incassare anche lì dove non ci sono contrapposizioni. Imbarchi la rabbia che va a nozze col tuo orgoglio, e cominci un’arringa che usi come un grimaldello per forzare la serratura di chi ti sta di fronte. Ascolti, o fai finta di ascoltare, poi ritorni esattamente al punto di partenza, cominciando una nuova frase con “sì, però”. 
Mi fai un po’ ridere e allo stesso tempo arrabbiare. Provo con la pazienza di un bonzo a spiegarti che le cose non stanno esattamente come le hai viste tu, mi interrompi e ritorni sul punto ma se provo a interromperti io allora vuol dire che non ti ascolto e faccio il prepotente. Una partita a ping pong nella quale tu interpreti Forrest Gump e io me stesso (e anche nella vita reale non ho mai colpito più di tre volte consecutive la pallina che arrivava nella mia parte di campo).
È per questo che l’altro giorno ti ho detto per scherzare che quando sarai grande ti pagherò l’università solo per iscriverti a Giurisprudenza. Se non lo farai, ti ho detto, farai bene a cercarti un lavoro per pagarti gli studi. Tu hai riso probabilmente senza capire. Poi mi hai chiesto perché penso che dovresti diventare un avvocato da grande e ti ho risposto che solo gli avvocati si accaniscono così tanto nei confronti delle cause perse. Stavolta ho riso io e tu sei rimasta a riflettere guardando da una parte. La mia ansia è venuta in tuo soccorso e mi ha fatto dire che stavo scherzando e avrai il sacrosanto diritto di scegliere tutto ciò che vorrai, tranne sposare un laziale. Stavolta abbiamo riso entrambi.

La mia professoressa di matematica al liceo voleva mi iscrivessi a Matematica. Credo avrebbe accettato anche Ingegneria o Fisica. Quando, dopo l’esame di maturità, le dissi che mi sarei iscritto a Lettere mi guardò come fossi la pozzanghera d’olio di una bottiglia che ti è appena scivolata di mano schiantandosi sul pavimento. Disse “Perché sprecare una mente scientifica a Lettere?”.  Io sorrisi amaro e non risposi ma lasciai che quella domanda mi ossessionasse per tutta l’estate e usasse la mia mano per mettere una croce su una Facoltà scientifica al momento dell’iscrizione. Scelsi Informatica per far contenta lei, mio padre che voleva mi iscrivessi a Economia, me stesso a cui piacevano i computer. Nessuno dei tre in realtà trovò soddisfazione nella scelta fatta e dopo un anno in cui cercai disperatamente di capire cosa si studiasse nel Corso che avevo scelto, diedi un colpo di mano e tornai sulla scelta iniziale. Ma a quel punto era di nuovo tardi per tutto. Avevo perso un anno, la borsa di studio e pure un bel po’ di stima. Mi iscrissi sì a Lettere ma puntai verso l’ennesimo ripiego. Ero a Roma, capitale dell’archeologia mondiale. In questo vidi il prospero futuro lavorativo che mi avrebbe accolto dopo la laurea, soppiantando per sempre le ambizioni letterarie che mi avevano tenuto compagnia fin lì. Fu un errore naturalmente. Perché non servì molto tempo per capire che di archeologia, reperti e stratigrafia mi interessava ben poco. Ma stavolta era davvero troppo tardi per cambiare ancora e con un po’ d’ostinazione sono arrivato fino alla fine del percorso. 

Sai già che ti racconterò questa storia altre centotrentamila volte prima che ti iscriverai davvero all’università. Sempre che tu voglia fare l’università o che per allora esista ancora il mondo che conosciamo. Ma so che probabilmente anche allora non saprò rispondere alla domanda “quindi cosa avresti voluto fare?”, riempiendo la risposta di forse e ipotesi e voli di gallina su interessi  più o meno accattivanti. La verità è che c’è un mondo da scoprire ma quel mondo non è fuori ma dentro di te. Esplorarlo è il viaggio più misterioso e affascinante della vita. 

Ogni cosa che c’è

Quanta concentrazione ci metti per rendermi felice, quanta dedizione, quanto scrupolo, sentimento, attenzione, impegno, riflessione, amore? Spesso ti osservo senza sapere esattamente il carico di ansie e stress che ti porta tutto quel lavoro extra a cui ti dedichi per costruirmi una sorpresa, un segnale, un piccolo, a volte impercettibile eppure straordinario, regalo lasciato sopra la porta della mia stanza a dirmi “hey, io ci sono e ti amo!”.
Lascio che i giorni qualche volta prendano il sopravvento, si facciano lame che tagliano via attenzioni e osservazione. Rimango a guardare e lascio che la sedia liscia sopra la quale sono seduto diventi uno scivolo che mi trasporta lontano da te.

È successa la stessa cosa forse anche per il mio compleanno. Io me ne stavo beota a osservare i preparativi per la cena che tua nonna aveva organizzato e contemporaneamente ti vedevo sfrecciare per casa, ora con telefono in mano, ora con un foglio di appunti, poi ancora con uno da disegno. Di tanto in tanto ti fermavi vicino a me e mi dicevi di essere stanca ma eri felice. Sapevo, immaginavo, che insieme ad Agata stavate tramando qualcosa e ti lasciavo fare, tenendo chiusa in una scatola la curiosità che voleva ti facessi qualche domanda di troppo. E mentre tutto questo accadevo e costruiva un piano che ignoravo ancora, non devo essermi reso conto che il mio regalo era proprio lì davanti a me. Il mio regalo erano i tuoi passi scalzi da una stanza all’altra, ogni singola lettera o numero composto sullo schermo del telefono, ogni striscia di colore impressa su un foglio. E questo regalo è sempre qui, ce l’ho davanti persino adesso che me ne sto al computer a tentare di rimediare all’ennesima scadenza mancata e tu te ne stai tranquilla a dormire per concedermi qualche altro minuto per finire questa lettera. 

C’erano quaranta dolcetti sul tavolino basso di tua nonna quella sera. Quaranta dolcetti tipici che Agata aveva fatto arrivare grazie a un corriere e al tuo aiuto direttamente dal suo paese. Su ognuno avevi piazzato una candelina che mi hai rivelato di aver acceso personalmente. Erano ordinati in un rettangolo con 5 dolcetti sul lato corto e 8 su quello lungo. Tu hai sistemato tutto, insieme alla splendida torta che aveva preparato tua zia, coordinato la banda di cugine, zie e nonna che avevi davanti come un maestro consumato fa con la sua orchestra. Poi hai abbassato le luci e sei venuta a chiamarmi. Mi hai preso per mano e mi hai portato lì con gli occhi chiusi.
C’è un video che racconta tutto questo. Ma come accade spesso nei video, non c’è modo di vedere la verità. In quel video arrivo nella stanza rigido e con un sorriso ebete sulla bocca. Dico qualcosa che vuole essere una battuta e sembra invece soltanto un lamento. Tu mi trascini e contempli da dietro le mie spalle il capolavoro che hai appena realizzato. Io lo guardo, ti cerco, ti trovo, ti abbraccio e ti imploro di soffiare le candeline insieme a me. Se un giorno inventeranno una macchina per leggere i pensieri della gente e proveranno a decodificare questo video, scopriranno che non desidero nient’altro che la tua felicità. Con tutta la forza dei polmoni e delle palpebre chiuse, soltanto la tua felicità.

Intanto ripenso a tutto questo. Al lavoro che ti è costato, all’impegno, la dedizione, la costanza, anche la riservatezza o la fatica di mantenere un segreto che non sei abituata a tenere in serbo. Più ci penso, più mi pare di capire una di quelle cose importanti che sembrano scritte nella natura, nei libri, nelle stelle: ogni gesto, ogni sguardo, ogni carezza, ogni passo, ogni soffio o bacio o sussurro o parola è per me, soltanto per me. Ed è il miracolo più straordinario al quale io abbia mai assistito o preso parte. È l’esistenza di Dio.

La tua canzone

Ti ho lasciata pochi minuti fa davanti scuola. La maniglia del tuo zaino in una mano, nell’altra la mia mano. Hai detto “ciao papi” e hai fatto per scappar via ma io ti ho trattenuta reclamando un altro bacio, più grande di quello precedente. Mi hai accontentato e fatto un sorriso proprio bello. Poi sei andata e io, come al solito, sono rimasto lì a guardarti scomparire nel corridoio della tua scuola. Mentre andavi però ti sei girata due volte per guardare se ero ancora lì e io c’ero e agitavo un braccio come se fossi appena salita su un transatlantico che ti avrebbe portato dall’altra parte del mondo. Tu ridevi, io ti mandavo baci, gli altri genitori mi passavano accanto indifferenti.
Credo il bidello della tua scuola si sia accorto che rimango sempre lì un paio di minuti dopo che sei entrata. Mi guarda o forse sono solo io che mi sento guardato. A volte me lo immagino che scuote la testa come a dire “questi papà apprensivi”. Non so se è realmente così. So però che ogni volta, faccio finta di tirare fuori le cuffie dalla giacca, le srotolo, me le ficco nelle orecchie e questo mi consente di avere circa un paio di minuti di velata nonchalance.

Stamattina, mentre venivo a lavoro, faceva freddo. Quel freddo che a Roma si vede ben poco d’inverno. Mi pungeva alle caviglie e alle ginocchia e per evitarlo andavo piano e stringevo le gambe verso il centro del motorino. Facendo slalom nel traffico, pensavo a te, alla tua giornata a scuola. Spesso quando siamo insieme ci raccontiamo di scambiarci. Io vado a scuola per te e tu vieni a lavoro per me. Quando facciamo questo gioco tu mi interroghi sulle cose che dovrò vivere nella mia giornata al tuo posto, così so per certo ogni cosa che accade dal momento in cui in cui ti lascio. Nella mia giornata al tuo posto so dunque che dovrò affrontare una piccola ricreazione, prima che arrivi la maestra, poi l’appello, delle spiegazioni, un’altra ricreazione (un po’ più lunga) insieme a una merenda, altra spiegazione o esercizi in classe, mensa, piccola ricreazione, esercizi e poi attesa dell’uscita. Quando invece ti chiedo “e tu al mio lavoro cosa farai?”, tu mi rispondi che preparerai dei caffè (quanti? Per chi? Non si sa. È solo che ti piace usare la macchina Nespresso del mio ufficio), poi ti siederai alla mia scrivania e stamperai dei disegni da colorare. Il mio lavoro è dunque questo per te: fare caffè e stampare disegni. Non male.

Ora sono a lavoro davvero, mentre tu avrai superato l’appello e sarai nel mezzo della prima spiegazione del mattino. Mi perdo un po’ a pensarti, seduta nel tuo banco, illuminata di traverso dalla luce calda di questo sole d’inverno. Guardi la maestra attentissima a non perdere una parola. Io il caffè non me lo sono fatto, invece. Avevo finito le cialde e sono allora andato a prendermi un cappuccino al distributore automatico. Ho preso anche una Kinder Delice (e sì, lo so che non avrei dovuto e so anche che stando ai nostri accordi, se prendo una schifezza per me la devo prendere anche per te. Ti devo quindi una Kinder Delice). Sono poi arrivato in ufficio, ho acceso il computer e mentre cominciavo a scrivere questa lettera ho messo Coez su Spotify. Dovrei cominciare a lavorare un po’, non mi va. Quasi quasi mi metto a cercare qualche disegno da colorare su internet.

Yesterday Was Dramatic – Today Is OK

Nella stanza di tua madre c’è ancora il comodino che ho costruito io, uno dei pochi oggetti sopravvissuti alla bonifica della mia presenza. È stata una delle ultime cose che ho fatto prima di andarmene. È costituito da due cassetti, presi da un tavolino che doveva essere buttato. I due cassetti sono avvitati l’uno all’altro, mentre la base è diventata il ripiano del comodino. A vederlo fa proprio un bel effetto e mi ricorda quanto mi sia sempre piaciuto costruire le cose, che poi è la stessa ragione per la quale amo scrivere.
Rispetto a quando vivevo io in questa casa, la stanza è adesso più spoglia o forse semplicemente più ordinata. Sulla cassettiera sono adagiati gli oggetti di tua madre mentre un manichino sartoriale accoglie sciarpe e collane. Tutti gli armadi sono adesso pieni dei suoi vestiti.

Tu te ne stai sdraiata sul letto mentre guardi l’ennesima puntata di Geronimo Stilton su Netflix. Ogni tanto sorridi, qualche volta ridi di gusto, di tanto in tanto richiami la mia attenzione su qualche particolare che dai per scontato mi sia sfuggito e che non è certo sfuggito a te che stai riguardando la stessa puntata per la milionesima volta. Io sono sdraiato accanto a te, guardo pure io Geronimo ma in realtà non sto guardando davvero. Penso.
Penso tutte le cose che mi riempiono la testa ultimamente. Tutte cose che non posso spiegarti né raccontarti perché dovrei affrontare una storia complicata cominciata tre anni fa e di cui tu non sei mai stata messa a parte.
Geronimo intanto ha smascherato il mistero del topo mannaro avvistato in Transtopacchia e la sigla del nuovo episodio mi avvisa che è forse ora di andare.

Faccio dunque per alzarmi, cominciando quel rito che un tempo avrei pagato per evitare e che ancora oggi mi crea qualche difficoltà: dovermi congedare da te. Mi stiracchio, provo a tirarmi su, ti dico “amore papà va via”. Chissà perché in questi casi uso sempre la terza persona invece della prima. In realtà non mi alzo completamente dal letto, è solo una messa in scena, perché conosco benissimo cosa dirai. E infatti tu non ti smentisci e mi dici “papà altri 5 minuti”. Rispondo che va bene sapendo che me ne chiederai poi altri cinque e che forse al terzo tentativo riuscirò ad avvicinarmi alla porta. Va naturalmente tutto come da programma e al terzo tentativo sono in piedi, con le scarpe ai piedi mentre srotolo il consueto copione di commiato. Sono ormai lontani i giorni in cui salutarti era la cosa più faticosa del mondo perché tu mi tenevi stretto tra le braccia e piangendo mi dicevi “perché devi andartene? Perché vivi in un’altra casa? Perché non puoi tornare a vivere qui?” e io me ne andavo di corsa per trattenere le lacrime dentro gli occhi e lasciarle cadere solo in ascensore, quando non avresti più potuto vedermi.

Adesso, invece, quando sono sul punto di andarmene tu interrompi qualunque cosa stai facendo per salutarmi bene, ed è una cosa che mi riempie ogni volta il cuore. Perché non mi dici semplicemente, come ci si aspetterebbe, “ciao papà”, mentre continui a fare quello che stai facendo. No, tu fermi tutte le tue attività, mi accompagni davanti alla porta di casa, mi butti le braccia al collo e mi dai un bacio gigantesco sulla guancia. Poi io esco, mentre continuo a lanciarti baci che tu acchiappi al volo, chiudo la porta e mi metto ad aspettare l’ascensore, sapendo che mentre l’ascensore salirà al quinto piano, tu riaprirai almeno due o tre volte la porta, mi correrai incontro e mi bacerai altrettante volte, fino a quando l’ascensore non mi strapperà via.
Anche questa volta va tutto come al solito. Solo che quando siamo davanti alla porta di casa, pronti per mettere in scena il nostro balletto di abbracci, promesse d’amore e una partita di ping pong immaginario in cui le palline sono i baci che ci lanciamo l’uno verso l’altro, tu mi chiedi che cosa faccio stasera. Io ti rispondo che ho una cena di lavoro e tu mi guardi di tutta risposta col tuo sguardo furbo, sorridi, anzi ridacchi e mi dici “esci con la tua fidanzata?”.

Ecco, ci sono dei momenti nella vita in cui tutto funziona al contrario. Questo è uno di quelli. Tu non sai dell’esistenza della mia fidanzata, non lo puoi sapere perché nessuno te ne ha mai parlato. Così come non sai che la mia fidanzata, prima di lasciarmi e forse anche per questo, mi ha rinfacciato spesso il tempo che lasciavo trascorrere senza parlarti di lei e senza presentarvi. In ultimo, non sai e non puoi sapere quante volte ho immaginato il giorno in cui vi sareste incontrate e piaciute.
Eppure, parli di una fidanzata come fosse una cosa naturale e risaputa, rivelandomi che al di là di quello che ti dico e racconto, c’è un mondo in cui tu, io, noi, viviamo. È un mondo fatto di contatto e partecipazione. Un mondo nel quale io smetto di essere tuo padre e tu mia figlia ed esiste solo ciò che avvertiamo e proviamo e in cui l’avere una fidanzata, o l’averla persa, non è qualcosa che si dice ma si sente.