Celia de la Serna

È morto Maradona. Così, di punto in bianco, è arrivata questa notizia che è diventata l’unica notizia di cui parlare. Mi hai chiesto in macchina chi fosse Maradona. E io mi sono riempito il petto di orgoglio per essere il primo a parlartene. Diego Armando Maradona, ho iniziato, con l’aria dei racconti epici che – almeno per ora – ti fanno ancora cambiare posizione e allungare le orecchie a sentire la favola in arrivo. Era un bambino poverissimo, da piccolo. Talmente povero che la sua famiglia spesso non aveva cibo per tutti e sua madre doveva fingere un mal di pancia per lasciare cibo a sufficienza per i figli. Aveva un sogno, diventare un calciatore professionista e giocare un mondiale. Fece molto di più: vinse un mondiale e divenne il calciatore più forte di tutti i tempi. Perché? ti ho chiesto a quel punto. E tu hai risposto perché era molto forte o perché aveva un gran talento. E io ti ho detto che l’una e l’altra cosa non bastano a diventare il migliore e realizzare un sogno. Per realizzare un sogno serve fede. Credere incessantemente, ovunque e comunque al sogno, anche quando la povertà, la miseria, l’immensità talvolta insensata del mondo che viviamo fa di tutto per convincerti che quel sogno è più misero di te, ridicolo come solo i sogni sanno essere, inutile come un calzino spaiato. 
Tu hai fatto quella cosa meravigliosa che vorrei non smettessi mai di fare. Hai guardato fuori dal finestrino, lasciando che macchine, autobus e motorini popolassero per un secondo la tua vista e poi, senza guardare, mi hai detto: io vorrei diventare Akela da grande. E io mi sono commosso un po’, come al solito, quando riscopro che sei la cosa più bella e importante e preziosa che la vita m’abbia donato. E trattenendo un singhiozzo in gola, ti ho detto semplicemente che mi pareva perfetto. 

Sai, amore, volevo raccontarti una cosa che forse nessuno, oltre tuo zio, sa. Quando ero piccolo odiavo Maradona. Lo odiavo perché aveva reso ridicole tutte le altre squadre che giocavano contro la sua, compresa la mia Roma. Lo odiavo perché aveva trascinato il Napoli verso vittorie che nessuno avrebbe mai potuto nemmeno immaginare. Lo odiavo perché mi faceva sentire umiliato, come umiliati erano probabilmente tutti gli altri che stavano dall’altra parte del campo. Ma il problema vero è che non puoi giocare con Dio. Dio è sopra ogni cosa. Puoi stare a guardare e godere dei prodigi che ti offre ma pensare soltanto di metterti al suo livello, giocarci addirittura contro è una bestemmia indicibile. Così io pagai lo stesso prezzo di superbia di tutti gli altri che non si arresero all’evidenza. Convinsi mio padre a portarmi in giro con la mia bandiera giallorossa il giorno stesso in cui tutto il mondo si tingeva d’azzurro. Urlando come un cretino “Roma, Roma, Roma” fuori dal finestrino, mentre l’unica cosa che davvero avrei voluto fare era far parte di quel sogno che improvvisamente e senza fatica Dio aveva regalato agli umani. 

Ecco, te lo volevo raccontare per due ragioni: la prima è che arrendersi ai miracoli non è mai segno di debolezza; la seconda è che se il tuo sogno è grande e vero e autentico travolgerà chiunque e qualunque cosa lo ostacoli, anche i detrattori.  

Come salvarsi la vita

Io le avrei detto “quando avrò bisogno della tua opinione te la chiederò” oppure ancora “Hai mai fatto caso che ogni tanto si incrocia qualcuno che non va fatto incazzare? Quella sono io!”. Tu hai riso ma hai capito che non avresti tratto un ragno dal buco se continuavamo così e allora ti sei fatta più seria. La tua faccia stava dicendo “papi, ascoltami” e ho provato allora a smettere di essere il cretino che sono e fare il padre. “Dimmi amore, ti ascolto” e hai capito che ora ti stavo ascoltando davvero. 
Il fatto è che questa tua amica, chiamiamola così, fa la stronza. Non giriamoci attorno. Qui lo posso scrivere e dire chiaramente. Per quando lo leggerai, probabilmente non farà più tanto scalpore questo termine. È convinta di essere il capo e si sente il diritto di dire a ognuno quello che deve fare, come lo deve fare, quando lo deve fare. A te dice cose come “tu non puoi giocare” oppure “te ne vai?”. E io mentre ti ascolto ho una tale rabbia che mi monta dentro che vorrei soltanto accenderti la tv, lasciarti vedere quello che vuoi, andare nell’altra stanza, chiamare i suoi genitori e urlargli contro “che cazzo state facendo?”.
Respiro, invece. Continuo ad ascoltarti, capendo che se lascio intravedere quanto sia arrabbiato, cercherai una scorciatoia per evitare i danni collaterali. Fingo comprensione, provo a spiegarti che a volte le persone si comportano così perché dentro hanno un disagio, provo a spingerti a evitare lo scontro e passare il tuo tempo solamente con chi lo merita. Perché il tuo tempo, ti dico, è uno e unico e non lo puoi regalare a chi non lo apprezza per quello che è: prezioso e irripetibile. 

Eppure la mia morale da libro cuore non è sufficiente a darti una soluzione e certamente non calma né te né me. Allora mi sale un sospiro da qualche parte dentro. Prosciuga tutta l’aria che ho intorno e se la porta in fondo alla pancia per poi salire in una nuvola di ricordi e malinconia. 
Amore mio quanto ti capisco. C’era un bambino alle elementari. Aveva la mia stessa età ma aveva fatto la primina e stava nella classe prima della mia. Me lo sono ritrovato alle elementari, alle medie e persino al liceo. Lo odiavo e lui odiava me. 
Mi tormentava. Mi cercava per dirmi cose cattive, su di me che non ero capace di giocare a pallone, che tifavo per una squadra di brocchi, persino su mio padre o la mia famiglia. Non lo sopportavo e provavo sempre a non stargli vicino. La mia strategia era semplicissima: se c’era lui, non c’ero io. Ma in un paese di quattro gatti, una chiesa e un bar, è difficile evitarsi sempre. Così accadeva di scontrarsi, litigare e portare a casa lividi e livore. Abbiamo continuato a odiarci per tutta la nostra vita e anche se non lo vedo da più di vent’anni, penso che se lo reincontrassi lo odierei ancora, per tutto quello che mi ha fatto e detto, o semplicemente perché esisteva. 

Non è stata un’infanzia facile la mia. Mi sentivo solo, lo sai perché te lo racconto sempre. E non avevo niente e nessuno a cui aggrapparmi. Eppure oggi che ho quarant’anni e penso a quegli anni così duri, per la prima volta mi viene in mente che forse devo un grazie a quello stronzo. La prima volta che mi scontrai con lui, lo feci perché stava tormentando un bambino della mia classe che aveva dei problemi fisici. L’ultima perché diffondeva posizioni politiche demenziali. E oggi che ti scrivo, mi viene un po’ da riflettere su quanto amore ho messo in ciò che pensavo, credevo e facevo per difendermi dalle sue aggressioni. Forse non sarei un tifoso così convinto della Roma, se non avessi scelto di tifare anche mentre tutti tifano per i cattivi. Forse non avrei le mie idee, la mie convinzioni, non sarei chi sono oggi se non avessi preso tutte quelle botte. 
Allora approfitto di questa lettera che scrivo a te, per dirgli grazie, anche se mi viene il dubbio che non sappia leggere. 

Se mi stai leggendo, sappi che ti sono grato, perché senza la tua pochezza oggi forse non avrei la mia infinita ricchezza.
Chissà, magari puoi ringraziare anche tu la tua amica.  

‘A vita mia m’a porto n’pietto 
‘o core mio fa oili oilà 
e nun v’à rongo pé dispietto 
‘sta libertà.

Come stai?

Come stai amore? Come va la scuola? Le tue amiche? I tuoi pensieri, i tuoi giorni, la tua vita? A volte mi perdo interi pezzi della tua storia. Ne ritrovo qualche frammento dopo giorni, dentro stralci di conversazione che riguardano altro. Ti ascolto pronunciare nomi, tirare fila di pensieri iniziati tanto tempo prima, in un tempo in cui io ero altrove. Allora provo a rincorrere questi pezzi, implorandoti di aiutarmi al colmare il laghetto divenuto mare che s’è insinuato tra ieri e ora. Tu ci provi, senza troppo entusiasmo. Ti sorprendi. Dici cose come “ma come, non lo sai?”.
E io non lo so, mi sono perso o ti ho persa per qualche istante che è diventato secolo.
“Mi aiuti a preparare la cena? Puoi occuparti tu di apparecchiare la tavola?” e intanto mi sveli l’arcano della tua nuova maestra di italiano che ha un nome che inizia per O e non per U come pensavi tu. Ma dov’ero io quando lo hai scoperto? Com’era la tua faccia in quell’istante o qualche minuto dopo o prima? Mentre la tua amica faceva una battuta e tu incredibilmente hai pensato fosse uno scherzo e non ci sei rimasta male, crescendo vertiginosamente nel giro di una manciata di lancette. 

C’è dentro di me una specie di tristezza atavica. Forse non è nemmeno tristezza. È tentazione di tristezza. Come un affetto immotivato, dovuto ad anni di relazione intensa con essa. Ti svegli la mattina, ti guardi attorno, non trovi nulla che veramente non vada eppure dentro senti una piastrella di serenità che cede sotto al peso della malinconia. Sarà l’autunno o la pioggia che imperversa fuori dalla finestra e batte cadenzata e ritmica sopra alla tettoia del giardino. La mente racchiusa dentro al buio degli occhi spenti che ritornano alla mansarda della mia infanzia, l’acqua e il vento sulle tegole del tetto, il tuono, il temporale. 
Oppure è solo che non hai più un libretto d’istruzioni a cui aggrapparti. Leggerlo fino in fondo, come ai tempi dell’università quando per preparare un esame c’era sempre uno dei libri che si chiamava “manuale”. 

Agata dice che non parlo molto. Non sono capace di condividere la vita e faccio dei miei giorni un gomitolo stretto stretto che tengo solo per me. Mi sorprendo, faccio la faccia di chi casca dalle nuvole e le chiedo, quasi supplico di spiegarmi, dirmi di nuovo, ancora, perché. Lei non se lo spiega come io non me lo spieghi. Dice solo che più di così non sa che dire, è sfinita. E io rimetto in ordine tutti i pensieri. Riprendo in mano i passaggi che mi hanno portato a ridere, parlare, muovermi, camminare, spostarmi in tutte le ore che riesco a riacchiappare. E non ricordo i silenzi perché non contano quanto un silenzio ma quanto una frase concisa con un mucchio di sottotesto che  viene lasciato al lettore per il piacere di scoprire. Eppure non basta. Agata rassegnata mi dice che non ce la fa più e l’unico modo che ha per accettarlo è lasciarmi cuocere nel mio brodo, tenendomi fuori dall’oceano nel quale nuota. Così fa. E non mi dice molto per giorni. Anzi, mi dice solo che si sente meglio. Sente che ora siamo pari. E io me ne sto asciutto sopra un pontile e guardo quel mare che mi circonda e vorrei bagnarmici fino a dove non tocco più e a volte immergermi completamente, finché l’aria che ho nei polmoni me lo permette. Invece sono fuori e mi sento fuori, come un bambino che non sa nuotare e ha pure paura dell’acqua. Mi metto seduto e aspetto che venga a prendermi. Ma lei non viene e d’improvviso capisco che sono solo.

Mio nonno non parlava mai. Aveva un modo esageratamente essenziale di comunicare. E noi, tutta la sua famiglia, avevamo ridotto al minimo le nostre aspettative di comunicare con lui. Succede forse la stessa cosa anche a me, anche a noi?
Ma come te lo spiego e come lo spiego ad Agata che quando passi buona parte della tua esistenza a pensarti da solo i pensieri finisce che diventano sottili sottili, quasi invisibili e spesso fatichi persino a sentirli tu stesso che li hai partoriti? Come faccio a far capire a lei e a te che il mio interesse esasperante per le vostre vite, la mia voglia di conoscere fino all’ultimo granello di sabbia che ha svuotato la vostra clessidra, deriva dalla stessa voglia sproporzionata di esser scoperto, aperto, percorso, vissuto, amato? Tanti interrogativi corrispondono a tanto desiderio di raccontare. Ma la fatica che ho fatto nel cominciare questa lettera è la stessa che faccio nel cominciare un discorso da zero e come vedi anche qui ho cominciato con una domanda.  

Siamo quello che siamo e a volte ciò che siamo è tanto sporco da non apparire plausibile nemmeno a noi stessi. Ne portiamo il peso dentro. Come un fardello di piombo che ci tiene ancorati a terra. E avvicinarci alla pancia somiglia tanto ad un tentativo di autodistruzione che rende facile alla paura di farci schizzar via come un indice che scivola veloce nell’incavo di un pollice per scacciare un insetto. E diventiamo fragili e mediocri, taciturni e reticenti, a volte persino falsi. Perché non c’è niente al mondo, amore mio, di più difficile che far i conti con se stessi.
E quei conti non tornano se mentre li metti in fila bari sugli spiccioli. Li fai una volta, poi la seconda e alla terza sembrano i conti di un ubriaco. E ti senti ridicolo, sei ridicolo, perché un uomo che bara è un uomo che non vale niente. E la risposta a tutti i dubbi ce l’hai sempre avuta tra le mani: perché niente vale la pena vivere quanto la verità. Ma probabilmente ora che lo sai è appena diventato troppo tardi.

L’estate addosso

È un periodo complicato, vero amore? Hai voluto sapere di più su me e Agata e io, nella mia maniera strampalata, forse anche arrangiata, ti ho detto quello che sentivo. E mentre dicevi “non voglio” capivo che entrambi in quel momento stavamo crescendo. Non è questo il punto di arrivo di una cosa cominciata tanto tempo fa? 
Non c’era tensione nelle parole che sceglievo mentre la mia bocca te le rivolgeva. Non c’era ansia, né paura. Ma soltanto la voglia di aprirti la porta di una stanza dentro la quale non sopportavo non fossi ancora entrata. Per lo meno, non fossimo ancora entrati insieme.
La tua compagna di classe racconta dall’inizio della scuola di avere un ragazzo. Dice che è più grande di voi, che frequenta un’altra scuola e che mentre siete a mensa, qualche volta, vi spia dalla finestra. Questo gli permette di conoscervi ad uno ad uno. Subito la tua classe si è divisa tra chi crede alla storia del fidanzato e chi non ci crede. Tu stai nel mezzo. Un po’ perché non riesci a mettere davvero a fuoco una cosa che non vedi e che di per sé ha tanti elementi che non ti tornano (ma se questo bambino va a scuola allora come può vederci dalla finestra mentre siamo a mensa?). Dall’altra però c’è la fiducia cieca che riponi nelle tue amiche, nelle persone, nel mondo in generale e che semplicemente ti impone di credere.

Di base, volevi sapere cosa significasse davvero innamorarsi. E allora senza essermelo mai preparato mi sono trovato a raccontarti qualcosa che non sapevo nemmeno di sapere. Ti ho detto che l’amore è qualcosa che riguarda chiunque, senza età e senza filtri e nasce come un fiore selvatico, senza seme, in posti dove non avresti mai creduto potesse nascere qualcosa. D’improvviso c’è e quel fiore cresce e vive alimentandosi della sua stessa e sola vita. Succede alle persone. Si vedono un giorno, poi un altro giorno, e nasce in ognuno dei due una specie di curiosità. “Wow anche a te piace il fegato alla piastra?”, “ma davvero tifi per la Roma?”, “Oddio è incredibile che anche a te faccia schifo il cocomero”. Cose così, forse banali. Poi questa scoperta diventa voglia, quasi frenesia di far sapere all’altro quali sono le cose che a te piacciono: “devi assolutamente vedere A proposito di Davis!”, “ti è piaciuto?”, “Sì, ti prego vediamo insieme I ponti di Madison County”. E ti rendi conto che quell’emozione che tu provi è la stessa che prova l’altro nel farti entrare nel suo mondo, mentre prende confidenza col tuo. E improvvisamente, senza che tu abbia capito come, hai voglia di sapere tutto dell’altro e senti quasi l’angoscia, un’angoscia piacevole e totalizzante, di raccontare ogni cosa di te. E vorresti che vedesse ogni posto che hai visto e incontrasse ogni persona che conosci, e mangiasse e bevesse ogni cosa che hai mangiato e bevuto da quando sei nato. E capisci che ogni singolo atomo che riempie la tua vita ora riguarda anche lui e anche il minimo sussurro della sua è indelebilmente tuo. E ogni minuto che passi con lui è uguale al più bel giorno d’estate che tu abbia mai vissuto. Ecco, ti ho detto, succede una cosa così. E quando due persone si incontrano e scoprono che tutto questo è vero per entrambi, allora quel fiore selvatico è già nato e se ne sta al sole a riempirsi di linfa vitale e beatitudine. 

Tu sei rimasta zitta a metà tra il divertito e il sorpreso. Anche se dentro probabilmente hai avuto paura. Paura che tutto questo possa toglierti ciò che è tuo, tuo e basta, tuo e di nessun altro. E io l’ho capito, abdicando alle convinzioni che tutto possa essere facile e lineare. Perché di facile e lineare nella vita non c’è niente. Ma allo stesso tempo so – lo so per certo – che l’amore potrà convincerti che tuo padre ci sarà sempre e ti amerà ovunque e comunque con la stessa forza del primo giorno. Perché l’amore smuove le montagne e trasforma il deserto in aiuole fiorite. Non aver paura, amore mio. Perché dove c’è bene non può esserci male e l’amore non si può dividere ma soltanto moltiplicare.    

Ogni cosa che c’è

Quanta concentrazione ci metti per rendermi felice, quanta dedizione, quanto scrupolo, sentimento, attenzione, impegno, riflessione, amore? Spesso ti osservo senza sapere esattamente il carico di ansie e stress che ti porta tutto quel lavoro extra a cui ti dedichi per costruirmi una sorpresa, un segnale, un piccolo, a volte impercettibile eppure straordinario, regalo lasciato sopra la porta della mia stanza a dirmi “hey, io ci sono e ti amo!”.
Lascio che i giorni qualche volta prendano il sopravvento, si facciano lame che tagliano via attenzioni e osservazione. Rimango a guardare e lascio che la sedia liscia sopra la quale sono seduto diventi uno scivolo che mi trasporta lontano da te.

È successa la stessa cosa forse anche per il mio compleanno. Io me ne stavo beota a osservare i preparativi per la cena che tua nonna aveva organizzato e contemporaneamente ti vedevo sfrecciare per casa, ora con telefono in mano, ora con un foglio di appunti, poi ancora con uno da disegno. Di tanto in tanto ti fermavi vicino a me e mi dicevi di essere stanca ma eri felice. Sapevo, immaginavo, che insieme ad Agata stavate tramando qualcosa e ti lasciavo fare, tenendo chiusa in una scatola la curiosità che voleva ti facessi qualche domanda di troppo. E mentre tutto questo accadevo e costruiva un piano che ignoravo ancora, non devo essermi reso conto che il mio regalo era proprio lì davanti a me. Il mio regalo erano i tuoi passi scalzi da una stanza all’altra, ogni singola lettera o numero composto sullo schermo del telefono, ogni striscia di colore impressa su un foglio. E questo regalo è sempre qui, ce l’ho davanti persino adesso che me ne sto al computer a tentare di rimediare all’ennesima scadenza mancata e tu te ne stai tranquilla a dormire per concedermi qualche altro minuto per finire questa lettera. 

C’erano quaranta dolcetti sul tavolino basso di tua nonna quella sera. Quaranta dolcetti tipici che Agata aveva fatto arrivare grazie a un corriere e al tuo aiuto direttamente dal suo paese. Su ognuno avevi piazzato una candelina che mi hai rivelato di aver acceso personalmente. Erano ordinati in un rettangolo con 5 dolcetti sul lato corto e 8 su quello lungo. Tu hai sistemato tutto, insieme alla splendida torta che aveva preparato tua zia, coordinato la banda di cugine, zie e nonna che avevi davanti come un maestro consumato fa con la sua orchestra. Poi hai abbassato le luci e sei venuta a chiamarmi. Mi hai preso per mano e mi hai portato lì con gli occhi chiusi.
C’è un video che racconta tutto questo. Ma come accade spesso nei video, non c’è modo di vedere la verità. In quel video arrivo nella stanza rigido e con un sorriso ebete sulla bocca. Dico qualcosa che vuole essere una battuta e sembra invece soltanto un lamento. Tu mi trascini e contempli da dietro le mie spalle il capolavoro che hai appena realizzato. Io lo guardo, ti cerco, ti trovo, ti abbraccio e ti imploro di soffiare le candeline insieme a me. Se un giorno inventeranno una macchina per leggere i pensieri della gente e proveranno a decodificare questo video, scopriranno che non desidero nient’altro che la tua felicità. Con tutta la forza dei polmoni e delle palpebre chiuse, soltanto la tua felicità.

Intanto ripenso a tutto questo. Al lavoro che ti è costato, all’impegno, la dedizione, la costanza, anche la riservatezza o la fatica di mantenere un segreto che non sei abituata a tenere in serbo. Più ci penso, più mi pare di capire una di quelle cose importanti che sembrano scritte nella natura, nei libri, nelle stelle: ogni gesto, ogni sguardo, ogni carezza, ogni passo, ogni soffio o bacio o sussurro o parola è per me, soltanto per me. Ed è il miracolo più straordinario al quale io abbia mai assistito o preso parte. È l’esistenza di Dio.

Piccola città

Qualche volta mi fermo dopo una lunga corsa, mentre ho raggiunto una radura nel folto di un bosco. Guardo da ogni lato e mi pare che quel posto non abbia strade o direzioni, sia come isolato dal resto del mondo e rimane un mistero come io l’abbia raggiunto. C’è pace, fa fresco, si sta bene. La luce del sole filtra dall’alto degli alberi, si sentono gli uccelli che cantano e il materasso di foglie accumulate da millenni sotto i piedi dà la piacevole sensazione di un luogo mai visto e accogliente. Allora resto fermo per un po’. Bevo un sorso d’acqua. Guardo gli alberi come in attesa di sentirli parlare. Viene voglia di stendersi sotto il più grande di loro, ospitale e protettivo. E sto quasi per farlo, quando mi stana il dubbio che restare porterebbe con sé anche i pericoli e i misteri della notte. Allora mi muovo, ignorando quanto sia poi bello godersi l’istante di pausa che divide una corsa dall’altra, il prima dal dopo. Scelgo una direzione e la seguo e dopo qualche istante la radura è diventata un punto indistinguibile nel passato di un’escursione, irraggiungibile da me e da chiunque altro, per chissà quanto.
È andata così anche domenica scorsa. Mauro mi ha chiesto di ritornare in montagna. Io ero al supermercato mentre ascoltavo il suo vocale. Mi sono fermato davanti al banco dei salumi e ho chiesto del prosciutto e due panini. Avevo così tanta voglia di tornare in montagna che mi tremavano le ginocchia dall’emozione. Eppure, dopo pochissimi chilometri dall’inizio del sentiero, ho capito che le mie gambe non erano più le stesse che mi avevano portato per così tanti chilometri fino a Santiago, soltanto qualche mese fa. E il mio cuore non pompava lo stesso sangue e la mia testa non era in grado di guardare l’orizzonte indovinando il cammino, la cima, l’arrivo. Ero improvvisamente stanco e per la prima volta da quando ho imparato ad amare la montagna, ho avuto voglia di tornare indietro. 

Mauro aveva calcolato male le distanze e invece di affidarsi ad una mappa, aveva delegato a un’app il compito di condurci lungo il percorso ad anello che cingeva la montagna. Io mi ero invece affidato a lui. Dopo qualche chilometro di sentiero dolce tra i pascoli, abbiamo tagliato nel bosco, perdendo ogni traccia di segnavia. Se era la vetta che cercavamo, dovevamo andare verso l’alto e così abbiamo cominciato letteralmente a scalare un dirupo di faggi. Ero così stanco che alla terza volta che sono scivolato, ritrovandomi lungo sulle foglie marroni e nere e gli arbusti spezzati dal mio peso, ho pensato che non mi sarei mai più rialzato. Eppure, come accade spesso in montagna, nonostante tutto, arrivi in cima. Lì c’erano altre tre persone attorno alla croce che hanno subito cominciato a parlare con Mauro. Io ho poggiato lo zaino, ho aspettato che tornasse per mangiare insieme a lui e poi, senza una parola, mi sono steso e addormentato. Ero convinto di avere già affrontato la parte dura del cammino, quando la montagna ti mette alla prova e ti chiede di dimostrarle se davvero meriti la sua vetta. Mi sbagliavo. Il ritorno è stato come una ritirata in un territorio disseminato di trappole. L’app di Mauro ci ha portato lontanissimi dall’inizio del cammino, per poi farci tagliare attraverso l’ennesimo bosco fittissimo di faggi, giù in picchiata lungo la cresta della montagna. Le ginocchia stavano impazzendo e l’unica racchetta che avevo portato, non mi aiutava a evitare che scivolassi, slittando per metri sulle foglie umide del sottobosco. Poi Mauro, che era più avanti di me, ha urlato “eccolo, lo abbiamo trovato!”, intendendo il sentiero. Io non ho risposto, limitandomi a seguirlo. 

È stato poco dopo che, senza rendermene conto, ho scoperto di essere arrivato nella stanza della pace. I faggi puntavano verso l’alto chiudendo la stanza sotto una volta puntinata di scintille. A terra foglie e radici, come un dipinto medievale. Gli uccelli nascosti fischiettavano allegri e io ero solo. Mi sono seduto su un masso, guardandomi attorno come dentro le mura di casa. Non c’era porta d’ingresso né via d’uscita. Era l’inizio e la fine. Dove devo andare? Ho chiesto senza paura agli alberi che non hanno risposto o forse sì, senza che potessi ascoltarli. E a quelle voci senza suono avrei voluto chiedere tante altre cose. Chissà se fossi rimasto ancora, se non avessi improvvisamente pensato che la notte, i lupi o altri pericoli, sarebbero arrivati di lì a poco per sbranarmi. Chissà se sarei riuscito ad ascoltare i consigli degli alberi, cedere quella stanchezza riprendendo linfa e vigore. Ho invece inventato una direzione e l’ho seguita, reincontrando Mauro poco dopo e lasciandomi trascinare verso l’arrivo.

Perché ti racconto tutto questo, oggi? Forse perché, amore, a volte le pause ti trovano anche se non le cerchi ma il fatto che ti trovino non le rende necessariamente utili. Vorrei insegnarti a riconoscerle e amarle, dare loro l’attenzione che chiedono, e prender da loro tutto ciò che vogliono offrirti. Ma siamo ciò che ricordiamo e spesso, troppo spesso, paure, ansie e tentennamenti ci spingono verso una direzione, anche quando c’è una radice di faggio a forma di sedile pronta ad accoglierci per lasciarci riprendere forza e fiato. Ecco, solo per dirti, amore mio: qualche volta fermarsi è utile, necessario, certe volte persino meglio. Fermarsi per guardare e riconoscersi ancora capaci di stupirsi della bellezza del paesaggio, del verde delle foglie, del calore della luce, del conforto di un’ombra, del ristoro di un sorso d’acqua.