Ogni cosa che c’è

Quanta concentrazione ci metti per rendermi felice, quanta dedizione, quanto scrupolo, sentimento, attenzione, impegno, riflessione, amore? Spesso ti osservo senza sapere esattamente il carico di ansie e stress che ti porta tutto quel lavoro extra a cui ti dedichi per costruirmi una sorpresa, un segnale, un piccolo, a volte impercettibile eppure straordinario, regalo lasciato sopra la porta della mia stanza a dirmi “hey, io ci sono e ti amo!”.
Lascio che i giorni qualche volta prendano il sopravvento, si facciano lame che tagliano via attenzioni e osservazione. Rimango a guardare e lascio che la sedia liscia sopra la quale sono seduto diventi uno scivolo che mi trasporta lontano da te.

È successa la stessa cosa forse anche per il mio compleanno. Io me ne stavo beota a osservare i preparativi per la cena che tua nonna aveva organizzato e contemporaneamente ti vedevo sfrecciare per casa, ora con telefono in mano, ora con un foglio di appunti, poi ancora con uno da disegno. Di tanto in tanto ti fermavi vicino a me e mi dicevi di essere stanca ma eri felice. Sapevo, immaginavo, che insieme ad Agata stavate tramando qualcosa e ti lasciavo fare, tenendo chiusa in una scatola la curiosità che voleva ti facessi qualche domanda di troppo. E mentre tutto questo accadevo e costruiva un piano che ignoravo ancora, non devo essermi reso conto che il mio regalo era proprio lì davanti a me. Il mio regalo erano i tuoi passi scalzi da una stanza all’altra, ogni singola lettera o numero composto sullo schermo del telefono, ogni striscia di colore impressa su un foglio. E questo regalo è sempre qui, ce l’ho davanti persino adesso che me ne sto al computer a tentare di rimediare all’ennesima scadenza mancata e tu te ne stai tranquilla a dormire per concedermi qualche altro minuto per finire questa lettera. 

C’erano quaranta dolcetti sul tavolino basso di tua nonna quella sera. Quaranta dolcetti tipici che Agata aveva fatto arrivare grazie a un corriere e al tuo aiuto direttamente dal suo paese. Su ognuno avevi piazzato una candelina che mi hai rivelato di aver acceso personalmente. Erano ordinati in un rettangolo con 5 dolcetti sul lato corto e 8 su quello lungo. Tu hai sistemato tutto, insieme alla splendida torta che aveva preparato tua zia, coordinato la banda di cugine, zie e nonna che avevi davanti come un maestro consumato fa con la sua orchestra. Poi hai abbassato le luci e sei venuta a chiamarmi. Mi hai preso per mano e mi hai portato lì con gli occhi chiusi.
C’è un video che racconta tutto questo. Ma come accade spesso nei video, non c’è modo di vedere la verità. In quel video arrivo nella stanza rigido e con un sorriso ebete sulla bocca. Dico qualcosa che vuole essere una battuta e sembra invece soltanto un lamento. Tu mi trascini e contempli da dietro le mie spalle il capolavoro che hai appena realizzato. Io lo guardo, ti cerco, ti trovo, ti abbraccio e ti imploro di soffiare le candeline insieme a me. Se un giorno inventeranno una macchina per leggere i pensieri della gente e proveranno a decodificare questo video, scopriranno che non desidero nient’altro che la tua felicità. Con tutta la forza dei polmoni e delle palpebre chiuse, soltanto la tua felicità.

Intanto ripenso a tutto questo. Al lavoro che ti è costato, all’impegno, la dedizione, la costanza, anche la riservatezza o la fatica di mantenere un segreto che non sei abituata a tenere in serbo. Più ci penso, più mi pare di capire una di quelle cose importanti che sembrano scritte nella natura, nei libri, nelle stelle: ogni gesto, ogni sguardo, ogni carezza, ogni passo, ogni soffio o bacio o sussurro o parola è per me, soltanto per me. Ed è il miracolo più straordinario al quale io abbia mai assistito o preso parte. È l’esistenza di Dio.

La tua canzone

Ti ho lasciata pochi minuti fa davanti scuola. La maniglia del tuo zaino in una mano, nell’altra la mia mano. Hai detto “ciao papi” e hai fatto per scappar via ma io ti ho trattenuta reclamando un altro bacio, più grande di quello precedente. Mi hai accontentato e fatto un sorriso proprio bello. Poi sei andata e io, come al solito, sono rimasto lì a guardarti scomparire nel corridoio della tua scuola. Mentre andavi però ti sei girata due volte per guardare se ero ancora lì e io c’ero e agitavo un braccio come se fossi appena salita su un transatlantico che ti avrebbe portato dall’altra parte del mondo. Tu ridevi, io ti mandavo baci, gli altri genitori mi passavano accanto indifferenti.
Credo il bidello della tua scuola si sia accorto che rimango sempre lì un paio di minuti dopo che sei entrata. Mi guarda o forse sono solo io che mi sento guardato. A volte me lo immagino che scuote la testa come a dire “questi papà apprensivi”. Non so se è realmente così. So però che ogni volta, faccio finta di tirare fuori le cuffie dalla giacca, le srotolo, me le ficco nelle orecchie e questo mi consente di avere circa un paio di minuti di velata nonchalance.

Stamattina, mentre venivo a lavoro, faceva freddo. Quel freddo che a Roma si vede ben poco d’inverno. Mi pungeva alle caviglie e alle ginocchia e per evitarlo andavo piano e stringevo le gambe verso il centro del motorino. Facendo slalom nel traffico, pensavo a te, alla tua giornata a scuola. Spesso quando siamo insieme ci raccontiamo di scambiarci. Io vado a scuola per te e tu vieni a lavoro per me. Quando facciamo questo gioco tu mi interroghi sulle cose che dovrò vivere nella mia giornata al tuo posto, così so per certo ogni cosa che accade dal momento in cui in cui ti lascio. Nella mia giornata al tuo posto so dunque che dovrò affrontare una piccola ricreazione, prima che arrivi la maestra, poi l’appello, delle spiegazioni, un’altra ricreazione (un po’ più lunga) insieme a una merenda, altra spiegazione o esercizi in classe, mensa, piccola ricreazione, esercizi e poi attesa dell’uscita. Quando invece ti chiedo “e tu al mio lavoro cosa farai?”, tu mi rispondi che preparerai dei caffè (quanti? Per chi? Non si sa. È solo che ti piace usare la macchina Nespresso del mio ufficio), poi ti siederai alla mia scrivania e stamperai dei disegni da colorare. Il mio lavoro è dunque questo per te: fare caffè e stampare disegni. Non male.

Ora sono a lavoro davvero, mentre tu avrai superato l’appello e sarai nel mezzo della prima spiegazione del mattino. Mi perdo un po’ a pensarti, seduta nel tuo banco, illuminata di traverso dalla luce calda di questo sole d’inverno. Guardi la maestra attentissima a non perdere una parola. Io il caffè non me lo sono fatto, invece. Avevo finito le cialde e sono allora andato a prendermi un cappuccino al distributore automatico. Ho preso anche una Kinder Delice (e sì, lo so che non avrei dovuto e so anche che stando ai nostri accordi, se prendo una schifezza per me la devo prendere anche per te. Ti devo quindi una Kinder Delice). Sono poi arrivato in ufficio, ho acceso il computer e mentre cominciavo a scrivere questa lettera ho messo Coez su Spotify. Dovrei cominciare a lavorare un po’, non mi va. Quasi quasi mi metto a cercare qualche disegno da colorare su internet.

Quest’uomo

Ho scoperto, forse già lo sapevo, certamente lo speravo, che hai il mio senso dell’umorismo. Per lo meno, credo tu abbia un senso dell’umorismo simile a quello che io mi attribuisco: acuto, sottile, a volte un po’ ruvido, talvolta pungente, istintivo e spontaneo. Non è una cosa che viene fuori sempre. Deve esserci di base una specie di alchimia che si instaura con le persone che ti stanno intorno. Funziona così anche per me: intimità, agio, rilassatezza. 

L’altro giorno, per dire, eravamo in macchina e io ti chiedevo se avresti voluto andare al cinema a vedere i Me contro Te. Tu eri indecisa perché non eri sicura ti sarebbe piaciuto. Allora io ti ho detto che nessuno va al cinema a vedere un film che sa per certo gli piacerà, è la seduzione della sorpresa. E una sorpresa può essere bella o brutta. Naturalmente mentivo perché io vado al cinema a vedere solo i film dei registi che mi piacciono o quelli che mi consigliano persone di cui mi fido. Ma questo non te l’ho detto perché vorrei farti crescere un po’ meglio di me. Ho allora cominciato a scherzare e raccontarti di quanto possa essere bello scoprire di aver visto un film meraviglioso. Nel dirti questo ho detto “vedi un film che non ti aspettavi e dici bomba che capolavoro!” e tu hai cominciato a ridere tantissimo per il mio “bomba”. E mentre ridevi mi dicevi “papà ma come parli?” e io ti ho detto che parlo come parlano i giovani e tu mi hai risposto di essere giovane e non aver mai detto “bomba”. E io allora ti ho detto che ti autorizzavo a dirlo ma tu non mi hai preso sul serio e mi hai detto che una cosa così non esiste e non puoi dirla ai tuoi amici perché non esiste nemmeno per loro e poi hai continuato a ridere ancora un po’. Ridevo anch’io e riflettevo nel frattempo sul tuo “papà”. Riflettevo sui modi con i quali ti rivolgi a me. Generalmente mi chiami papi, delle volte pipi, quando vuoi essere ilare mi dici padre (e io mi rivolgo a te dicendoti figlia), altre ancora inventi dei nomignoli che si esauriscono lì per lì. Usi però la parola papà solamente quando sei molto seria, quando vuoi raccontarmi qualcosa sulla quale pretendi un ascolto speciale. Il tuo papà blocca le cose, come a dire attenzione da questo momento devi ascoltare meglio. E allora mentre ridevo mi immaginavo me nella tua testa, mi immaginavo questo padre quasi quarantenne che usa parole da ventenne che ha rubato per strada a qualche adolescente e si infila in bocca per farcire una conversazione di un elemento di scalpore e immediatamente tu lo percepisci, lo decodifichi e ti chiedi perché, anche se ridi, ti chiedi chi io sia in quell’istante o forse chi io voglia essere. E nel farlo forse mi costringi a riflettere davvero su quanto e come io sia me stesso, quanto e come possa apparirti realmente chi sono. E immediatamente capisco che quel “bomba” lanciato alla rifusa in una frase è un estraneo tra noi. Tu fai questo e capisco chiaramente che davanti a te sono sempre nudo, un padre, un uomo. Come in una striscia continua e senza pause, sono adolescente, adulto, senior. Sono tutto quello che sono stato e quello che sarò, sono l’insieme delle parole che ho detto, quelle che ho pensato, quelle che ho solo sentito senza pronunciare. Davanti a te io sono solo io, senza trasformazioni né trucchi, sono il mio nome. È per questo che quando un attimo dopo mi hai detto “papi tu sarai anche giovane dentro ma fuori sei molto vecchio” ho riso quasi con le lacrime agli occhi perché mi sono visto coi i capelli tutti bianchi, le rughe profonde e le mani rinseccolite mentre provo a ballare una tarantella senza esserne capace. E quella tarantella la ballo perché tu suoni la fisarmonica e io devo seguire solo il ritmo, nient’altro.

Poi siamo arrivati a casa e hai notato che avevo attaccato alla parete il disegno che mi avevi fatto per il mio compleanno. Nel disegno ci siamo io e te sotto ad un cuore gigantesco. Allora disegnavi ancora le figure umane con delle gambe lunghissime. Quando sei entrata, hai visto il disegno e mi hai detto “papi ti avevo fatto magrissimo”. Io ti ho risposto “mi hai fatto come sono” e tu hai aggiunto “no, se volessi farti come sei non entreresti in due fogli”. Ecco, a questo punto dovrebbe scattare la mia solita sviolinata sul quanto sia bello e unico e sensazionale averti come figlia. E invece no. Stavolta ti scrivo per dirti che non mi importa se sono vecchio o grasso, ciò che voglio, ho e sono è essere me stesso e esserlo con te e per te e questo è davvero la cosa più straordinaria che possa capitare in una vita. E questo, sì, è davvero una bomba!

Tutto tu vuoi

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo. Forse lo sei davvero. Questa bambina si chiama Ah. 
Proprio così, Ah. Come uno sbadiglio, come la prima nota di una risata, come dire “ho capito”. È un nome tra i sogni, la felicità e l’intelligenza. Secondo me è un nome bellissimo, e se fossi stato meno tradizionalista, se avessi avuto meno anni, idee più folli e l’ardire di seguirle, se tua madre non avesse saputo da sempre il tuo nome, adesso anche tu potresti chiamarti così.

Ah è nata in un giorno di pioggia sottilissima, aghi d’acqua tanto fini e innocui che non riuscivano a bagnare nessuno. Quel giorno il sole è sorto alle cinque e quarantasette minuti e tramontato inspiegabilmente due ore più tardi rispetto a quanto riportava l’almanacco. In quelle due ore Ah è rimasta quasi immobile nella sua culla, la sua mamma guardava oltre la finestra aspettando che la luce calasse, il suo papà guardava il suo cuore ormai perso, addormentato nel piccolissimo torace di Ah. Anch’io ho fatto questo nel tuo primo giorno di vita; guardavo te, instancabilmente, e guardavo il mio cuore scindersi come un atomo, diventare tuo, e crescere crescere. Crescere.
Ah non ha un’età precisa. Non è possibile stabilire quanti anni siano trascorsi dalla sua nascita. Fino al suo terzo compleanno ci sono state torte con candeline rosa, poi non più. Poi i pensieri e le parole di Ah hanno cominciato a evolversi in maniera spropositata, non appartenevano più a quelli di una bambina della sua età, non potevano essere contenuti in un numero. Cinque, sei, sette anni, nessuna di queste lancette le apparteneva. Tutto ciò che faceva era così stupefacente da non poter essere misurato, controllato. Il tempo non era più necessario. Lei ragionava con la saggezza di ottanta lune, comprendeva ciò che ai bambini viene celato, per proteggerli, si dice serva a proteggerli. Osservava apparentemente indifferente comportamenti che sarebbe stata presto in grado di ripetere con la precisione di un liutaio. Imparava termini mai usati da nessuno, disegnava mondi sconosciuti, abitati dalle persone a cui voleva bene. Disegnava enormi barche di zucchero e tendoni del circo in fiera nel cortile della sua casa. Al timone suo padre. Sul filo, sospeso tra una nuvola e una stella a trenta punte, suo padre. Marinaio ed equilibrista. E medico, dottore di tutte le malattie curabili con le caramelle. 
Ecco, queste cose possono sembrare sciocche. Ecco, non lo sono. Queste cose sono le stesse che fai tu, e credo le stesse che faccia ogni bambino del mondo, ma tu le fai meglio. Ogni bambino le fa meglio. 
Ogni bambino dal niente genera mondi irrazionali, eppure di quei mondi sa dire, raccontare, spiegare, con una logica convincente al punto da lasciare senza fiato il più illustre rettore universitario. Ogni bambino ha fermato il tempo il giorno in cui è nato. Tutti i bambini hanno rallentato la rotazione terrestre consentendo al sole di splendere più a lungo. È da qui che nasce l’espressione venire alla luce, non si tratta solo della luce fuori dal pancione delle loro mamme, è una luce speciale, un bacio dal cielo alla culla, lungo il tempo che serve a capacitarsi di quanto possa essere eccezionale il miracolo che avviene da sempre, eppure non riesce a perdere neanche una sfumatura d’ombra dello stupore che si trascina dietro a ogni respiro, passo, gesto.

Ti racconto questa cosa. Ah un giorno era a casa, era pomeriggio, sua madre le stava preparando il pane con la confettura di albicocche, le piacciono molto le albicocche. Suo padre non stava bene: solo un po’ di febbre, qualche starnuto. Ad Ah era stato detto di non avvicinarsi a lui, avrebbe potuto ammalarsi. Camminava appena, instabile, i passi strani dei cuccioli, che sollevano troppo le ginocchia e sembrano avanzare come muovendosi nel cerchio di una danza africana. Con quei passi è andata verso la stanza del suo papà, sua madre a rincorrerla per portarla indietro, invece non ce n’è stato bisogno. Ah si è fermata davanti alla porta, l’orecchio teso fino all’istante in cui un colpo di tosse è riuscito a sovrastare il volume basso della televisione, allora si è voltata, “tosse”, ha detto, l’espressione vagamente contrita andava trasformandosi in sollievo. “Tosse solo”, ha pronunciato queste due parole come a stabilire che era tutto a posto, tornando in cucina e sedendosi sullo sgabello, finalmente serena. Non so cosa siano le malattie per i bambini, un pericolo suppongo, intuiscono l’ipotesi degenerativa che si cela dietro quel termine, quella condizione. So che la premura e la dolcezza di Ah, che senza entrare, senza disturbare, si accerta che il suo papà sia malato ma ci sia, che stia bene in fondo, che la sua sia solo tosse, per me è una cosa così grande, dolce, così piena di protezione, interesse, e potrei andare avanti e riempire pagine di aggettivi, ma non lo farò. Dirò solo che per me sei tu, i tuoi baci piccolissimi, infiniti, pronti, come urgentissimi. La tua capacità d’intuire, sapere qual è il momento in cui quei baci mi servono davvero, e mi servono così tanto che non ricordo più di che colore fosse il mare, che sapore avessero le arance prima dei tuoi baci. 

Lascia che ti racconti ancora qualcosa. Ah ogni tanto canta qualche strofa della canzone preferita di suo padre, anche tu lo fai. È normale, va bene, facciamo finta che sia normale, ma non lo è. Ti piacciono canzoni diverse da quelle che ascolto io, eppure di tanto in tanto mi concedi di ascoltare dalla tua voce, che lo sai, è la mia voce preferita in assoluto, la versione live della colonna sonora di un pezzetto della mia vita. Non è normale quello che mi succede, non è normale come mi sento, dura un istante, un momento di comunione tra te, me e chi sono stato prima ancora che tu esistessi. Quell’istante non è normale.
Ah ha i suoi gusti, oltre alle albicocche le piacciono molto il cioccolato e la polenta che fa sua nonna in inverno, che è anche il piatto preferito di suo padre. Tu hai i tuoi gusti, ti piacciono le patatine e il gelato, non ti piace il cocomero. Allora, il cocomero piace a tutti. A tutti. È grande, tondo come un pallone da spiaggia, verde come una zebra se le zebre facessero la fotosintesi, e poi è rosso, dentro è sorprendentemente rosso, questo basta a renderlo fantastico. Poi c’è il fatto che il cocomero non lo trovi dal fruttivendolo tutti i giorni, come le carote, no, devi aspettare l’estate, il caldo, la fine della scuola, allora il cocomero diventa prezioso e spensierato, freschezza dopo tanto sudare. Il cocomero piace a tutti, per forza. Ma a te no. E neanche a me. Capisci? Vogliamo tornare a dire che è normale anche questo? Va bene. È normale. È normale solo se non sei un padre però. Altrimenti è magia, è qualcosa di mio che è cresciuto dentro te, qualcosa che non potevo immaginare fino al giorno in cui hai rifiutato quella fetta rossa e hai fatto la stessa faccia che credo di aver fatto io la prima volta in cui qualcuno mi ha messo davanti un cocomero dicendomi di assaggiarlo. Dicendomi che era buono, troppo buono.

Ah, e questo non è il nome di quella bambina. Ah adesso è il mio sbadiglio, il prologo di ogni volta che sogno di averti con me, è la prima nota della mia risata quando mi rendo conto che non ho bisogno di sognare, tu ci sei. 
È la parte più vera di me che comprende quanto meravigliosa sia la vita. Ah, ho capito. È questo il senso di tutto.
La tua vita, e la mia dentro la tua.

Il ’56

Quando avevo la tua età, mia nonna mi portava spesso in campagna. Lì aveva un piccolo recinto con poche galline, in qualche periodo un paio di conigli. Mentre mio nonno dava l’acqua all’orto, lei entrava nel recinto e si infilava nella casupola dove le galline andavano a fare le uova. Usciva trionfante scandendo il numero delle uova che portava in grembo strette nel grembiule.
Quando mi raggiungeva, sistemava le uova in un paniere e ne sceglieva una tra le più grandi, la puliva col grembiule e con una punta la bucava sopra e sotto. Poi mi passava l’uovo e io ne bevevo d’un fiato tutto il bianco. Glielo ripassavo e lei ne toglieva accuratamente metà guscio per ripassarmi la parte rimasta che conteneva il rosso e alcuni pezzetti di pane tagliati a strisce sottili e lunghe che infilavo nel tuorlo per mangiarlo. 
Ricordo ancora oggi esattamente il gusto di quelle uova. È un sapore che non è mai sparito, sopravvivendo intatto agli anni che passano. Non credo di aver mai più mangiato uova crude da allora. E a tutt’oggi l’idea stessa mi crea qualche problema. Ma quel ricordo no. È un ricordo dolce, esaltato dal sapore che aleggia indisturbato nella memoria.
Esattamente come il profumo che immediatamente raggiunge la mente e di lì l’olfatto se penso ad alcuni dei piatti che mia nonna cucinava per me. Ce ne sono tre in particolare che non dimenticherò mai e che nessuno, nonostante i tanti tentativi, è mai riuscito a replicare. Sono ricette semplici e allo stesso tempo sacre che mia nonna si è portata nella tomba lasciandomi appiccato alla memoria solamente un ricordo indelebile, come l’uovo col pane o la favola del bacile d’oro che mi raccontava la notte, prima di dormire, quando mio nonno non c’era e io le facevo compagnia.

Il primo di questi è una torta rustica, la chiamava pizza sfogliata, anche se chiamarla torta o pizza non rende l’idea di cosa fosse. È una pasta sfoglia sottile, sulla quale veniva adagiato un impasto di formaggio, salsiccia, uova e pepe e poi arrotolata. Normalmente la preparava per carnevale e pare sia una cosa tipica del nostro paese. Anche tua nonna la fa qualche volta, ma non ha lo stesso sapore.
Il secondo piatto si chiamava filoscio, ed era un piatto veloce, di quelli che prepari al volo quando sei in ritardo sul pranzo. Io e tuo zio lo adoravamo e lo chiedevamo sempre nei giorni in cui pranzavamo da lei. È molto semplice. Una frittata d’uovo, come un’omelette, con dentro del formaggio, cotta in una padella di sugo di pomodoro. Non ho mai provato a farlo da solo. So che riuscirei a cucinare solo qualcosa al gusto di delusione. 
Il terzo piatto erano i fagioli cotti nella pignatta, al calore del camino. Quando mia nonna decideva di prepararli, riempiva la pignatta di fagioli e acqua sin dal mattino, appena sveglia e li lasciava per tutto il giorno lì a borbottare ed emanare un profumo sottilissimo che veniva su leggero leggero e avvolgeva tutta la casa. Anche tua nonna ha una pignatta e ogni tanto d’inverno la tira fuori e ci ficca dentro i fagioli ma, come potrai ormai indovinare, non hanno mai avuto lo stesso sapore di quelli di mia nonna. 

Pensavo a tutte queste cose qualche giorno fa, mentre trafficavo tra fornelli e padelle. Tu eri seduta al tavolo e ti lamentavi perché le zucchine no, l’insalata no, gli spinaci nemmeno. Ho aperto il frigo ed estratto un uovo dalla scatola e in quel momento mi è tornato in mente l’uovo col pane. Mi sono rigirato l’uovo tra le mani, chiedendomi se l’ingrediente segreto che renda ancora oggi a distanza di 30 anni i suoi piatti favolosi sia il ricordo. Provo a ritornare ad allora per capire se quando li provavo, assaggiavo, avevano già un sapore speciale o fossero invece normali pietanze, magari molto buone ma non speciali. Non so rispondere. E tutto ciò mi porta a pensare a ciò che riempie le nostre giornate oggi. Le piadine prosciutto e mozzarella, la pasta e lenticchie che ogni tanto mi chiedi di preparare ma solo se la faccio come quella volta che ti era piaciuta tantissimo, le crostate alla marmellata o tutte le piccole, a volte piccolissime, cose che preparo per te. E mentre lascio cadere un uovo sulla padella che sfriccica mi chiedo se questo uovo, proprio questo, un giorno avrà un sapore speciale nel tuo ricordo. Quest’uovo o l’hummus che ti ho fatto provare e tu hai chiamato uomos o il taramà che ti ho convinto essere mocciolo di unicorno e nonostante tutto ti ha fatto schifo, le alici senza le quali il mio mondo sarebbe un mondo peggiore e che tu non ti sognerai mai nemmeno di provare o le fette di pane e olio che vincono sempre su tutto. Chissà se questo o qualcos’altro vincerà il tempo e un giorno sarà arricchito dall’ingrediente segreto del ricordo, diventando indelebile e irripetibile. Forse dovrei appuntarmi da qualche parte i piatti che riempiono le nostre cene, i nostri pranzi, gli spuntini. Segnarmi cosa ho messo nei panini, con cosa ho preparato la pasta e lenticchie, lasciare una traccia dei tuoi gusti a sei anni, a sette, e poi ancora. Un modo per darti modo, da grande, di tornare indietro a quella volta in cui, a quel sapore che, a quel piatto come lo preparava papà. Ma poi no. Non so se funzionerebbe. Le cose buone, quelle buone per sempre, hanno bisogno solo del cuore, delle papille gustative nascoste in certi battiti. E io per te sono capace di cucinare solo così, spesso di corsa, con i fornelli accesi, netflix che non ti funziona, l’olio che è finito, la crostata in forno che ho scordato e  si è bruciacchiata ma solo un po’ e tutto sommato è ancora mangiabile. Un modo che forse ricorderai strampalato, sempre in ritardo, distratto, confusionario, arrovellato certo volte, incasinato, ma sempre solo per te. E tu questo lo saprai, questo sarà per te il sapore.

Il tuo maglione mio

Ho dormito nel letto insieme alle briciole della tua colazione. Ti piace mangiare biscotti lì, è la tua maniera preferita di iniziare la giornata.
Tu fai così: sei capace di trascurare il fastidio, sai accettare il disagio fino a non considerarlo affatto.
Così come hai iniziato la tua giornata da me, hai affrontato anche il tuo primo giorno di scuola. A tuo modo: tra esitazione e curiosità. Vestita del tuo entusiasmo delicato e timido. Eri lì, dove sapevi di dover essere, semplicemente. Ti muovevi cauta e consapevole, ti ambientavi. Eri già capace di affrontare il tuo giorno senza importi e senza dimenticare chi sei, come sei. Senza forzature. Rispettandoti.
Allora ero solo io a sentire sulla pelle qualche briciola di disagio? Forse sono solo io a desiderare che tutto sia sempre comodo e semplice per te. Sono io a non rendermi conto che è già così? È già tutto alla tua misura, perché tu accetti gli istanti che vivi come fossero biscotti e mastichi le tue esperienze all’esatto ritmo della tua fame.

L’hai fatto anche dal dentista. Sei entrata sicura, camminando come tra le pareti di casa tua, incurante del fastidio che forse ti procureranno i gancetti del tuo apparecchio. Stai facendo qualcosa che forse cambierà un po’ il tuo sorriso, inconsapevole eppure certa che tutto cambierà in meglio. 
A volte mi lasci in bilico tra il desiderio, quasi il bisogno innato, di costruire un mondo perfetto intorno a te e la certezza che questo mondo esiste già, e tu lo abiti. Sei tu ad essere capace di vederlo così, capace di fidarti, pronta a rassicurarmi con un solo, quasi impercettibile gesto a movimento della tua espressione. Accenni un sorriso che si trasforma in parole e sembra dirmi “tranquillo papà, tutte le cose che non puoi fare, quelle che ti fanno sentire insicuro, quelle che neanche immagini possano essere importanti, quelle di cui credi di non essere capace, le stai già facendo. Le stiamo facendo insieme, ti basterà allontanare la paura per accorgertene”.
Allora le briciole sì, forse graffieranno un po’ le braccia girandoti tra le lenzuola, ma si tratta solo di solletico. Forse le briciole renderanno un po’ meno liscia la superficie dei nostri pensieri, ma in fondo è solo zucchero mischiato alla farina e al lievito.

Fai colazione come vuoi.
Inizia le tue cose come sai già fare.
Non smettere di insegnarmi a mangiare biscotti lasciando cadere briciole ovunque.

Culodritto

Quando siamo entrati a casa di Giacomo e Anne tu hai trascinato la tua valigetta fino al centro della stanza, hai fatto un giro a 360 gradi e hai esclamato “ma questa casa è piccolissima!”. Io ti ho fulminato con lo sguardo mentre Giacomo e Anne sono scoppiati a ridere. Tu non hai capito né le loro risate, né il mio sguardo e hai aggiunto: “ma come si fa a vivere in una casa così?”.
Lui allora ti si è avvicinato, per prenderti la valigia di mano e provare a spiegarti che a Parigi le case sono molto piccole ma che la gente si ingegna per renderle più vivibili, soppalcandole, arredandole su misura, riducendo all’essenziale le cose che servono per vivere.
Nel frattempo, io avevo raggiunto la finestra spalancata e sporgendomi sono rimasto folgorato, come fosse la prima volta, dal grigio bello di Parigi e dal Sacro Cuore che spuntava prepotente dietro all’ultimo palazzo a destra del mio sguardo. Alle mie spalle ho sentito lo scricchiolio del legno del soppalco accogliere i tuoi passi, mentre girandomi ti ho trovata affacciata a due metri d’altezza che mi facevi “ciao ciao”, ormai perfettamente integrata nella nostra casa parigina.

I tre giorni che sono seguiti sono volati come una parentesi leggera, tra baguette, croissant, quiches, la Senna, il palazzo dell’evoluzione, e cenette attorno al tavolino di Montmartre con prosciutto, salame, formaggi e vino. Tu osservavi ogni cosa e a me pareva di vederti così grande e indipendente da chiedermi se fossi tu a portare in giro me o io te. 
È stato così strano trovarsi per la prima volta all’estero, noi due soli. Mentre io ti racconto le cose che ricordo di Parigi e tu mi chiedi cosa significa “merci”, “aujourd’hui”, “toujours”. Poi ci fermiamo a comprare i biglietti della metro e io ripeto nella maniera migliore che posso la frase che ho tradotto di nascosto qualche minuto prima su google translate, osservando con la coda dell’occhio la tua espressione e riempiendomi il petto. Mi chiedo quanto di tutto questo rimarrà nella tua memoria, quando un giorno saprai raccontare del viaggio a Parigi che facesti a sette anni da sola con tuo padre. Quanto vorrei essere in quel momento che verrà per scoprire se sarò stato un padre divertente, coraggioso, simpatico, socievole, spigliato, il miglior padre del mondo, come ogni tanto mi dici.

Intanto, l’ultimo giorno andiamo alla Torre Eiffel che da mesi vuoi vedere, sin da quando hai cominciato regolarmente a vederla sullo sfondo di ogni puntata di Ladybug. Arriviamo sotto la torre e, come sospettavo, tu mi chiedi di salire in cima. Io allora ti propongo di prendere le scale perché, ti dico, “così potrai ricordarti della volta che tuo padre ti costrinse a scalare una torre alta 300 metri”. Tu mi dai retta e mi segui. Ci imbarchiamo allora nella nostra impresa, divertendoci a contare i gradini e scoprire solamente quando abbiamo superato la metà che il numero è scritto di dieci in dieci al lato della scalinata. Poi arriviamo al primo piano, per premio ci regaliamo una ciambella gigantesca nel bar con la vista sulla città e io ti propongo di proseguire almeno fino al secondo piano. Tu accetti ancora, stringendomi la mano. Al quattrocentisimo gradino però mi dici che non ne puoi più. Ci affacciamo allora alla balaustra e guardiamo fin dove lo sguardo riesce a vedere. Contempliamo Parigi, le nuvole che compongono animali giganteschi, lo strano sole che illumina i tetti.

Vedi, tesoro, ho pensato una cosa mentre eravamo sull’aereo di ritorno. La scrivo per non dimenticarla. Mi sono sempre addormentato istantaneamente ogni volta che sono salito su un treno o un aereo. Con te non è possibile perché vuoi che ti tenga compagnia e ti dica dettagliatamente cosa fare per non annoiarti. Così è andata anche stavolta. La mia testa, subito dopo il decollo, ha cominciato a penzolare e tu mi hai baciato, lasciandomi un bacio al sapore di Kinder Bueno sulla barba e chiedendomi di non dormire. Io allora ho preso il tappo della bottiglietta che avevamo davanti al sedile e ti ho detto “sotto mano di papà, dove sta qui o qua?”. Tu hai indovinato e a tua volta hai ripetuto il giochino. Quando è toccato di nuovo a me però ho lasciato che il tappo mi scivolasse sotto una gamba e ti ho chiesto di indovinare. Naturalmente non lo hai trovato e io non ti ho mostrato il vuoto che avevo pure nell’altra mano. Ho ripetuto lo scherzo per altre 10 forse 15 volte e tu ogni volta sbagliavi e ti arrabbiavi con te stessa per la sfortuna che avevi e mai, mai, hai pensato che anche l’altra mano potesse essere vuota. Fino a quando mi sono messo a ridere e ti ho rivelato lo scherzo. Ecco, amore, la fiducia cieca che hai in me è qualcosa di così unico e raro che probabilmente non esiste in nessun altro luogo della vita. Non so quando arriverà il momento in cui tutto questo si spezzerà e semplicemente dubiterai di me. Fino ad allora, io sarò il tuo eroe e potrò farti scalare 400 scalini della Torre Eiffel come fosse un gioco o convincerti che una mano chiusa contiene inevitabilmente un tappo. Tutto questo non ha nome ma è senz’altro la sensazione più bella che io abbia mai provato. Ecco, volevo farti una promessa anche se non so quanto saprò mantenerla. Volevo prometterti che non nasconderò mai più il tappo.

Piangi Roma

A Roma fa caldo e la notte si fa fatica a dormire. Per me che tengo le imposte della finestra chiuse è anche peggio. Ho paura che entri un geco in casa e la paura vince sul caldo e il bisogno di areazione. Non so se tu riesci a percepirla. Ogni tanto, quando siamo per strada di sera, ti indico un geco sulle pareti dei palazzi e ti dico “guarda!”. Lo dico forse più a me che a te, per sembrarti coraggioso e senza paura. Tu osservi la bestia ma non ti avvicini mai. A volte dici “che schifo!”, qualche altra “come è ciccione”, ma non ho ancora capito se ti terrorizzano come terrorizzano me oppure se tutto sommato ti lasciano indifferente. Una delle ultime imprese compiute in casa vostra fu proprio catturare un geco che si era intrufolato in casa. Tua madre, che ne ha un timore forse anche superiore al mio, lo vide attraversare la parete dietro alla televisione. Tu eri già a letto che dormivi. Io non lo vidi e provai a rassicurarla, convincendola che l’aveva sognato. Quando però lo vidi anch’io fu il panico. Due adulti che saltano sul divano per paura di una creatura piccola e innocua però viscida e disgustosa. Il mio terrore principale è sempre stato trovarmelo nel letto, sentire le sue zampette da rettile che percorrono le mie gambe, fino a infilarsi sotto la t-shirt e poi chissà salirmi sul viso.

Passai più di due ore con una scatola di scarpe vuota in mano, sentendomi Willy il coyote che tenta di catturare Beep-Beep che però è troppo veloce, furbo e praticamente imprendibile. Alla fine però riuscii a catturarlo, smontando mezza casa e incastrandolo su una parete del corridoio, dietro agli scaffali con i tuoi giocattoli. Queste cose non te le ho mai raccontate per non sembrarti debole e soprattutto per non trasmetterti paure. Nella mia mente ho sempre desiderato che tu diventassi una di quelle bambine che vanno a caccia di lucertole, le catturano a mani nude e le osservano da vicino con la perizia di uno zoologo. Naturalmente tu non diventerai mai ciò che io o qualcun altro sogniamo o abbiamo sognato. Per dire che ieri notte ero a letto che continuavo a rigirarmi per trovare una posizione per dormire ed ero forse in quello stadio in cui stai già dormendo ma sei ancora cosciente. Poi ad un tratto suona il telefono, mi alzo di scatto spaventato, lo afferro e leggo il nome di tua madre sullo schermo. Guardo l’ora: mezzanotte e mezza. Mi affretto a rispondere. Dall’altra parte del telefono sento solo silenzio. Ripeto “pronto”, poi il nome di tua madre, fino a quando sento la tua vocina dirmi “papà… mi manchi tanto”.

Tu e tua madre siete per qualche giorno in vacanza a Barcellona. Andate in giro, ogni tanto mi inviate foto in cui sembrate rilassate e divertite. C’eravamo già sentiti almeno due volte durante la giornata, mi avevi raccontato di aver visitato l’acquario, di un pesce che sembrava una conchiglia, del taxi, del caldo, del gelato spagnolo che è meno buono di quello di Roma. In nessuno di questi momenti mi eri sembrata triste o che stessi pensando a me. Eppure nel cuore della notte hai aperto gli occhi, afferrato il telefono di tua madre, chiesto a Siri di chiamarmi per dirmi che ti mancavo tanto e che non riuscivi a dormire, anche se sei partita solo da due giorni. Mi si è stretto il cuore e ho provato in tutti i modi a farti ridere, senza successo. Allora mi sono risdraiato a letto e ho cominciato a raccontarti di quanto manchi anche tu a me. Nel dormiveglia devo averti raccontato dei grandi esploratori, che sono uno dei miei cavalli di battaglia, del fatto che se non avessero afferrato a due mani il coraggio e affrontato la lontananza, non avrebbero fatto nessuna delle scoperte che hanno fatto e, insomma, di pensare che sto bene e sei sempre nei miei pensieri e che, a differenza dei grandi esploratori, tu puoi sempre prendere il telefono e chiamarmi o addirittura vedermi in videocall.  Devo averti tranquillizzata perché mi hai salutato come fai sempre quando mi saluti al telefono: dici “ok, ciao!” e attacchi senza aspettare il mio saluto di risposta. Ho appoggiato il telefono sul comodino. Il sonno era ormai passato. Ho allora afferrato il libro che ho accanto a letto e cominciato a leggere. È il libro che mi hai regalato per il mio compleanno, una graphic novel. Tua madre mi ha detto che lo hai scelto perché il tizio in copertina somigliava a me e la cosa assurda è che in ogni pagina che leggo mi ritrovo in maniera inquietante. Vado avanti per un po’ nella lettura, fino a quando volto pagina e trovo il tuo disegno piegato in due. Ci siamo io e te che ci teniamo per mano e sopra di noi campeggia un cuore giallo gigantesco che contiene la scritta “sei il papà migliore del mondo!”. Sorrido, mi commuovo un po’, penso ad alta voce: Tu sei la figlia migliore del mondo!

L’Internazionale

Le maestre della tua classe hanno deciso di mettere in scena per la recita di fine anno una rielaborazione di Inside Out e, dopo alcuni provini, hanno assegnato le parti.
Tu sei tornata a casa triste e malinconica, raccontando che ci eri rimasta male perché ti era toccata la Noia mentre tu avresti voluto con tutta te stessa essere l’Amore. Mi ha fatto sorridere il fatto che nel tuo mondo non stai interpretando una parte quanto piuttosto assumendo quel ruolo nella vita. Questo ti ci ha fatto rimanere male, forse perché deve essere scattato in te un meccanismo mentale per il quale devi aver pensato che affidandoti quella parte per le tue maestre sei una bambina noiosa.

Io, per farti ridere, ti ho detto che ti avrei visto meglio come La Lagna ma non ha attecchito poi tanto.
Mi sono così fermato a riflettere un secondo su quanto siamo diversi e, ancora, sulle cose che io avrei sempre voluto per te, sin dal primo momento che ti ho vista.
Il mio puffo preferito, quando avevo più o meno la tua età, era brontolone. Pur amando esageratamente la perfetta armonia che regnava a pufflandia, mi piaceva da morire il suo brontolio di sottofondo, quell’imperituro io odio le puffragoleio odio le festeio odio l’estate, mi pareva il modo migliore di non essere omologato alla massa dei puffi che accettavano passivamente l’andirivieni delle giornate. Che poi, brontolone il più delle volte si limitava a lamentarsi ma, di fatto, si allineava alle regole come tutti gli altri. 

Io mi sentivo simile a lui. Nel mio mondo di bambino, banale e un po’ noioso, provavo con tutto me stesso a respingere la banalità delle giornate con il mio “io odio”, pur restando ligiamente dentro al sentiero delle regole. Sono cresciuto allo stesso modo, alternando periodi di ribellione a stasi che potevano durare lunghissimi mesi. Forse pure per questo, se mi avessero assegnato la parte della noia lo avrei probabilmente trovato divertente e mi avrebbe fatto sentire fuori dal coro.
Eppure – e per fortuna – tu non sei me. E, nonostante gli ingenui tentativi di ricercare in te parti di me, è da quando sei piccolissima che tento, con la complicità di tua madre, di inculcarti valori, passioni, ideali che siano il più universali possibili, ben al di là dei miei che si sono scontrati quasi sempre col cinismo e il disincanto. 

Quando eri ancora nella pancia di tua madre – per dire – spesso la sera ci sdraiavamo uno accanto all’altro a letto, io le scoprivo la pancia, bussavo delicatamente e ti parlavo. Una delle prime cose che avevo comprato per te, era un carrillon che produceva le note de L’Internazionale. Chiedevo la tua attenzione e mi immaginavo te, piccolissima e svelta, che avvicinavi l’orecchio alla parete della pancia. Io avviavo il carrillon e cominciavo a cantare sottovoce Compagni avanti il gran partito noi siamo dei lavoratori

Tutto è cominciato così, con le note di una canzone senza tempo. Sin da allora, avrei voluto per te solo il meglio: lealtà, sincerità, onestà, altruismo. Cose che provo (proviamo) a farti vedere e sperimentare in ogni singolo istante delle tue giornate.
Così, se oggi quando andiamo in giro non mi sorprendo se ti vedo ficcare nello zaino la Costutuzione italiana per bambini, forse non dovrei sorprendermi nemmeno perché nella recita di fine anno vorresti essere l’amore. 

Sui fallimenti e i successi – parte prima

Di recente mi hai visto poche volte sereno, sebbene io faccia di tutto per mascherare i miei stati d’animo e sembrarti sempre allegro, pimpante, rilassato, smart. L’immagine del papà che vorrei essere, quello che le amichette di scuola potrebbero invidiarti. Ovviamente tanto più il mio attegiamento diventa posticcio, tanto più è facile per te indovinare le situazioni e interpretarle. Così, a seconda dei casi, diventi più affettuosa, talvolta enormemente amorevole, al punto da non mollarmi un secondo, tenermi continuamente stretto a te e sussurrarmi cose dolci tipo “papà io ti amo da morire!”. Tutto questo è così commovente che qualche volta sono costretto a girarmi di scatto e inventarmi scuse diverse per nascondere le lacrime che vorrebbero a tutti i costi liberarsi di me. Altre volte invece sei decisa e diretta e mi chiedi “papà è un sacco che non ti vedo ridere? Perché non ridi?”. E io invento situazioni buffe per le quali siamo costretti entrambi a ridere. 

È forse anche per questo che ti sei meravigliata molto quando qualche giorno fa all’uscita di scuola mi hai trovato con un sorriso smagliante. Mi sei corsa incontro, mi sei saltata in braccio e mi hai sentito dire “andiamo a prenderci un gelato, devo raccontarti una cosa!”.
Così, davanti al tuo cono cocco e amarena e al mio puffo e fragola, ti ho raccontato che ho vinto un concorso. “Ti ricordi”, ti ho detto, “quando fino a qualche settimana fa mi vedevi sempre studiare, avevo riempito una parete di post-it e la scrivania era ricoperta di appunti e libri?”
Stavo studiando per un concorso che mi avrebbe permesso di ottenere un livello più alto a lavoro e oggi ho ricevuto una telefonata che mi ha confermato di aver vinto. Era un esame estremamente difficile, nella fase preselettiva eravamo più di mille, allo scritto siamo arrivati in duecento, all’orale in venticinque e di questi venticinque tuo padre è arrivato ottavo. L’ho detto riempendomi il petto, mostrandomi molto fiero e tu mi hai guardato come un padre vorrebbe che una figlia lo guardasse tutti i giorni della sua vita. Mi hai poi chiesto “e gli altri?”. Io ti ho risposto “gli altri cosa?”. “Gli altri, quelli che non hanno vinto, ci sono rimasti male?”. “Beh, non so. Non li conosco personalmente.” 

Ne ho approfittato per rifilarti la manfrina di rito del “se ti impegni puoi raggiungere qualunque risultato e solo chi crede davvero in quello che fa ottiene quello che desidera”.
Tu mi hai fatto un sorriso bellissimo. Hai guardato un punto lontano e mi hai detto “papà lo sai che oggi a scuola abbiamo giocato a Uno?”. “Bello!”, ti ho risposto. “Io però ho perso”, hai aggiunto mesta. Ora, io so che tu sei tra gli alunni migliori della tua classe e che le maestre te lo ricordano continuamente. Avresti dunque potuto soffermarti su questo e pensare qualcosa tipo “se continuo così allora da grande potrò fare la dottoressa, il veterinario, la ballerina, l’astronauta”. Invece hai fatto prevalere quel tipico difetto di famiglia per il quale ci piace da morire concentrarci sempre sul vuoto del bicchiere. Stavolta però non te l’ho data vinta e non ti ho consolata. Ti ho fatto una pernacchia e detto “perché sei una schiappa!”. Tu hai riso, fatto finta di offenderti e aggiunto “quando arriviamo a casa facciamo una sfida all’ultimo sangue a Uno?”