Sui fallimenti e i successi – parte prima

Di recente mi hai visto poche volte sereno, sebbene io faccia di tutto per mascherare i miei stati d’animo e sembrarti sempre allegro, pimpante, rilassato, smart. L’immagine del papà che vorrei essere, quello che le amichette di scuola potrebbero invidiarti. Ovviamente tanto più il mio attegiamento diventa posticcio, tanto più è facile per te indovinare le situazioni e interpretarle. Così, a seconda dei casi, diventi più affettuosa, talvolta enormemente amorevole, al punto da non mollarmi un secondo, tenermi continuamente stretto a te e sussurrarmi cose dolci tipo “papà io ti amo da morire!”. Tutto questo è così commovente che qualche volta sono costretto a girarmi di scatto e inventarmi scuse diverse per nascondere le lacrime che vorrebbero a tutti i costi liberarsi di me. Altre volte invece sei decisa e diretta e mi chiedi “papà è un sacco che non ti vedo ridere? Perché non ridi?”. E io invento situazioni buffe per le quali siamo costretti entrambi a ridere. 

È forse anche per questo che ti sei meravigliata molto quando qualche giorno fa all’uscita di scuola mi hai trovato con un sorriso smagliante. Mi sei corsa incontro, mi sei saltata in braccio e mi hai sentito dire “andiamo a prenderci un gelato, devo raccontarti una cosa!”.
Così, davanti al tuo cono cocco e amarena e al mio puffo e fragola, ti ho raccontato che ho vinto un concorso. “Ti ricordi”, ti ho detto, “quando fino a qualche settimana fa mi vedevi sempre studiare, avevo riempito una parete di post-it e la scrivania era ricoperta di appunti e libri?”
Stavo studiando per un concorso che mi avrebbe permesso di ottenere un livello più alto a lavoro e oggi ho ricevuto una telefonata che mi ha confermato di aver vinto. Era un esame estremamente difficile, nella fase preselettiva eravamo più di mille, allo scritto siamo arrivati in duecento, all’orale in venticinque e di questi venticinque tuo padre è arrivato ottavo. L’ho detto riempendomi il petto, mostrandomi molto fiero e tu mi hai guardato come un padre vorrebbe che una figlia lo guardasse tutti i giorni della sua vita. Mi hai poi chiesto “e gli altri?”. Io ti ho risposto “gli altri cosa?”. “Gli altri, quelli che non hanno vinto, ci sono rimasti male?”. “Beh, non so. Non li conosco personalmente.” 

Ne ho approfittato per rifilarti la manfrina di rito del “se ti impegni puoi raggiungere qualunque risultato e solo chi crede davvero in quello che fa ottiene quello che desidera”.
Tu mi hai fatto un sorriso bellissimo. Hai guardato un punto lontano e mi hai detto “papà lo sai che oggi a scuola abbiamo giocato a Uno?”. “Bello!”, ti ho risposto. “Io però ho perso”, hai aggiunto mesta. Ora, io so che tu sei tra gli alunni migliori della tua classe e che le maestre te lo ricordano continuamente. Avresti dunque potuto soffermarti su questo e pensare qualcosa tipo “se continuo così allora da grande potrò fare la dottoressa, il veterinario, la ballerina, l’astronauta”. Invece hai fatto prevalere quel tipico difetto di famiglia per il quale ci piace da morire concentrarci sempre sul vuoto del bicchiere. Stavolta però non te l’ho data vinta e non ti ho consolata. Ti ho fatto una pernacchia e detto “perché sei una schiappa!”. Tu hai riso, fatto finta di offenderti e aggiunto “quando arriviamo a casa facciamo una sfida all’ultimo sangue a Uno?” 

Putesse essere allero

Putesse essere allero e m’alluccano dint’e recchie
e je me sento viecchio
putesse essere allero cu mia figlia mbraccio
che me tocca ‘a faccia e nun me’ fa guardà

Del tuo bisnonno conservo un orologio col cinturino in metallo, il ricordo di una conversazione in spagnolo, risalente ai tempi in cui ero in erasmus in Spagna, le serate trascorse, da piccolo, a guardare insieme i film di Bud Spencer e Terence Hill e l’immagine di lui scavato dalla malattia e disteso a letto durante il nostro ultimo incontro. Parlava pochissimo e le volte che parlava emetteva una specie di mugugno che solo la tua bisnonna riusciva ad interpretare, nonostante fosse quasi sorda. A tutti noi sembrava invece di non conoscere la sua voce e non sapere quasi mai cosa volesse dire. Non credo però sia stato per questo che non ho mai saputo nulla di lui. Spesso infatti avevo l’impressione fosse in attesa. Eppure non sono mai riuscito a chiedergli niente.

Ho pensato al tuo bisnonno il 25 aprile scorso. Mi ero fatto fare i panini con la mozzarella e il prosciutto, i tuoi preferiti, avevo caricato in macchina il plaid, il frisbee, la palla e le carte da UNO e ti ho detto “andiamo a fare un pic-nic”. Poi, mentre eravamo all’ombra di un albero, e le mie palpebre giocavano alle calamite, tu mi sei salita sopra e hai poggiato la schiena nell’incavo delle mie ginocchia unite. Allora mi è parso fosse il momento di parlarti della Liberazione

È sempre difficile aprire queste parentesi storiche perché noi adulti tendiamo a dare troppe cose per scontate e finiamo per impelagarci in racconti che aprono voragini che, nel tentativo di colmare, ci fanno perdere l’obiettivo iniziale.

Così ti ho detto “sai che oggi è un giorno davvero speciale? È il giorno più importante dell’anno”. Allora tu mi hai chiesto se era più importante di Natale e io ti ho risposto di sì, “ma più importante del tuo compleanno?” e io ti ho detto di nuovo di sì, allora sei rimasta perplessa e hai detto titubante “ma più importante anche del mio compleanno?”. Guardando il terrore serpeggiare nei tuoi occhi, ho risposto “beh non quanto il tuo compleanno”. 

Ho cominciato dai capisaldi che già conosci: la guerra, i cattivi e gli oppressi. Poi ho introdotto i buoni e alla fine ho fatto vincere questi ultimi che, nella tua ricostruzione, sono andati di casa in casa a liberare gli italiani perché erano rimasti chiusi dentro per colpa dei cattivi che avevano chiuso a chiave da fuori, avevano incendiato tutto intorno e se ne stavano per strada a sbellicarsi dalle risate. In qualche modo però ha funzionato e hai tirato un bel respiro di sollievo.

A questo punto di ogni storia mi chiedi se io c’ero. Quando ti rispondo di no, vai a salire di generazione “e i nonni?”. “i nonni, nemmeno”. “E i tuoi nonni?”. Sì, i miei nonni c’erano, ti ho detto, e ti ho raccontato l’unica cosa che ho sempre saputo di mio nonno. E cioè che aveva una ferita di arma da fuoco sulla spalla, che i cattivi gli avevano sparato e un proiettile gli aveva passato la spalla da parte a parte. Tu hai voluto sapere tutti i dettagli e io ho potuto raccontarti soltanto quel poco che conoscevo. Mi hai chiesto se mio nonno aveva un buco sulla spalla e se ci si poteva guardare dentro, come un buco nel muro. Me lo hai chiesto mentre piangevi, perché – mi hai spiegato – ti dispiaceva tantissimo. 

Mi ha colpito davvero tanto che nel tuo mondo le ferite non si rimarginano mai, quasi a restare indelebili negli anni. Mi sono immaginato una scena un po’ macabra, di mio nonno durante uno dei pranzi della domenica, con la camicia sporca di sangue all’altezza della ferita. Eppure ti ho spiegato, dopo una pausa, che le ferite – tutte le ferite – guariscono sempre. A volte sono così profonde e complesse che richiedono molto tempo e cure. Noi guardiamo di solito la ferita e tendiamo a pensare che quel buco non ci abbandonerà mai, resterà per sempre lì col suo carico enorme di dolore e frustrazione. Ma col tempo, anche il buco più profondo guarisce. Ciò che resta è una piccola impronta, una specie di alone che chiamiamo cicatrice, che ci resta impressa sulla pelle, quasi a ricordarci quanto dolore è costato guarire.

“Ecco”, ti ho detto, “il 25 aprile è la nostra cicatrice”, lo abbiamo impresso sul calendario, a ricordarci ogni anno quanto dolore e sofferenza sia costato guarire dal male profondo che avevamo dentro. 

Mi hai sorriso, come solo tu sai fare, e mi hai detto “avrei voluto conoscere tuo nonno”, io ho risposto solo “già” ma dentro ho pensato “anch’io”.