Il ’56

Quando avevo la tua età, mia nonna mi portava spesso in campagna. Lì aveva un piccolo recinto con poche galline, in qualche periodo un paio di conigli. Mentre mio nonno dava l’acqua all’orto, lei entrava nel recinto e si infilava nella casupola dove le galline andavano a fare le uova. Usciva trionfante scandendo il numero delle uova che portava in grembo strette nel grembiule.
Quando mi raggiungeva, sistemava le uova in un paniere e ne sceglieva una tra le più grandi, la puliva col grembiule e con una punta la bucava sopra e sotto. Poi mi passava l’uovo e io ne bevevo d’un fiato tutto il bianco. Glielo ripassavo e lei ne toglieva accuratamente metà guscio per ripassarmi la parte rimasta che conteneva il rosso e alcuni pezzetti di pane tagliati a strisce sottili e lunghe che infilavo nel tuorlo per mangiarlo. 
Ricordo ancora oggi esattamente il gusto di quelle uova. È un sapore che non è mai sparito, sopravvivendo intatto agli anni che passano. Non credo di aver mai più mangiato uova crude da allora. E a tutt’oggi l’idea stessa mi crea qualche problema. Ma quel ricordo no. È un ricordo dolce, esaltato dal sapore che aleggia indisturbato nella memoria.
Esattamente come il profumo che immediatamente raggiunge la mente e di lì l’olfatto se penso ad alcuni dei piatti che mia nonna cucinava per me. Ce ne sono tre in particolare che non dimenticherò mai e che nessuno, nonostante i tanti tentativi, è mai riuscito a replicare. Sono ricette semplici e allo stesso tempo sacre che mia nonna si è portata nella tomba lasciandomi appiccato alla memoria solamente un ricordo indelebile, come l’uovo col pane o la favola del bacile d’oro che mi raccontava la notte, prima di dormire, quando mio nonno non c’era e io le facevo compagnia.

Il primo di questi è una torta rustica, la chiamava pizza sfogliata, anche se chiamarla torta o pizza non rende l’idea di cosa fosse. È una pasta sfoglia sottile, sulla quale veniva adagiato un impasto di formaggio, salsiccia, uova e pepe e poi arrotolata. Normalmente la preparava per carnevale e pare sia una cosa tipica del nostro paese. Anche tua nonna la fa qualche volta, ma non ha lo stesso sapore.
Il secondo piatto si chiamava filoscio, ed era un piatto veloce, di quelli che prepari al volo quando sei in ritardo sul pranzo. Io e tuo zio lo adoravamo e lo chiedevamo sempre nei giorni in cui pranzavamo da lei. È molto semplice. Una frittata d’uovo, come un’omelette, con dentro del formaggio, cotta in una padella di sugo di pomodoro. Non ho mai provato a farlo da solo. So che riuscirei a cucinare solo qualcosa al gusto di delusione. 
Il terzo piatto erano i fagioli cotti nella pignatta, al calore del camino. Quando mia nonna decideva di prepararli, riempiva la pignatta di fagioli e acqua sin dal mattino, appena sveglia e li lasciava per tutto il giorno lì a borbottare ed emanare un profumo sottilissimo che veniva su leggero leggero e avvolgeva tutta la casa. Anche tua nonna ha una pignatta e ogni tanto d’inverno la tira fuori e ci ficca dentro i fagioli ma, come potrai ormai indovinare, non hanno mai avuto lo stesso sapore di quelli di mia nonna. 

Pensavo a tutte queste cose qualche giorno fa, mentre trafficavo tra fornelli e padelle. Tu eri seduta al tavolo e ti lamentavi perché le zucchine no, l’insalata no, gli spinaci nemmeno. Ho aperto il frigo ed estratto un uovo dalla scatola e in quel momento mi è tornato in mente l’uovo col pane. Mi sono rigirato l’uovo tra le mani, chiedendomi se l’ingrediente segreto che renda ancora oggi a distanza di 30 anni i suoi piatti favolosi sia il ricordo. Provo a ritornare ad allora per capire se quando li provavo, assaggiavo, avevano già un sapore speciale o fossero invece normali pietanze, magari molto buone ma non speciali. Non so rispondere. E tutto ciò mi porta a pensare a ciò che riempie le nostre giornate oggi. Le piadine prosciutto e mozzarella, la pasta e lenticchie che ogni tanto mi chiedi di preparare ma solo se la faccio come quella volta che ti era piaciuta tantissimo, le crostate alla marmellata o tutte le piccole, a volte piccolissime, cose che preparo per te. E mentre lascio cadere un uovo sulla padella che sfriccica mi chiedo se questo uovo, proprio questo, un giorno avrà un sapore speciale nel tuo ricordo. Quest’uovo o l’hummus che ti ho fatto provare e tu hai chiamato uomos o il taramà che ti ho convinto essere mocciolo di unicorno e nonostante tutto ti ha fatto schifo, le alici senza le quali il mio mondo sarebbe un mondo peggiore e che tu non ti sognerai mai nemmeno di provare o le fette di pane e olio che vincono sempre su tutto. Chissà se questo o qualcos’altro vincerà il tempo e un giorno sarà arricchito dall’ingrediente segreto del ricordo, diventando indelebile e irripetibile. Forse dovrei appuntarmi da qualche parte i piatti che riempiono le nostre cene, i nostri pranzi, gli spuntini. Segnarmi cosa ho messo nei panini, con cosa ho preparato la pasta e lenticchie, lasciare una traccia dei tuoi gusti a sei anni, a sette, e poi ancora. Un modo per darti modo, da grande, di tornare indietro a quella volta in cui, a quel sapore che, a quel piatto come lo preparava papà. Ma poi no. Non so se funzionerebbe. Le cose buone, quelle buone per sempre, hanno bisogno solo del cuore, delle papille gustative nascoste in certi battiti. E io per te sono capace di cucinare solo così, spesso di corsa, con i fornelli accesi, netflix che non ti funziona, l’olio che è finito, la crostata in forno che ho scordato e  si è bruciacchiata ma solo un po’ e tutto sommato è ancora mangiabile. Un modo che forse ricorderai strampalato, sempre in ritardo, distratto, confusionario, arrovellato certo volte, incasinato, ma sempre solo per te. E tu questo lo saprai, questo sarà per te il sapore.

Yesterday Was Dramatic – Today Is OK

Nella stanza di tua madre c’è ancora il comodino che ho costruito io, uno dei pochi oggetti sopravvissuti alla bonifica della mia presenza. È stata una delle ultime cose che ho fatto prima di andarmene. È costituito da due cassetti, presi da un tavolino che doveva essere buttato. I due cassetti sono avvitati l’uno all’altro, mentre la base è diventata il ripiano del comodino. A vederlo fa proprio un bel effetto e mi ricorda quanto mi sia sempre piaciuto costruire le cose, che poi è la stessa ragione per la quale amo scrivere.
Rispetto a quando vivevo io in questa casa, la stanza è adesso più spoglia o forse semplicemente più ordinata. Sulla cassettiera sono adagiati gli oggetti di tua madre mentre un manichino sartoriale accoglie sciarpe e collane. Tutti gli armadi sono adesso pieni dei suoi vestiti.

Tu te ne stai sdraiata sul letto mentre guardi l’ennesima puntata di Geronimo Stilton su Netflix. Ogni tanto sorridi, qualche volta ridi di gusto, di tanto in tanto richiami la mia attenzione su qualche particolare che dai per scontato mi sia sfuggito e che non è certo sfuggito a te che stai riguardando la stessa puntata per la milionesima volta. Io sono sdraiato accanto a te, guardo pure io Geronimo ma in realtà non sto guardando davvero. Penso.
Penso tutte le cose che mi riempiono la testa ultimamente. Tutte cose che non posso spiegarti né raccontarti perché dovrei affrontare una storia complicata cominciata tre anni fa e di cui tu non sei mai stata messa a parte.
Geronimo intanto ha smascherato il mistero del topo mannaro avvistato in Transtopacchia e la sigla del nuovo episodio mi avvisa che è forse ora di andare.

Faccio dunque per alzarmi, cominciando quel rito che un tempo avrei pagato per evitare e che ancora oggi mi crea qualche difficoltà: dovermi congedare da te. Mi stiracchio, provo a tirarmi su, ti dico “amore papà va via”. Chissà perché in questi casi uso sempre la terza persona invece della prima. In realtà non mi alzo completamente dal letto, è solo una messa in scena, perché conosco benissimo cosa dirai. E infatti tu non ti smentisci e mi dici “papà altri 5 minuti”. Rispondo che va bene sapendo che me ne chiederai poi altri cinque e che forse al terzo tentativo riuscirò ad avvicinarmi alla porta. Va naturalmente tutto come da programma e al terzo tentativo sono in piedi, con le scarpe ai piedi mentre srotolo il consueto copione di commiato. Sono ormai lontani i giorni in cui salutarti era la cosa più faticosa del mondo perché tu mi tenevi stretto tra le braccia e piangendo mi dicevi “perché devi andartene? Perché vivi in un’altra casa? Perché non puoi tornare a vivere qui?” e io me ne andavo di corsa per trattenere le lacrime dentro gli occhi e lasciarle cadere solo in ascensore, quando non avresti più potuto vedermi.

Adesso, invece, quando sono sul punto di andarmene tu interrompi qualunque cosa stai facendo per salutarmi bene, ed è una cosa che mi riempie ogni volta il cuore. Perché non mi dici semplicemente, come ci si aspetterebbe, “ciao papà”, mentre continui a fare quello che stai facendo. No, tu fermi tutte le tue attività, mi accompagni davanti alla porta di casa, mi butti le braccia al collo e mi dai un bacio gigantesco sulla guancia. Poi io esco, mentre continuo a lanciarti baci che tu acchiappi al volo, chiudo la porta e mi metto ad aspettare l’ascensore, sapendo che mentre l’ascensore salirà al quinto piano, tu riaprirai almeno due o tre volte la porta, mi correrai incontro e mi bacerai altrettante volte, fino a quando l’ascensore non mi strapperà via.
Anche questa volta va tutto come al solito. Solo che quando siamo davanti alla porta di casa, pronti per mettere in scena il nostro balletto di abbracci, promesse d’amore e una partita di ping pong immaginario in cui le palline sono i baci che ci lanciamo l’uno verso l’altro, tu mi chiedi che cosa faccio stasera. Io ti rispondo che ho una cena di lavoro e tu mi guardi di tutta risposta col tuo sguardo furbo, sorridi, anzi ridacchi e mi dici “esci con la tua fidanzata?”.

Ecco, ci sono dei momenti nella vita in cui tutto funziona al contrario. Questo è uno di quelli. Tu non sai dell’esistenza della mia fidanzata, non lo puoi sapere perché nessuno te ne ha mai parlato. Così come non sai che la mia fidanzata, prima di lasciarmi e forse anche per questo, mi ha rinfacciato spesso il tempo che lasciavo trascorrere senza parlarti di lei e senza presentarvi. In ultimo, non sai e non puoi sapere quante volte ho immaginato il giorno in cui vi sareste incontrate e piaciute.
Eppure, parli di una fidanzata come fosse una cosa naturale e risaputa, rivelandomi che al di là di quello che ti dico e racconto, c’è un mondo in cui tu, io, noi, viviamo. È un mondo fatto di contatto e partecipazione. Un mondo nel quale io smetto di essere tuo padre e tu mia figlia ed esiste solo ciò che avvertiamo e proviamo e in cui l’avere una fidanzata, o l’averla persa, non è qualcosa che si dice ma si sente.