Stagioni

Oggi è l’anniversario della morte di Guevara. 9 ottobre 1967, 54 anni fa. È anche il compleanno di una mia compagna di classe del liceo. Me lo ricordo per la coincidenza dei due anniversari.

Scrivevo per lei. Scrivevo tantissimo per lei, come faccio adesso per te e per Agata, attraverso questo blog. Avevo 15 anni, poi 16, poi forse anche 17 e le scrivevo poesie, piccoli racconti, stralci di romanzi, qualunque cosa potesse farmi tornare a scuola il giorno dopo e sussurrarle “ho scritto una cosa”. Gliela passavo, sapendo che quel foglietto stampato ad aghi sarebbe rimasto un segreto tra noi due. Lei lo leggeva durante le ore di biologia o di italiano, non so. E alla ricreazione o all’uscita mi avvicinava senza guardarmi mai negli occhi. Sorrideva, fissava un punto del cielo attraverso la finestra della classe e sussurrava “mi è piaciuto”, portando lo sguardo al pavimento e arrossendo un po’. Tutto qua. Poi tornava dalla sua compagna di banco, io dai miei. Altro giro, altra corsa. 
Non credo abbia mai saputo davvero quanta dedizione dedicassi a quegli appuntamenti né quanto di me scoprisse in ogni riga che riceveva in dono. Non credo avesse mai nemmeno saputo quanto mi piacesse e quanto dolce trovassi i suoi gesti delicati e mai invasivi nel ringraziarmi e allo stesso tempo chiedermi “ancora” senza mai chiederlo davvero. Eravamo legati da un foglio leggero di tabulato a modulo continuo. Continuo come il rapporto che avevamo instaurato. Io le raccontavo della mia adolescenza per tramite di costruzioni contorte e arricchite da parafrasi di canzoni. Lei nei suoi silenzi e in quello sguardo timido e triste mi lasciava entrare nel suo mondo che capivo tanto simile al mio. Tanto vicini eppure così lontani.

L’ultima volta che l’ho sentita eravamo entrambi all’università. Io a Roma, a studiare Lettere senza convinzione, lei a costruirsi una carriera da ingegnere a Napoli. Era lo stesso giorno di oggi e la chiamai per farle gli auguri di compleanno. Le dissi che era l’ultima volta che le avrei fatto gli auguri senza riceverli. Non sapevo di certo che quello scherzo sarebbe diventato una profezia. Negli ultimi tempi la sua tristezza leggera si era condensata e compattata, trasformata in ghiaccio. Sentivo che c’era qualcosa che non andava nella sua voce ma non me ne parlò come non me ne aveva mai parlato prima. Di lì a qualche giorno mi rubarono il telefono e con esso tutti i numeri che all’epoca erano custoditi dentro la sim (proprio così). Non ebbi mai più modo di scriverle o sentirla, lei non si fece mai più viva. Ricordo bene come a distanza di qualche anno da allora un mio amico mi parlo dell’esistenza di Facebook. Me lo fece vedere, me ne parlò con l’entusiasmo di ogni rivoluzione anche se io non ne rimasi particolarmente attratto. Mi iscrissi lo stesso per cercarla. Non la trovai, non trovai nemmeno la sua compagna di banco, né nessuno dei pochi che avrebbero potuto ridarmi il suo numero. Ma all’epoca probabilmente su Facebook eravamo in 3: io, il mio amico e Zuckerberg.

Per molti anni l’ho dimenticata, tenuta isolata in un angolo cieco della mia storia, fino a stamattina. 
Avevo intenzione di ritornare a scriverti. Farlo dopo così tanto tempo, dopo un milione di rimandi e mille tentativi mentali andati a male. Sapevo solo di volerlo e doverlo fare. Ho aperto il computer, poi Word. E mentre la barretta bianca sottile ha cominciato a lampeggiare pressante, sapevo che avrei raccontato di te, di Agata, degli sviluppi meravigliosi che sta prendendo la nostra vita ultimamente. Poi però l’icona di Calendar mi ha ricordato che oggi è 9 ottobre. Come la morte di Guevara, ho pensato, e il compleanno della mia amica forse ingegnere. Tutto il resto è venuto da sé. A far due conti a spanne, credo siano passati proprio 20 anni da quell’ultima volta. Una cosa incredibile e assurda, passare 20 anni senza notizie di una persona a cui hai voluto così tanto bene, dalla quale hai ricevuto tanto bene. Viene da chiedersi chi fossimo l’uno per l’altra e chi erano le persone rimaste incastrate in un tempo così lontano. Se oggi avessi un soldino per un desiderio, lo spenderei per chiederle se è felice, se ha trovato quello che cercava e mai mi ha rivelato. E se di quel soldino rimanesse una piccola porzione ancora utile allora lo spenderei per farmi raccontare com’era quando la mattina le portavo un racconto che avevo scritto la notte soltanto per lei. 

Ovunque tu sia e qualunque cosa tu stia facendo, amica mia, buon compleanno!

Traslochi

Ho preparato una scatola. Anche se davanti alla porta adesso ce ne sono due. L’altra contiene i maglioni e i calzini invernali che provengono dal cambio di stagione. Nella scatola che ho preparato ho inserito invece i tuoi colori, i pennelli, tutta la cartoleria, alcune foto, due piccole scatole che chiamo le scatole dei ricordi (piene a loro volta di foto, lettere che provengono dalla preistoria, oggetti che per un motivo o l’altro hanno segnato la mia vita fin qui), due casse bluetooth, tanti cavi che non so bene a cosa servono ma che per scrupolo o perché non saprei in quale bidone della differenziata buttare, sto portando con noi. È solo l’inizio, mi sono detto, mentre chiudevo il coperchio della scatola di plastica di ikea e lanciavo uno sguardo alla scrivania ancora piena di cioccoli che non avevano trovato collocazione nella prima scatola. 

Quanti traslochi avrò fatto nella mia vita? Mi è venuto da chiedere, osservando quanto col tempo si sia in fondo ridotto l’ingombro che mi porto dietro di casa in casa. 
Tutti i miei libri giacciono nella cantina di un mio amico da tre anni, alcune cose tua madre ha a tutt’oggi la pazienza di conservare: il mio hi-fi e qualche libro che, di tanto in tanto, quando mi ci cade lo sguardo sopra, domando retorico “questo è mio?”, ritrovando la sua risposta scettica “non credo. Mi pare lo avevo preso a casa di mia madre”. A poco serve rincorrere i ricordi, fermarsi al momento in cui avevo comprato Kaputt su ebay a quattro soldi in un’edizione vecchia di 40 anni. Ormai è suo o tuo, per quando sarai grande. Certamente non più mio, come forse non lo è mai stato, espropriatomi dalla lettura che gli ho negato nell’attimo in cui era atterrato tra le mie mani. 

Sono così tristi i traslochi che non vorresti mai farli da solo. Ne parlavo anche nel mio romanzo rimasto inedito. Raccontavo un trasloco immaginario nel quale lui veniva affiancato da una lei premurosa e pragmatica. Nella realtà anche in quel trasloco ero solo. Sono tristi i traslochi perché ti costringono a scegliere. Scegliere cosa portare, cosa non scegliere per il momento, cosa buttare. E nel farlo passi in rassegna la tua vita, gli oggetti che l’hanno composta o accompagnata, li soppesi sulle dita, ti chiedi “ne ho davvero bisogno?” e la risposta non è mai perentoria. Mi piace fantasticare da sempre sulle ditte di traslochi. Persone incaricate di sondare le tue stanze, impacchettare, ordinare, scegliere per te. Poi ti portano tutto nella tua nuova casa, spacchettano, impilano, incasellano, ordinano di nuovo. Tu hai il solo compito di infilare la chiave nella serratura ed entrare nel nuovo capitolo della tua vita. 
Certe cose però probabilmente non esistono e me le immagino come immaginavo a scuola macchine del tempo che mi avrebbero portato avanti e dietro nelle 3 ore del compito di latino per rubare al futuro informazioni preziose da rendere al me impacciato del passato. 

Quando sono andato via dalla mia ultima casa da studente per andare a vivere con tua madre, tranquillizzato dal fatto che uno dei miei coinquilini storici rimaneva a vivere in quella casa, ho lasciato buona parte delle cose che avevo in due armadi in corridoio che avevo fatto miei. Pensavo che nelle settimane successive sarei andato a riprendere tutto. Di fatto non ci sono mai tornato. È stato così che ho perduto un pezzo di coperta di lana ricamata a mano da mia nonna per quando nei pomeriggi d’inverno avrei studiato al freddo (ti terrà calde le gambe, così mi aveva detto). E a distanza di 11 anni, vorrei ancora avere una Delorian che mi porti a non dimenticarla. (A proposito, sai che Agata ha chiesto al mio coinquilino se per caso la coperta era ancora in giro in casa? Volevo regalarmela per il mio compleanno. Sarebbe stato folle e pazzesco ma non ha funzionato).
Sono così i traslochi, mi dico adesso che provo a riflettere su quanto ho imparato dai miei tanti traslochi trascorsi, tentando in tutti i modi di dare un luogo, una posizione, un biglietto per imbarcarsi in una scatola a qualunque cosa. Eppure non c’è trasloco senza sacrificio. Provo a trovare un senso da riferirti in questa ultima lettera di inizio agosto, prima di ritrovarti tra più di un mese. Ci penso, non lo trovo. Forse, mi dico, è solo una questione d’ordine e costringersi a trovarne uno al momento del trasloco è una specie di forzatura o di inganno al quale ci sottoponiamo senza capacità concreta e reale. L’ordine è nelle cose di ogni giorno, nel mettere un libro al suo posto, un fumetto impilato con gli altri, una bambolina nella scatola dei giocattoli, un pezzetto di Lego insieme ai restanti. Vuoi vedere, amore mio, che la lezione che dovremmo imparare è di dover ricominciare in maniera differente da tutti quelli precedenti? E forse il “ri” è davvero di troppo. Facciamo che stavolta cominciamo?

Costruire

Esattamente un anno fa cominciavo a scriverti queste lettere. Sentivo che ogni istante della vita che trascorrevamo insieme e di quella parte di esistenza durante la quale eravamo distanti, aveva una quantità di informazioni che sarebbero andate perse se non le avessi catturate e impresse da qualche parte. Fotografie, fotogrammi o piccole clip del girato dei nostri giorni insieme e lontani. Cominciai allora a scriverti, immaginandoti come interlocutore presente e futuro. Ho sempre provato a essere più onesto che potevo. Mai romanzando, anche quando la tentazione di farci apparire più belli e divertenti e simpatici era forte. Siamo solo io e te, tu e io. E abbiamo riempito quaranta lettere in un anno: dodici mesi, cinquantaquattro settimane, trecentosessantasei giorni, ottomilasettecentoottantaquattro ore della nostra vita.

Sai, avevo ragione. In queste lettere sono rimasti appiccicati un sacco di ricordi che avremmo perso. Alcuni, immagino, li avrei persi solo io. Altri tu. Altri ancora entrambi. Sono invece qui dentro. A distanza di un solo anno, li ho ritrovati già, sfogliando queste lettere sin dall’inizio e ho provato quella sensazione che si prova quando ritrovi una foto del passato, la guardi e rivedi quella maglietta che indossavi e improvvisamente ti ricordi quanto le eri affezionato, quando o come l’avevi avuta, alcuni dei giorni nei quali l’avevi addosso. Ho un ricordo così. Di una maglietta blu elettrico dell’Energie che avevo durante il primo o secondo anno del liceo. Blu, con delle righe rosse che percorrevano perpendicolari le spalle e la E che aveva la forma di una freccia sul petto. Tamarrissima, diremmo oggi. Eppure mi ci sentivo un figo. La mettevo negli ultimi giorni di scuola. Elasticizzata e aderente (allora potevo permettermelo), sopra ai miei pantaloni strappati alle ginocchia e con i capelli a spazzola ingellati, mi sentivo gli occhi delle ragazzine della mia classe addosso e stavo bene.

Siamo stati bene allo stesso modo in molte delle storielle che ho raccontato finora. In alcune appariamo davvero buffi. Mi commuove un po’ leggere a ritroso le cose che ci sono successe nell’ultimo anno e sorrido quando sembriamo una coppia consumata del cinema che fa gag esilaranti. Se fossimo ad un pranzo di un matrimonio e questo fosse il mio discorso agli sposi, direi una di quelle frasi che si sentono sempre in questi casi: “quante ne abbiamo passate insieme!”. Belle ma anche brutte. Qui dentro, infatti, ci sono anche tante lacrime che insieme e separati abbiamo versato.
Quando sarai grande e le leggerai, ci ritroverai dentro i miei tentativi goffi di farti imparare a riconoscere Bruce Springsteen, la passione per Guccini, i disegni belli e quelli che abbiamo rovinato, le delusioni che ti hanno rifilato alcune tue amiche, alcuni dei giochi che facevamo, le passeggiate per Roma, la paura del virus, il rapporto con tua madre, molti dei ricordi del mio passato (alcuni dei quali affioravano proprio mentre ti scrivevo), la nascita di un nuovo amore, gli attimi belli e emozionanti del vostro primo incontro, i nostri tic, i film, le canzoni, la montagna, le favole, i giocattoli, le macchine fotografiche e la fotografia, i libri, i compiti, la scuola, gli amici, i desideri, il futuro e il passato (quello bellissimo e quello tristissimo), i dolci, le seratine speciali e i toast a colazione, le matite colorate e i pennarelli, le punte spezzate, la nostra numerosa famiglia, i viaggi, la nostra casa, le paure e le speranze, Roma e la Roma, le risate, i sorrisi e le lacrime, le domande, i racconti, le ninnenanna, la mia passione per le liste, l’amore, tutto il nostro amore.

Quando avevo più o meno la metà degli anni che ho oggi, scrivevo già racconti. Quando li finivo, li firmavo con le miei iniziali e appuntavo il giorno e l’ora esatta con la scritta “per chi dovesse viaggiare nel tempo”. In quell’appunto, c’era la possibilità per il me del futuro che avrebbe ritrovato quei racconti molti anni dopo, di sapere con esattezza l’attimo irripetibile che li aveva partoriti e, soprattutto, la consapevolezza che in quell’attimo c’era un pensiero per lui, una specie di saluto dal passato.

Sono le 8 e cinquantasette minuti del 3 aprile 2020. Sono nella mia stanza e ti sto scrivendo la quarantesima lettera di una serie iniziata un anno fa. Ciao, figlia del futuro. 

Un bene dell’anima

Ho conosciuto Antonello a Lettere, il primo giorno. Eravamo in pochi, noi due stavamo a qualche posto di distanza e durante una pausa abbiamo cominciato a chiacchierare. Ci siamo incontrati alla lezione successiva, poi a quella dopo. In aula, al quarto appuntamento, si è aggiunto Gianluca. “È simpatico, è milanese”, Antonello me l’ha presentato così. Gianluca invece era di Pesaro, sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, oltre che coinquilino dei sette anni che seguirono. È stato lui a rivelarci, sbalordito e divertito, che il corso che stavamo seguendo ormai da due settimane non era quello che pensavamo. Avevamo confuso le aule e i docenti, senza renderci nemmeno conto che gli argomenti trattati erano lontanissimi da quelli che avremmo dovuto aspettarci. Continuammo comunque a frequentare, entrambi. Più per comodità che per reale convinzione.

Antonello era di Roma, abitava a San Giovanni, con i suoi. Veniva da noi ogni volta che poteva, a pranzo o a cena, a bere il caffè della nostra moka, a fare niente. Frequentava casa nostra come fosse sua; credo lo fosse. Non sono mai entrato completamente nel suo mondo, come esistesse una diga tra la nostra acqua e quella che scorreva nel tempo lontano da noi, ma questo non ha mai impedito alle nostre anime di abitare le stesse stanze. Lui invece conosceva perfettamente il nostro mare, al punto da sentirsi un fuorisede, come noi. 
Dopo la laurea, ci ritrovammo quasi inconsapevoli a fantasticare il Sudamerica. Non dimenticherò mai il giorno in cui andammo in motorino alla biglietteria delle Aerolineas Argentinas, in via Cavour. Negli astucci celesti un biglietto per Buenos Aires e uno di ritorno da Lima, piantato a quasi due mesi di distanza

Ti accompagno a scuola, piove e c’è traffico. La macchina copre l’asfalto a singhiozzi. Sonnecchi, accendo la radio. La voce di Lorenzo ti sorprende, ti cattura, ormai lo riconosci, anche nelle canzoni che non hai mai ascoltato. 
Che cos’è un amico, nessuno lo sa dire.  
Mi sorprendo anch’io, impantanato come sono a pensare queste cose.

Non vedevo Antonello da qualche anno quando quest’estate l’ho incontrato a Barcellona. Una telefonata, un appuntamento, un treno, un abbraccio lungo abbastanza da colmare gli anni trascorsi. E poi una giornata al sapore inconfondibile di ricordi e affetto. 
Lui vive lì, insieme a una ragazza col sorriso negli occhi. Sono belli insieme. Sono belli anche quando non sono insieme, accesi da una bellezza comune, che traspare in ogni cosa che pensano o fanno. Ho visto la loro casa, abbiamo mangiato insieme, ci siamo commossi rincorrendo i fotogrammi del viaggio tenuti in serbo per momenti come questo, svegliando la memoria e resuscitando i ragazzi che eravamo. 
Il giorno dopo io avrei cominciato il mio cammino verso Santiago. Prima che salissi di nuovo sul treno ci siamo abbracciati. Forte. Più forte. Mi ha detto  “buona fortuna”, solo questo. Valeva però come “buon viaggio”, come un “ci sentiamo”, oppure, senza sentirci, “ci incontriamo nei pensieri belli”. Valeva come “ti voglio bene”. Davvero. Credo si possa applicare al  bene, a volte, la stessa logica che si applica al dolore; lieve è quello che ha voce, grave quello muto.
Mi sono sentito al suo fianco proprio ieri, mentre leggevo una sua mail: nel suo racconto ho visto chiaramente la sua espressione, sempre uguale, solo un’insignificante manciata di anni in più e la preoccupazione di non sapere se ha fatto abbastanza a piegare un po’ la pelle intorno agli occhi e sulla fronte. Mi sono chiesto se gli ho mai raccontato davvero chi sono, come sto, cosa faccio. Gli ho parlato abbastanza di te?

Tu mi guardi, annuisci come se stessi leggendomi la mente e la memoria, io ti amo e spero che la mia espressione sappia comunicartelo. Sono così, ho l’ansia di saperti piena del mio bene, di  vederti sorridere davanti alle cose buffe che metto in scena per te, come quando eravamo a Parigi e in metro ho cominciato a urlare “sono stanco, non ce la faccio più, ti prego portami in braccio”, prima che tu potessi iniziare la tua lagna ormai nota. Ridevi, riconoscendoti nella mia esibizione, ridevi e ridevi, a me veniva da piangere. L’ansia di farti vedere un film della mia infanzia, e scoprirti a distanza di settimane fare ancora la mossa della gru di Karate Kid, o ripetere fino allo sfinimento una battuta che ci aveva fatto tanto ridere. 
Ho l’ansia di sorprenderti, sbalordirti al telefono quando ti chiamo e a volte, prima di dirti “ciao”, ti ripeto a memoria una frase della lettura che ti ha assegnato la maestra, sulla quale ti stai esercitando proprio in quel momento. No piccola, non ho poteri magici. Devo confessarti che c’è un gruppo whatsapp di scuola, nel quale ogni tanto una mamma chiede ai genitori di pubblicare la foto della lettura del giorno perché magari il figlio era distratto, o malato.

Sai, tesoro, adesso, in questa macchina, sul finire di questa canzone, mi sale una nuova ossessione. Voglio che la vita ti riservi amici come i miei. 
Come Antonello che vive a Barcellona, ma è come se abitasse ancora alla Caffarella. 
Come Gianluca, che si è appena trasferito a Mosca e mi manda foto della tomba di Gagarin, dimostrandomi di essere lontanissimo, eppure nello stesso luogo in cui sono io quando una notifica mi avvisa del fatto che mi sta pensando, che mi conosce come pochi, che non smette di  percorrere la nostra strada comune. 
Come Liberato che è a Londra da una vita, e ogni santa volta mi chiama dicendo “come stai?” al posto di “pronto”. Lui che una volta ha preso un aereo per capire cosa mi succedeva, e ha cenato da solo nella mia cucina perché io non avevo la forza di affrontare quella giornata, e mai, mai me l’ha ricordato. Lui che per i miei trent’anni mi ha regalato la colonna sonora della nostra storia, tutte le note, non una in meno, del nostro conoscerci. E adesso, a distanza di dieci anni, quel disco è incorniciato e poggiato sulla scrivania, pronto a uscire da questa casa e seguirmi ovunque andrò. Liberato quest’anno compirà quarant’anni, e io in fila a seguirlo, anche se non so se sono pronto e mi sento ancora il ragazzino al binario che lo portava in aeroporto e lo salutava col pugno alzato cantando in mezzo alla gente “fratello non temere che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria”, come c’entrasse davvero qualcosa. Chissà se lui se lo ricorda. Se sa che in ogni istante dei quasi 33 anni che ci conosciamo e di tutti quelli che verranno per me ne ha sempre avuti cento e ne avrà sempre solo sette.
Vorrei prometterti amici come quelli che ho io, irrinunciabili. Vederli crescere al tuo fianco, schierati dalla tua parte. Amici che ti stiano vicino, dentro. 
Amici capaci di essere te, ogni volta che tu non sai più chi sei. 

Arriviamo, scendo per primo e vengo ad aprire il tuo sportello. Le tue compagne riconoscono la mia macchina, ti salutano come se non ti vedessero da mesi, ti aspettano. Penso non sia necessario desiderare o prometterti niente. Hai già la tua vita, il tuo modo speciale di essere te stessa, riempi stanze di cuori e amore. Qualche giorno fa eri al parco, una tua amica stava piangendo, le sei andata vicino e le hai detto “adesso pensiamo intensamente a qualcosa di bello”. Eccolo il segreto dell’amicizia. L’hai scoperto. Dovremmo scrivere a Lorenzo questa sera, per farglielo sapere. 

Scendi dalla macchina, ci salutiamo. Ogni volta che ti lascio davanti scuola, tu mi baci distratta. Mentre stai entrando io ti chiamo e ti chiedo di darmi un bacio più forte, poi un altro e un altro ancora, fino a quando mi dici “papi devo andare”. La mia espressione supplichevole ti spinge di nuovo verso di me, un ultimo velocissimo bacio che si perde nel sorriso che ti stampi sulla bocca e ti porti in classe. Hai mai saputo che, dopo che sei entrata, rimango un sacco di tempo davanti scuola a guardare le mattonelle dell’atrio che hanno visto i tuoi passi un attimo prima? 

Come mai un casino sembra un posto perfetto.
Quanto abbiamo riso, e quanto rideremo.

Il ’56

Quando avevo la tua età, mia nonna mi portava spesso in campagna. Lì aveva un piccolo recinto con poche galline, in qualche periodo un paio di conigli. Mentre mio nonno dava l’acqua all’orto, lei entrava nel recinto e si infilava nella casupola dove le galline andavano a fare le uova. Usciva trionfante scandendo il numero delle uova che portava in grembo strette nel grembiule.
Quando mi raggiungeva, sistemava le uova in un paniere e ne sceglieva una tra le più grandi, la puliva col grembiule e con una punta la bucava sopra e sotto. Poi mi passava l’uovo e io ne bevevo d’un fiato tutto il bianco. Glielo ripassavo e lei ne toglieva accuratamente metà guscio per ripassarmi la parte rimasta che conteneva il rosso e alcuni pezzetti di pane tagliati a strisce sottili e lunghe che infilavo nel tuorlo per mangiarlo. 
Ricordo ancora oggi esattamente il gusto di quelle uova. È un sapore che non è mai sparito, sopravvivendo intatto agli anni che passano. Non credo di aver mai più mangiato uova crude da allora. E a tutt’oggi l’idea stessa mi crea qualche problema. Ma quel ricordo no. È un ricordo dolce, esaltato dal sapore che aleggia indisturbato nella memoria.
Esattamente come il profumo che immediatamente raggiunge la mente e di lì l’olfatto se penso ad alcuni dei piatti che mia nonna cucinava per me. Ce ne sono tre in particolare che non dimenticherò mai e che nessuno, nonostante i tanti tentativi, è mai riuscito a replicare. Sono ricette semplici e allo stesso tempo sacre che mia nonna si è portata nella tomba lasciandomi appiccato alla memoria solamente un ricordo indelebile, come l’uovo col pane o la favola del bacile d’oro che mi raccontava la notte, prima di dormire, quando mio nonno non c’era e io le facevo compagnia.

Il primo di questi è una torta rustica, la chiamava pizza sfogliata, anche se chiamarla torta o pizza non rende l’idea di cosa fosse. È una pasta sfoglia sottile, sulla quale veniva adagiato un impasto di formaggio, salsiccia, uova e pepe e poi arrotolata. Normalmente la preparava per carnevale e pare sia una cosa tipica del nostro paese. Anche tua nonna la fa qualche volta, ma non ha lo stesso sapore.
Il secondo piatto si chiamava filoscio, ed era un piatto veloce, di quelli che prepari al volo quando sei in ritardo sul pranzo. Io e tuo zio lo adoravamo e lo chiedevamo sempre nei giorni in cui pranzavamo da lei. È molto semplice. Una frittata d’uovo, come un’omelette, con dentro del formaggio, cotta in una padella di sugo di pomodoro. Non ho mai provato a farlo da solo. So che riuscirei a cucinare solo qualcosa al gusto di delusione. 
Il terzo piatto erano i fagioli cotti nella pignatta, al calore del camino. Quando mia nonna decideva di prepararli, riempiva la pignatta di fagioli e acqua sin dal mattino, appena sveglia e li lasciava per tutto il giorno lì a borbottare ed emanare un profumo sottilissimo che veniva su leggero leggero e avvolgeva tutta la casa. Anche tua nonna ha una pignatta e ogni tanto d’inverno la tira fuori e ci ficca dentro i fagioli ma, come potrai ormai indovinare, non hanno mai avuto lo stesso sapore di quelli di mia nonna. 

Pensavo a tutte queste cose qualche giorno fa, mentre trafficavo tra fornelli e padelle. Tu eri seduta al tavolo e ti lamentavi perché le zucchine no, l’insalata no, gli spinaci nemmeno. Ho aperto il frigo ed estratto un uovo dalla scatola e in quel momento mi è tornato in mente l’uovo col pane. Mi sono rigirato l’uovo tra le mani, chiedendomi se l’ingrediente segreto che renda ancora oggi a distanza di 30 anni i suoi piatti favolosi sia il ricordo. Provo a ritornare ad allora per capire se quando li provavo, assaggiavo, avevano già un sapore speciale o fossero invece normali pietanze, magari molto buone ma non speciali. Non so rispondere. E tutto ciò mi porta a pensare a ciò che riempie le nostre giornate oggi. Le piadine prosciutto e mozzarella, la pasta e lenticchie che ogni tanto mi chiedi di preparare ma solo se la faccio come quella volta che ti era piaciuta tantissimo, le crostate alla marmellata o tutte le piccole, a volte piccolissime, cose che preparo per te. E mentre lascio cadere un uovo sulla padella che sfriccica mi chiedo se questo uovo, proprio questo, un giorno avrà un sapore speciale nel tuo ricordo. Quest’uovo o l’hummus che ti ho fatto provare e tu hai chiamato uomos o il taramà che ti ho convinto essere mocciolo di unicorno e nonostante tutto ti ha fatto schifo, le alici senza le quali il mio mondo sarebbe un mondo peggiore e che tu non ti sognerai mai nemmeno di provare o le fette di pane e olio che vincono sempre su tutto. Chissà se questo o qualcos’altro vincerà il tempo e un giorno sarà arricchito dall’ingrediente segreto del ricordo, diventando indelebile e irripetibile. Forse dovrei appuntarmi da qualche parte i piatti che riempiono le nostre cene, i nostri pranzi, gli spuntini. Segnarmi cosa ho messo nei panini, con cosa ho preparato la pasta e lenticchie, lasciare una traccia dei tuoi gusti a sei anni, a sette, e poi ancora. Un modo per darti modo, da grande, di tornare indietro a quella volta in cui, a quel sapore che, a quel piatto come lo preparava papà. Ma poi no. Non so se funzionerebbe. Le cose buone, quelle buone per sempre, hanno bisogno solo del cuore, delle papille gustative nascoste in certi battiti. E io per te sono capace di cucinare solo così, spesso di corsa, con i fornelli accesi, netflix che non ti funziona, l’olio che è finito, la crostata in forno che ho scordato e  si è bruciacchiata ma solo un po’ e tutto sommato è ancora mangiabile. Un modo che forse ricorderai strampalato, sempre in ritardo, distratto, confusionario, arrovellato certo volte, incasinato, ma sempre solo per te. E tu questo lo saprai, questo sarà per te il sapore.

Carnival

Amore mio, ti vedo ogni giorno più grande. Mi pare ieri che ti tenevo in braccio ed eri un batuffolo di cotone che faceva fatica a tenere gli occhi aperti e guardava senza vedere. Ti appoggiavi al mio petto e, con la fiducia di un neonato, ti lasciavi cullare e ti addormentavi. Ti tenevo ore in braccio, con le labbra appoggiate alla tua fronte, la destra dietro la tua schiena e la sinistra che ti sorreggeva solida.
Non scorderò mai il giorno in cui ti ho vista per la prima volta. Eri nel nido, tra gli altri bambini e dormivi beata nel tuo lettino enorme. Non scorderò mai quel giorno di marzo quando la porta a scomparsa della sala parto si aprì e vidi apparire tua madre su una barella, mentre veniva trasportata nel reparto. Pensavo dormisse, invece passandomi davanti alzò una mano e sorrise, come a dire “sono viva, stai tranquillo” e in quel sorriso riconobbi la ragazza che avevo incontrato nel corridoio della Facoltà di Lettere e Filosofia 10 anni prima. Non scorderò i tuoi primi passi, le tue prime parole, il tuo primo sorriso, le pappe, le ninne nanne, le notti insonni, le cacche, i pannolini, le pomate per gli arrossamenti. Non scorderò mai quando io e tua madre, con la perizia di un chirurgo, ti cambiammo la prima tutina, terrorizzati che ti si potesse rompere un braccio, una gamba o potessi riportare danni permanenti. Non scorderò mai il viaggio a 30 all’ora dall’ospedale a casa, i telefoni spenti per evitare radiazioni, le 4 frecce accese come portassi un carico eccezionale, la paura di frenare, il sudore sulla fronte, la carrozzina ancorata alla macchina da tutte le cinture di sicurezza dei sedili posteriori. La tua prima influenza, la corsa al pronto soccorso, il medico di guardia che ci osserva sconcertato e dice “è solo un po’ di febbre”.

Intanto però stai crescendo. Hai sette anni e ne dimostri qualcuno in più, soprattutto quando mi parli rivelandomi che la tua mente viaggia ad una velocità cui non sempre riesco a stare dietro.

Prima o poi soffrirai, amore mio, molto più di quanto avrai mai sofferto in tutta la tua vita. Soffrirai perché il ragazzo al quale hai affidato il tuo cuore lo spezzerà in due.
Soffrirai come non avrai mai immaginato si possa soffrire. Piangendo le lacrime che non avresti mai creduto i tuoi occhi avrebbero potuto contenere. E vorrai farti male. Fumerai, berrai, correrai nella speranza di inciampare e ferirti e guarderai un fiume invidiando la sua profondità.
Accadrà tutto questo e né tu, né io, né nessun altro potrà evitarlo.
Scrivo questa lettera perché quel giorno tu possa ritrovarla. Se così sarà, voglio farti trovare le strofe di un cantantautore che ancora non ti ho fatto ascoltare: 

Io se fossi Dio
non mi interesserei di odio e di vendetta
e neanche di perdono
perché la lontananza è l’unica vendetta
è l’unico perdono.

Ricordatelo quel giorno. Vorrai a tutti i costi sapere, scontrarti faccia a faccia con lui per avere risposte, sapere con chi ti ha tradito, per cosa ti ha lasciato. Evitalo, amore mio. Allontanati da lui e non provare a capire, perché non si può parlare con chi non vuole ascoltare e non si può esser visti da chi non è in grado di vedere. Penserai che insieme avevate risolto la congettura di Riemann. Per lui quello sforzo così grande sarà ormai soltanto un’addizione il cui risultato è del tutto incerto. Non fidarti di chi dice “è troppo tardi”, non è mai tardi per credere e va da sé che quando diventa tardi è perché in realtà non c’è mai stato tempo. C’è chi possiede un cuore grande, a volte gigantesco e chi il suo l’ha perso chissà quanto tempo prima e gli è rimasto conficcato nel petto un organo rinseccolito, non più grande di una nocciolina. Penserai come potrà sopportare il peso dei ricordi, gli stessi ricordi che ti staneranno ovunque proverai a scappare e stare. Ti chiederai “non può essere siano solo miei, parlino solo con me, inseguano solo me”. Ma non tormentarti e non riavvicinarti perché potrà solo ricordarti che non ci sarà mai più un futuro insieme. Rischierai di impazzire pensando a quanto è costato, quanto dolore e fatica hai pagato per stare con lui. Ma lui ormai è un guscio vuoto, una conchiglia che se avvicini all’orecchio ti darà solo l’impressione di sentire il suono delle onde ma quel suono è un trucco, un inganno. Ricordati ciò che ti dico: puoi sentire il suono delle onde anche in una conchiglia di porcellana che non ha mai visto il mare. 
Non dargli odio, perché l’odio è solo l’amore col segno meno davanti. Non dargli amore perché non lo merita e sarebbe come tentare di colorare il mare. L’amore per nessuno è di nessuno, ed è quindi inutile.

Dagli la tua distanza e sarà l’unica cosa che ti salverà.