Ogni cosa che c’è

Quanta concentrazione ci metti per rendermi felice, quanta dedizione, quanto scrupolo, sentimento, attenzione, impegno, riflessione, amore? Spesso ti osservo senza sapere esattamente il carico di ansie e stress che ti porta tutto quel lavoro extra a cui ti dedichi per costruirmi una sorpresa, un segnale, un piccolo, a volte impercettibile eppure straordinario, regalo lasciato sopra la porta della mia stanza a dirmi “hey, io ci sono e ti amo!”.
Lascio che i giorni qualche volta prendano il sopravvento, si facciano lame che tagliano via attenzioni e osservazione. Rimango a guardare e lascio che la sedia liscia sopra la quale sono seduto diventi uno scivolo che mi trasporta lontano da te.

È successa la stessa cosa forse anche per il mio compleanno. Io me ne stavo beota a osservare i preparativi per la cena che tua nonna aveva organizzato e contemporaneamente ti vedevo sfrecciare per casa, ora con telefono in mano, ora con un foglio di appunti, poi ancora con uno da disegno. Di tanto in tanto ti fermavi vicino a me e mi dicevi di essere stanca ma eri felice. Sapevo, immaginavo, che insieme ad Agata stavate tramando qualcosa e ti lasciavo fare, tenendo chiusa in una scatola la curiosità che voleva ti facessi qualche domanda di troppo. E mentre tutto questo accadevo e costruiva un piano che ignoravo ancora, non devo essermi reso conto che il mio regalo era proprio lì davanti a me. Il mio regalo erano i tuoi passi scalzi da una stanza all’altra, ogni singola lettera o numero composto sullo schermo del telefono, ogni striscia di colore impressa su un foglio. E questo regalo è sempre qui, ce l’ho davanti persino adesso che me ne sto al computer a tentare di rimediare all’ennesima scadenza mancata e tu te ne stai tranquilla a dormire per concedermi qualche altro minuto per finire questa lettera. 

C’erano quaranta dolcetti sul tavolino basso di tua nonna quella sera. Quaranta dolcetti tipici che Agata aveva fatto arrivare grazie a un corriere e al tuo aiuto direttamente dal suo paese. Su ognuno avevi piazzato una candelina che mi hai rivelato di aver acceso personalmente. Erano ordinati in un rettangolo con 5 dolcetti sul lato corto e 8 su quello lungo. Tu hai sistemato tutto, insieme alla splendida torta che aveva preparato tua zia, coordinato la banda di cugine, zie e nonna che avevi davanti come un maestro consumato fa con la sua orchestra. Poi hai abbassato le luci e sei venuta a chiamarmi. Mi hai preso per mano e mi hai portato lì con gli occhi chiusi.
C’è un video che racconta tutto questo. Ma come accade spesso nei video, non c’è modo di vedere la verità. In quel video arrivo nella stanza rigido e con un sorriso ebete sulla bocca. Dico qualcosa che vuole essere una battuta e sembra invece soltanto un lamento. Tu mi trascini e contempli da dietro le mie spalle il capolavoro che hai appena realizzato. Io lo guardo, ti cerco, ti trovo, ti abbraccio e ti imploro di soffiare le candeline insieme a me. Se un giorno inventeranno una macchina per leggere i pensieri della gente e proveranno a decodificare questo video, scopriranno che non desidero nient’altro che la tua felicità. Con tutta la forza dei polmoni e delle palpebre chiuse, soltanto la tua felicità.

Intanto ripenso a tutto questo. Al lavoro che ti è costato, all’impegno, la dedizione, la costanza, anche la riservatezza o la fatica di mantenere un segreto che non sei abituata a tenere in serbo. Più ci penso, più mi pare di capire una di quelle cose importanti che sembrano scritte nella natura, nei libri, nelle stelle: ogni gesto, ogni sguardo, ogni carezza, ogni passo, ogni soffio o bacio o sussurro o parola è per me, soltanto per me. Ed è il miracolo più straordinario al quale io abbia mai assistito o preso parte. È l’esistenza di Dio.

Trenta

L’acqua evapora a qualunque temperatura maggiore dello zero, me lo ha detto Agata. “Come si asciugherebbero altrimenti le strade quando piove?”, mi ha chiesto. Io sono rimasto come Galileo davanti alla luna.
Ho sempre pensato che l’acqua evaporasse solo a cento gradi e che in condizioni normali semplicemente si spostasse. Quando ti asciugo i capelli, l’acqua scivola lungo le ciocche fino a cadere giù. Quando stendo i vestiti, la gravità spinge l’acqua verso il basso, fino a lasciarli asciutti. Le strade sono sempre e solo state asciugate, dopo un temporale, dalle gomme delle automobili che trasportano l’acqua chissà dove. 
Eppure, dove finisce l’acqua dei tuoi capelli o quella del bucato steso sullo stendino? Non ci avevo mai pensato. 
Mi sento come la Pimpa. Agata deve allora essere Armandone. Io imparo da lei. Tu impari da me, di riflesso quindi da lei. 

L’altro giorno ho conosciuto Ahmed per merito suo. Lei non c’era ma c’era. Lui stava confezionando un mazzo di tulipani, rose e girasoli. Io gli ho chiesto il suo nome. Mai fatto una cosa così in tutta la mia vita. Magari avrei scrollato Instagram, letto il sito di Repubblica, risposto ai messaggi accumulati su whatsapp, mentre lui faceva in silenzio il suo lavoro. Gli ho chiesto invece il suo nome, come avrebbe certamente fatto Agata, ridendo della sua risata allegra e spensierata. 
All’inizio mi faceva ridere e soffrire. Soffrivo come si soffrono le cose che non conosciamo. Due anni e mezzo che vivo in questo quartiere e mai detto più di “buongiorno” entrando nel bar sotto casa. Un giorno andiamo a prendere la macchina e la sento urlare “Ciao Giulio!” mentre stavamo soltanto passando lì fuori. Il mondo è così per lei: pieno di storie da scoprire. Vorrei fosse un po’ così anche per te.

Tu ancora non sai chi è Agata. Ma è stupido pensare che sia realmente così. Sai, ho capito che hai capito. L’ho visto chiaramente nei tuoi occhi l’altra sera. Hai trovato una fetta di torta ricotta e cioccolato nel frigo. Mi hai chiesto “chi l’ha fatta?”, col boccone in bocca. Ho risposto “Agata”, affrettandomi ad aggiungere “una mia amica”. Tu hai fatto una faccia furba che pareva dire “sì, papi, so bene chi è Agata”.

Ora penso che l’acqua caduta sul pavimento, se non l’asciugassi con lo straccio, domani non ci sarebbe comunque più. Deve essere un po’ come questo stupido imbarazzo che provo nell’incontrare quello sguardo e che mi fa nascondere la testa nel frigo. Domani non ci sarà più, ma tu sai già anche questo.