La tua canzone

Ti ho lasciata pochi minuti fa davanti scuola. La maniglia del tuo zaino in una mano, nell’altra la mia mano. Hai detto “ciao papi” e hai fatto per scappar via ma io ti ho trattenuta reclamando un altro bacio, più grande di quello precedente. Mi hai accontentato e fatto un sorriso proprio bello. Poi sei andata e io, come al solito, sono rimasto lì a guardarti scomparire nel corridoio della tua scuola. Mentre andavi però ti sei girata due volte per guardare se ero ancora lì e io c’ero e agitavo un braccio come se fossi appena salita su un transatlantico che ti avrebbe portato dall’altra parte del mondo. Tu ridevi, io ti mandavo baci, gli altri genitori mi passavano accanto indifferenti.
Credo il bidello della tua scuola si sia accorto che rimango sempre lì un paio di minuti dopo che sei entrata. Mi guarda o forse sono solo io che mi sento guardato. A volte me lo immagino che scuote la testa come a dire “questi papà apprensivi”. Non so se è realmente così. So però che ogni volta, faccio finta di tirare fuori le cuffie dalla giacca, le srotolo, me le ficco nelle orecchie e questo mi consente di avere circa un paio di minuti di velata nonchalance.

Stamattina, mentre venivo a lavoro, faceva freddo. Quel freddo che a Roma si vede ben poco d’inverno. Mi pungeva alle caviglie e alle ginocchia e per evitarlo andavo piano e stringevo le gambe verso il centro del motorino. Facendo slalom nel traffico, pensavo a te, alla tua giornata a scuola. Spesso quando siamo insieme ci raccontiamo di scambiarci. Io vado a scuola per te e tu vieni a lavoro per me. Quando facciamo questo gioco tu mi interroghi sulle cose che dovrò vivere nella mia giornata al tuo posto, così so per certo ogni cosa che accade dal momento in cui in cui ti lascio. Nella mia giornata al tuo posto so dunque che dovrò affrontare una piccola ricreazione, prima che arrivi la maestra, poi l’appello, delle spiegazioni, un’altra ricreazione (un po’ più lunga) insieme a una merenda, altra spiegazione o esercizi in classe, mensa, piccola ricreazione, esercizi e poi attesa dell’uscita. Quando invece ti chiedo “e tu al mio lavoro cosa farai?”, tu mi rispondi che preparerai dei caffè (quanti? Per chi? Non si sa. È solo che ti piace usare la macchina Nespresso del mio ufficio), poi ti siederai alla mia scrivania e stamperai dei disegni da colorare. Il mio lavoro è dunque questo per te: fare caffè e stampare disegni. Non male.

Ora sono a lavoro davvero, mentre tu avrai superato l’appello e sarai nel mezzo della prima spiegazione del mattino. Mi perdo un po’ a pensarti, seduta nel tuo banco, illuminata di traverso dalla luce calda di questo sole d’inverno. Guardi la maestra attentissima a non perdere una parola. Io il caffè non me lo sono fatto, invece. Avevo finito le cialde e sono allora andato a prendermi un cappuccino al distributore automatico. Ho preso anche una Kinder Delice (e sì, lo so che non avrei dovuto e so anche che stando ai nostri accordi, se prendo una schifezza per me la devo prendere anche per te. Ti devo quindi una Kinder Delice). Sono poi arrivato in ufficio, ho acceso il computer e mentre cominciavo a scrivere questa lettera ho messo Coez su Spotify. Dovrei cominciare a lavorare un po’, non mi va. Quasi quasi mi metto a cercare qualche disegno da colorare su internet.

Culodritto

Quando siamo entrati a casa di Giacomo e Anne tu hai trascinato la tua valigetta fino al centro della stanza, hai fatto un giro a 360 gradi e hai esclamato “ma questa casa è piccolissima!”. Io ti ho fulminato con lo sguardo mentre Giacomo e Anne sono scoppiati a ridere. Tu non hai capito né le loro risate, né il mio sguardo e hai aggiunto: “ma come si fa a vivere in una casa così?”.
Lui allora ti si è avvicinato, per prenderti la valigia di mano e provare a spiegarti che a Parigi le case sono molto piccole ma che la gente si ingegna per renderle più vivibili, soppalcandole, arredandole su misura, riducendo all’essenziale le cose che servono per vivere.
Nel frattempo, io avevo raggiunto la finestra spalancata e sporgendomi sono rimasto folgorato, come fosse la prima volta, dal grigio bello di Parigi e dal Sacro Cuore che spuntava prepotente dietro all’ultimo palazzo a destra del mio sguardo. Alle mie spalle ho sentito lo scricchiolio del legno del soppalco accogliere i tuoi passi, mentre girandomi ti ho trovata affacciata a due metri d’altezza che mi facevi “ciao ciao”, ormai perfettamente integrata nella nostra casa parigina.

I tre giorni che sono seguiti sono volati come una parentesi leggera, tra baguette, croissant, quiches, la Senna, il palazzo dell’evoluzione, e cenette attorno al tavolino di Montmartre con prosciutto, salame, formaggi e vino. Tu osservavi ogni cosa e a me pareva di vederti così grande e indipendente da chiedermi se fossi tu a portare in giro me o io te. 
È stato così strano trovarsi per la prima volta all’estero, noi due soli. Mentre io ti racconto le cose che ricordo di Parigi e tu mi chiedi cosa significa “merci”, “aujourd’hui”, “toujours”. Poi ci fermiamo a comprare i biglietti della metro e io ripeto nella maniera migliore che posso la frase che ho tradotto di nascosto qualche minuto prima su google translate, osservando con la coda dell’occhio la tua espressione e riempiendomi il petto. Mi chiedo quanto di tutto questo rimarrà nella tua memoria, quando un giorno saprai raccontare del viaggio a Parigi che facesti a sette anni da sola con tuo padre. Quanto vorrei essere in quel momento che verrà per scoprire se sarò stato un padre divertente, coraggioso, simpatico, socievole, spigliato, il miglior padre del mondo, come ogni tanto mi dici.

Intanto, l’ultimo giorno andiamo alla Torre Eiffel che da mesi vuoi vedere, sin da quando hai cominciato regolarmente a vederla sullo sfondo di ogni puntata di Ladybug. Arriviamo sotto la torre e, come sospettavo, tu mi chiedi di salire in cima. Io allora ti propongo di prendere le scale perché, ti dico, “così potrai ricordarti della volta che tuo padre ti costrinse a scalare una torre alta 300 metri”. Tu mi dai retta e mi segui. Ci imbarchiamo allora nella nostra impresa, divertendoci a contare i gradini e scoprire solamente quando abbiamo superato la metà che il numero è scritto di dieci in dieci al lato della scalinata. Poi arriviamo al primo piano, per premio ci regaliamo una ciambella gigantesca nel bar con la vista sulla città e io ti propongo di proseguire almeno fino al secondo piano. Tu accetti ancora, stringendomi la mano. Al quattrocentisimo gradino però mi dici che non ne puoi più. Ci affacciamo allora alla balaustra e guardiamo fin dove lo sguardo riesce a vedere. Contempliamo Parigi, le nuvole che compongono animali giganteschi, lo strano sole che illumina i tetti.

Vedi, tesoro, ho pensato una cosa mentre eravamo sull’aereo di ritorno. La scrivo per non dimenticarla. Mi sono sempre addormentato istantaneamente ogni volta che sono salito su un treno o un aereo. Con te non è possibile perché vuoi che ti tenga compagnia e ti dica dettagliatamente cosa fare per non annoiarti. Così è andata anche stavolta. La mia testa, subito dopo il decollo, ha cominciato a penzolare e tu mi hai baciato, lasciandomi un bacio al sapore di Kinder Bueno sulla barba e chiedendomi di non dormire. Io allora ho preso il tappo della bottiglietta che avevamo davanti al sedile e ti ho detto “sotto mano di papà, dove sta qui o qua?”. Tu hai indovinato e a tua volta hai ripetuto il giochino. Quando è toccato di nuovo a me però ho lasciato che il tappo mi scivolasse sotto una gamba e ti ho chiesto di indovinare. Naturalmente non lo hai trovato e io non ti ho mostrato il vuoto che avevo pure nell’altra mano. Ho ripetuto lo scherzo per altre 10 forse 15 volte e tu ogni volta sbagliavi e ti arrabbiavi con te stessa per la sfortuna che avevi e mai, mai, hai pensato che anche l’altra mano potesse essere vuota. Fino a quando mi sono messo a ridere e ti ho rivelato lo scherzo. Ecco, amore, la fiducia cieca che hai in me è qualcosa di così unico e raro che probabilmente non esiste in nessun altro luogo della vita. Non so quando arriverà il momento in cui tutto questo si spezzerà e semplicemente dubiterai di me. Fino ad allora, io sarò il tuo eroe e potrò farti scalare 400 scalini della Torre Eiffel come fosse un gioco o convincerti che una mano chiusa contiene inevitabilmente un tappo. Tutto questo non ha nome ma è senz’altro la sensazione più bella che io abbia mai provato. Ecco, volevo farti una promessa anche se non so quanto saprò mantenerla. Volevo prometterti che non nasconderò mai più il tappo.