Ti sposerò

È tanto che non ti scrivo. Non saprei nemmeno quanto, so però per certo che nessuno di noi è più lo stesso dell’ultima volta che ti parlavo da qui. Non lo sei più tu, con i tuoi dolori ormai costanti al basso addome, uno spirito da preadolescente e la voglia incondizionata di contrastarmi, come a pareggiare un conto che è stato aperto chissà quando. Non lo è più Agata, fin troppe volte delusa nel profondo dell’animo da arrivare a dire qualcosa che non aveva ancora mai immaginato: “io non ci sto più dentro così”. E non lo sono più io, provato, vinto, consumato dai problemi che avevo trascinato fin qui come fossero un difetto fisico con il quale io avevo imparato a convivere e gli altri dovessero accettare, tollerare e rispettare. 

E poi, come capita sempre, un giorno ci si tira su dal letto e mancano le forze nei polpacci per tenersi in piedi. Perché l’universo di approssimazioni al quale ci si era aggrappati ha trovato le pareti del vaso nel quale era contenuto, dimostrando finalmente che non era affatto un universo ma un banalissimo litro di melma schifosa.
E dentro quel vaso ho dovuto ficcarci la mano per capire quanto poco profondo fosse e quanto viscido e disgustoso potesse risultare. Per l’esattezza, ho dovuto aspettare che per l’ennesima volta Agata mi dicesse di guardarci dentro, di farlo per favore da solo, perché la sua vista non ne poteva davvero più.
L’ho fatto, lo sto facendo ancora, mentre me ne sto a contemplare fuori per ore e il lezzo di quella melma mi perseguita. 

Credevo. 
Credevo moltissime cose sbagliate. In molte delle quali non avevo mai creduto ma ho cominciato a credere fingendo di credere e finendo per credere davvero.
E ora, ora che non credo più a niente, ora che mi pare difficile persino pensare di poter credere di esser svegli, camminare, parlare, mi vedo costretto a mettere in dubbio ogni singolo pensiero partorito dalla mia testa, come un pregiudizio innato, come un istinto di sopravvivenza pronto a mettere in dubbio qualsiasi cosa pur di imparare nuovamente a stare al mondo.
E al mondo non ci sono saputo stare veramente fino a ora. Costringendo te e Agata a seguirmi in un gioco perverso e senza fine, nel quale io disponevo e poi cambiavo, mischiavo le carte, le distruibuivo e quando lei stava per dire “7 avevi detto 7 carte”, io ero immediatamente pronto a ribattere “scherzi? Si gioca con 5 carte”. 
Quante volte Agata ha sospirato amaro, finendo pure lei per accettare che le carte fossero giuste e che lei stessa ricordasse male. Lei che ha la memoria di un elefante, la costanza di quei simulatori di Ikea che per anni e anni aprono e chiudono un cassetto per dimostrarti che non si romperà mai, e la pazienza di una montagna. 
E ho lasciato fare a tutti ciò che pensavo fosse nelle proprie corde, illudendomi di esser io a seguire voi mentre era evidente e a tutti, fuor che a me, quanto ognuna di voi seguisse solo me, ovunque e comunque.

L’ho visto chiaramente mentre eravamo qualche giorno fa in canoa. La guida ci aveva messo in mano una pagaia e spiegato come andare avanti, girare, fare retromarcia. Poi ci aveva imbarcati e non avremmo dovuto far altro che seguire il gruppo davanti a noi.
Tu eri davanti a me, non potevi vedermi. Io ero dietro e il mio compito sarebbe dovuto essere dettare il passo e darti istruzioni per seguirmi. Seguirmi, anche se io ero dietro, capisci?
Ho provato forse due o tre volte a dirti di non accarezzare l’acqua, di remare, ficcare decisa il remo in acqua e tirare. Ma non ero convinto nemmeno io di quello che ti dicevo e ho finito per chiederti di tirare su la tua pagaia, goderti il viaggio e lasciar fare a me. E mentre ti guardavo le spalle, mentre ti giravi attorno osservando la natura e accarezzando con le dita l’acqua del fiume, ho visto chiaramente quante volte in questi 10 anni ho preteso che semplicemente seguissi me, senza poi lasciarti alcun tipo di istruzione precisa su come farlo o, quando il caso (purtroppo il caso), lasciava intuire delle regole, rimetterle in discussione al primo ma, al secondo però, al terzo dopo.

E ora? Ora non ne ho più voglia. Non ho più voglia di soccombere a me stesso, di cedere ancora all’incapacità di dire no o basta. Troppe volte l’ho fatto e guarda in che pasticcio ho ficcato te e Agata: una vita senza midollo, in cui tutto si arriccia su sé stesso, rischiando di far apparire i giorni tristi e senza vita. Siamo arrivati al punto di aver paura di vivere, stare insieme, incontrarci, per timore di soccombere ancora all’indolenza. 
Te lo devo. Ti devo un’educazione seria, concreta, vera. Ti devo delle regole, ti devo dei no e dei basta, non solo scherzi, sorrisi, abbracci, e spensieratezza. E devo a Agata la vita che mi ha dato, ogni singolo respiro che mi ha insegnato e il rispetto che merita la scelta di voler creare una famiglia con me. Perché questa famiglia è casa nostra: mia, tua e sua. E se l’amore che abbiamo ce l’ha dato Dio (o San Giacomo per lui), conservarlo, onorarlo, venerarlo e beatificarlo è compito nostro e se non farlo è peccato, farlo male è anche peggio. E tu che sei mia figlia e mi vuoi bene, devi sapere subito, ora, sempre, quanto io ami Agata dentro al cuore che scalda il sangue che mi tiene in vita. 

Rimetti tutto in valigia e fallo per bene. Ripiega in quattro questa lettera e tienila da conto. Torniamo a casa e cominciamo a vivere. Domani è finalmente domenica.

Cuori

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo, forse lo sei davvero, anche se nella mia immaginazione che si confonde con la memoria, questa bambina ha i capelli lisci e bruni, la carnagione molto più scura della tua e due occhi profondissimi. Ha avuto un’infanzia complicata. Un po’ ce l’abbiamo avuta tutti. Lei però ogni giorno che vive trasforma la sofferenza in perle, con le quali fa una collana lunga lunga che quando sarà abbastanza grande per metterla al collo, potrà avvolgere due, tre volte e indossare con disinvoltura, senza eleganza e senza importanza, come si portano due Stan Smith ai piedi, di quelle bianche con la lingua rossa all’altezza dei talloni. 
Non le diamo un nome, perché non ha alcuna rilevanza e perché questa bambina odia apparire. Odia pure le fotografie e anche questo un po’ lo avete in comune, anche se tu te le lasci fare ma più per farmi contento che per reale trasporto. Ha un fardello, grande come una casa, una casa senza le finestre, senza le porte, come quella della canzoncina che canti tu. Lei potrebbe rimanerci dentro, incastrata per tutta la vita. Ma ha una tecnica, un modo tutto suo per entrare e uscire. E alla lunga stare dentro o fuori è diventato sopportabile, poi gestibile, poi ancora naturale. E dentro tutto è usuale, anche se scomodo. Non fa però paura, è solo un posto come un altro e non è casa. Casa è ovunque mette i suoi piedi scalzi. E lei ha la tendenza a togliersi le scarpe ogni volta che può, un po’ dove capita. Poggia la pianta nuda del piede sul pavimento, sulla strada, sulla sabbia e quel posto diventa casa. Immaginati che questa bambina abbia un segreto. Un segreto che le si legge in faccia. Uno di quei segreti che si imparano in anni di solitudine, di amore così pesante da sopportare eppure presente, sempre presente, da non sapere dove metterselo. Vive una vita che è sempre e solo sua, nella quale diventa ogni giorno più grande pur restando piccola. Il tempo scorre ma lei non ha voglia di riacchiapparlo, correggerlo, scuoterlo, come capita a tutti di voler fare. Lei lo sa vivere e lo vive diventando la donna che sarà pur non essendo mai la donna che è. Vederla, in ogni istante di questa vita, è uno spettacolo senza precedenti. Te la devi immaginare, in un fotogramma qualunque di questa esistenza, mentre cammina scalza, le spalle larghe per spalancare la gabbia toracica e far entrare più aria possibile, andare avanti a saltelli che somigliano a passi di danza leggeri. Puoi vederla come vuoi anche se so già la immaginerai come una principessa, perché le principesse entrano sempre, inevitabilmente, dentro le tue storie. Allora facciamo davvero che è una principessa e un po’ davvero lo è. Pocahontas, potrebbe essere lei. E se è una principessa vuol dire che in questa storia deve comparire anche un principe. E facciamo anche che compaia. Eccolo lì. Solo che non è un principe qualunque, di quelli a cavallo e vestiti d’azzurro. Questo è un principe poco principesco. Più un pirata o un bucaniere, ma deve essere principe altrimenti questa storia non funzionerebbe. E allora sia principe. I due si incontrano e lei capisce che ha trovato il contenitore nel quale versare i litri di corallo che porta con sé da sempre. Ma lui distratto com’è, ha lasciato la vasca senza tappo e tutto ciò che ci versi finisce giù per lo scarico. È uno spreco enorme, uno di quegli sfregi così pesanti da farti perdere fiducia nell’umanità. Eppure questa è una favola, abbiamo detto così. E nelle favole accade sempre qualcosa che stravolge tutto, proprio quando tutto sembrava perduto. Una caduta da cavallo, un incidente di percorso, due briganti che afferrano il nostro principe di notte al buio e lo riempiono di botte.  Non so esattamente cosa. Forse solo qualcosa che accade, senza che nessuno capisca, solo accade. Lei è lì accanto a lui, gli tende la mano e, per la prima volta, sussurra il suo segreto. Semplice e leggero come un respiro, gli dice “muoiono tutte le brutte cose di tutti i giorni”. Il principe riapre gli occhi e gli pare sia la prima volta che guarda in faccia il mondo, si sente come risvegliarsi da un torpore che lo teneva fermo da sempre. È sbalordito, si strofina gli occhi e adesso sa solo che è vero. Immaginati che in quel momento appaia tra le sue mani uno strumento a fiato. Forse lo teneva nello zaino. Diciamo un clarinetto e uno Smetana, facciamo che è Smetana. Il punto è che questo principe su un pentagramma non distinguerebbe un semitono da una chiave di violino. Eppure improvvisamente ha poggiato i polpastrelli sui tasti e sta suonando la Moldava. Così. So che non devo convincerti sia vero. Tu lo sai già, perché per te, come per lei, certe cose non si dicono, si sentono, non è vero? 

Ti ho raccontato questa storia perché ho scoperto solo oggi che certe declinazioni che nelle favole sono quasi ovvie per me non lo sono mai state. E allora ho deciso di farmi insegnare anche questa conseguenza logica da te che credi profondamente nelle favole: se ogni cosa è possibile allora ogni cosa può diventare pure reale, anche quando è soltanto disegnata dall’immaginazione. E io ora sento quella musica. La sento davvero. Prima era solo accennata, ora è una sinfonia fortissima e se chiudo gli occhi vedo proprio tutto: gli alberi, le sorgenti, il bosco, le cascate, le ninfe, le montagne, gli animali che giocano a rincorrersi ed è un paesaggio pazzesco. 

Tutto tu vuoi

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo. Forse lo sei davvero. Questa bambina si chiama Ah. 
Proprio così, Ah. Come uno sbadiglio, come la prima nota di una risata, come dire “ho capito”. È un nome tra i sogni, la felicità e l’intelligenza. Secondo me è un nome bellissimo, e se fossi stato meno tradizionalista, se avessi avuto meno anni, idee più folli e l’ardire di seguirle, se tua madre non avesse saputo da sempre il tuo nome, adesso anche tu potresti chiamarti così.

Ah è nata in un giorno di pioggia sottilissima, aghi d’acqua tanto fini e innocui che non riuscivano a bagnare nessuno. Quel giorno il sole è sorto alle cinque e quarantasette minuti e tramontato inspiegabilmente due ore più tardi rispetto a quanto riportava l’almanacco. In quelle due ore Ah è rimasta quasi immobile nella sua culla, la sua mamma guardava oltre la finestra aspettando che la luce calasse, il suo papà guardava il suo cuore ormai perso, addormentato nel piccolissimo torace di Ah. Anch’io ho fatto questo nel tuo primo giorno di vita; guardavo te, instancabilmente, e guardavo il mio cuore scindersi come un atomo, diventare tuo, e crescere crescere. Crescere.
Ah non ha un’età precisa. Non è possibile stabilire quanti anni siano trascorsi dalla sua nascita. Fino al suo terzo compleanno ci sono state torte con candeline rosa, poi non più. Poi i pensieri e le parole di Ah hanno cominciato a evolversi in maniera spropositata, non appartenevano più a quelli di una bambina della sua età, non potevano essere contenuti in un numero. Cinque, sei, sette anni, nessuna di queste lancette le apparteneva. Tutto ciò che faceva era così stupefacente da non poter essere misurato, controllato. Il tempo non era più necessario. Lei ragionava con la saggezza di ottanta lune, comprendeva ciò che ai bambini viene celato, per proteggerli, si dice serva a proteggerli. Osservava apparentemente indifferente comportamenti che sarebbe stata presto in grado di ripetere con la precisione di un liutaio. Imparava termini mai usati da nessuno, disegnava mondi sconosciuti, abitati dalle persone a cui voleva bene. Disegnava enormi barche di zucchero e tendoni del circo in fiera nel cortile della sua casa. Al timone suo padre. Sul filo, sospeso tra una nuvola e una stella a trenta punte, suo padre. Marinaio ed equilibrista. E medico, dottore di tutte le malattie curabili con le caramelle. 
Ecco, queste cose possono sembrare sciocche. Ecco, non lo sono. Queste cose sono le stesse che fai tu, e credo le stesse che faccia ogni bambino del mondo, ma tu le fai meglio. Ogni bambino le fa meglio. 
Ogni bambino dal niente genera mondi irrazionali, eppure di quei mondi sa dire, raccontare, spiegare, con una logica convincente al punto da lasciare senza fiato il più illustre rettore universitario. Ogni bambino ha fermato il tempo il giorno in cui è nato. Tutti i bambini hanno rallentato la rotazione terrestre consentendo al sole di splendere più a lungo. È da qui che nasce l’espressione venire alla luce, non si tratta solo della luce fuori dal pancione delle loro mamme, è una luce speciale, un bacio dal cielo alla culla, lungo il tempo che serve a capacitarsi di quanto possa essere eccezionale il miracolo che avviene da sempre, eppure non riesce a perdere neanche una sfumatura d’ombra dello stupore che si trascina dietro a ogni respiro, passo, gesto.

Ti racconto questa cosa. Ah un giorno era a casa, era pomeriggio, sua madre le stava preparando il pane con la confettura di albicocche, le piacciono molto le albicocche. Suo padre non stava bene: solo un po’ di febbre, qualche starnuto. Ad Ah era stato detto di non avvicinarsi a lui, avrebbe potuto ammalarsi. Camminava appena, instabile, i passi strani dei cuccioli, che sollevano troppo le ginocchia e sembrano avanzare come muovendosi nel cerchio di una danza africana. Con quei passi è andata verso la stanza del suo papà, sua madre a rincorrerla per portarla indietro, invece non ce n’è stato bisogno. Ah si è fermata davanti alla porta, l’orecchio teso fino all’istante in cui un colpo di tosse è riuscito a sovrastare il volume basso della televisione, allora si è voltata, “tosse”, ha detto, l’espressione vagamente contrita andava trasformandosi in sollievo. “Tosse solo”, ha pronunciato queste due parole come a stabilire che era tutto a posto, tornando in cucina e sedendosi sullo sgabello, finalmente serena. Non so cosa siano le malattie per i bambini, un pericolo suppongo, intuiscono l’ipotesi degenerativa che si cela dietro quel termine, quella condizione. So che la premura e la dolcezza di Ah, che senza entrare, senza disturbare, si accerta che il suo papà sia malato ma ci sia, che stia bene in fondo, che la sua sia solo tosse, per me è una cosa così grande, dolce, così piena di protezione, interesse, e potrei andare avanti e riempire pagine di aggettivi, ma non lo farò. Dirò solo che per me sei tu, i tuoi baci piccolissimi, infiniti, pronti, come urgentissimi. La tua capacità d’intuire, sapere qual è il momento in cui quei baci mi servono davvero, e mi servono così tanto che non ricordo più di che colore fosse il mare, che sapore avessero le arance prima dei tuoi baci. 

Lascia che ti racconti ancora qualcosa. Ah ogni tanto canta qualche strofa della canzone preferita di suo padre, anche tu lo fai. È normale, va bene, facciamo finta che sia normale, ma non lo è. Ti piacciono canzoni diverse da quelle che ascolto io, eppure di tanto in tanto mi concedi di ascoltare dalla tua voce, che lo sai, è la mia voce preferita in assoluto, la versione live della colonna sonora di un pezzetto della mia vita. Non è normale quello che mi succede, non è normale come mi sento, dura un istante, un momento di comunione tra te, me e chi sono stato prima ancora che tu esistessi. Quell’istante non è normale.
Ah ha i suoi gusti, oltre alle albicocche le piacciono molto il cioccolato e la polenta che fa sua nonna in inverno, che è anche il piatto preferito di suo padre. Tu hai i tuoi gusti, ti piacciono le patatine e il gelato, non ti piace il cocomero. Allora, il cocomero piace a tutti. A tutti. È grande, tondo come un pallone da spiaggia, verde come una zebra se le zebre facessero la fotosintesi, e poi è rosso, dentro è sorprendentemente rosso, questo basta a renderlo fantastico. Poi c’è il fatto che il cocomero non lo trovi dal fruttivendolo tutti i giorni, come le carote, no, devi aspettare l’estate, il caldo, la fine della scuola, allora il cocomero diventa prezioso e spensierato, freschezza dopo tanto sudare. Il cocomero piace a tutti, per forza. Ma a te no. E neanche a me. Capisci? Vogliamo tornare a dire che è normale anche questo? Va bene. È normale. È normale solo se non sei un padre però. Altrimenti è magia, è qualcosa di mio che è cresciuto dentro te, qualcosa che non potevo immaginare fino al giorno in cui hai rifiutato quella fetta rossa e hai fatto la stessa faccia che credo di aver fatto io la prima volta in cui qualcuno mi ha messo davanti un cocomero dicendomi di assaggiarlo. Dicendomi che era buono, troppo buono.

Ah, e questo non è il nome di quella bambina. Ah adesso è il mio sbadiglio, il prologo di ogni volta che sogno di averti con me, è la prima nota della mia risata quando mi rendo conto che non ho bisogno di sognare, tu ci sei. 
È la parte più vera di me che comprende quanto meravigliosa sia la vita. Ah, ho capito. È questo il senso di tutto.
La tua vita, e la mia dentro la tua.