Cuori

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo, forse lo sei davvero, anche se nella mia immaginazione che si confonde con la memoria, questa bambina ha i capelli lisci e bruni, la carnagione molto più scura della tua e due occhi profondissimi. Ha avuto un’infanzia complicata. Un po’ ce l’abbiamo avuta tutti. Lei però ogni giorno che vive trasforma la sofferenza in perle, con le quali fa una collana lunga lunga che quando sarà abbastanza grande per metterla al collo, potrà avvolgere due, tre volte e indossare con disinvoltura, senza eleganza e senza importanza, come si portano due Stan Smith ai piedi, di quelle bianche con la lingua rossa all’altezza dei talloni. 
Non le diamo un nome, perché non ha alcuna rilevanza e perché questa bambina odia apparire. Odia pure le fotografie e anche questo un po’ lo avete in comune, anche se tu te le lasci fare ma più per farmi contento che per reale trasporto. Ha un fardello, grande come una casa, una casa senza le finestre, senza le porte, come quella della canzoncina che canti tu. Lei potrebbe rimanerci dentro, incastrata per tutta la vita. Ma ha una tecnica, un modo tutto suo per entrare e uscire. E alla lunga stare dentro o fuori è diventato sopportabile, poi gestibile, poi ancora naturale. E dentro tutto è usuale, anche se scomodo. Non fa però paura, è solo un posto come un altro e non è casa. Casa è ovunque mette i suoi piedi scalzi. E lei ha la tendenza a togliersi le scarpe ogni volta che può, un po’ dove capita. Poggia la pianta nuda del piede sul pavimento, sulla strada, sulla sabbia e quel posto diventa casa. Immaginati che questa bambina abbia un segreto. Un segreto che le si legge in faccia. Uno di quei segreti che si imparano in anni di solitudine, di amore così pesante da sopportare eppure presente, sempre presente, da non sapere dove metterselo. Vive una vita che è sempre e solo sua, nella quale diventa ogni giorno più grande pur restando piccola. Il tempo scorre ma lei non ha voglia di riacchiapparlo, correggerlo, scuoterlo, come capita a tutti di voler fare. Lei lo sa vivere e lo vive diventando la donna che sarà pur non essendo mai la donna che è. Vederla, in ogni istante di questa vita, è uno spettacolo senza precedenti. Te la devi immaginare, in un fotogramma qualunque di questa esistenza, mentre cammina scalza, le spalle larghe per spalancare la gabbia toracica e far entrare più aria possibile, andare avanti a saltelli che somigliano a passi di danza leggeri. Puoi vederla come vuoi anche se so già la immaginerai come una principessa, perché le principesse entrano sempre, inevitabilmente, dentro le tue storie. Allora facciamo davvero che è una principessa e un po’ davvero lo è. Pocahontas, potrebbe essere lei. E se è una principessa vuol dire che in questa storia deve comparire anche un principe. E facciamo anche che compaia. Eccolo lì. Solo che non è un principe qualunque, di quelli a cavallo e vestiti d’azzurro. Questo è un principe poco principesco. Più un pirata o un bucaniere, ma deve essere principe altrimenti questa storia non funzionerebbe. E allora sia principe. I due si incontrano e lei capisce che ha trovato il contenitore nel quale versare i litri di corallo che porta con sé da sempre. Ma lui distratto com’è, ha lasciato la vasca senza tappo e tutto ciò che ci versi finisce giù per lo scarico. È uno spreco enorme, uno di quegli sfregi così pesanti da farti perdere fiducia nell’umanità. Eppure questa è una favola, abbiamo detto così. E nelle favole accade sempre qualcosa che stravolge tutto, proprio quando tutto sembrava perduto. Una caduta da cavallo, un incidente di percorso, due briganti che afferrano il nostro principe di notte al buio e lo riempiono di botte.  Non so esattamente cosa. Forse solo qualcosa che accade, senza che nessuno capisca, solo accade. Lei è lì accanto a lui, gli tende la mano e, per la prima volta, sussurra il suo segreto. Semplice e leggero come un respiro, gli dice “muoiono tutte le brutte cose di tutti i giorni”. Il principe riapre gli occhi e gli pare sia la prima volta che guarda in faccia il mondo, si sente come risvegliarsi da un torpore che lo teneva fermo da sempre. È sbalordito, si strofina gli occhi e adesso sa solo che è vero. Immaginati che in quel momento appaia tra le sue mani uno strumento a fiato. Forse lo teneva nello zaino. Diciamo un clarinetto e uno Smetana, facciamo che è Smetana. Il punto è che questo principe su un pentagramma non distinguerebbe un semitono da una chiave di violino. Eppure improvvisamente ha poggiato i polpastrelli sui tasti e sta suonando la Moldava. Così. So che non devo convincerti sia vero. Tu lo sai già, perché per te, come per lei, certe cose non si dicono, si sentono, non è vero? 

Ti ho raccontato questa storia perché ho scoperto solo oggi che certe declinazioni che nelle favole sono quasi ovvie per me non lo sono mai state. E allora ho deciso di farmi insegnare anche questa conseguenza logica da te che credi profondamente nelle favole: se ogni cosa è possibile allora ogni cosa può diventare pure reale, anche quando è soltanto disegnata dall’immaginazione. E io ora sento quella musica. La sento davvero. Prima era solo accennata, ora è una sinfonia fortissima e se chiudo gli occhi vedo proprio tutto: gli alberi, le sorgenti, il bosco, le cascate, le ninfe, le montagne, gli animali che giocano a rincorrersi ed è un paesaggio pazzesco. 

About a boy

La saletta è piccola e angusta. La tua maestra ha sistemato le sedie degli adulti sul perimetro della stanza, mentre voi bambini siete seduti su seggioline più piccole, adiacenti a quelle dei vostri genitori. Io ho conquistato subito il posto più defilato e mentre mi sedevo, mi sono reso conto che il mio maglione aveva una macchia enorme sul davanti. Nell’indecisione del toglierlo e rimanere quindi in t-shirt, evidentemente fuori stagione, oppure lasciarlo, studiando la posa migliore per non dare nell’occhio, mi guardavo attorno convincendomi che non era stata affatto una buona idea accettare l’invito della lezione aperta di musica per bambini.

La maestra ha acceso l’hi-fi e ci ha fatto ascoltare un paio di volte una musica che deve aver chiamato “danza romena” o qualcosa del genere, invitandoci subito dopo ad esprimere le nostre sensazioni. Io ero ancora completamente concentrato sulla macchia del mio maglione e non ho per questo prestato la minima attenzione alla musica. Al terzo ascolto ho pensato ad un incantatore di serpenti ma quando siamo stati di nuovo interpellati non l’ho detto sentendomi ridicolo. Tu invece hai detto, sussurrando in modo tale che potessi sentirlo solo io, che avevi immaginato delle onde del mare. La maestra ci ha sottoposto almeno altre due o tre volte all’ascolto, invitandoci ogni volta a riflettere su un passaggio, una frase, uno strumento e, a mano a mano, il paesaggio si arricchiva di esperienze che venivano proposte dai restanti genitori e bambini: fiori, vento, fiumi, arcobaleni, tempeste, barche, ruscelli, stagioni e uccelli. Io e te stavamo zitti, tu curiosissima di sapere dove andava a parare la storia che andava via via costruendosi, io impressionato dall’esperienza fricchettona che inconsapevolmente stavo vivendo.

Ad un certo punto siamo stati invitati, tutti, a rappresentare  ballando la musica che fino a quel punto avevamo ascoltato. Tu mi hai proposto di rappresentare il mare. Un mare prima calmo e leggero, sul quale una barca potesse navigare rilassata, poi in tempesta. È ripartita la traccia e, mimetizzati tra gli altri, abbiamo cominciato a “ballare”. Per fortuna la sala era piccola ed eravamo un po’ ammassati. Io ho guardato quello che facevi tu e mi sono limitato a venirti dietro, simulando con un velo le onde del mare e, di tanto in tanto, sventolandotelo in faccia per strapparti un sorriso. Tu eri invece concentratissima a mimare col tuo corpo e il tuo velo dei movimenti sinuosi delle onde del mare, prima lenti, cauti, poi, assecondando la musica, impetuosi e violenti. 

Al termine di questa fase, la tua maestra ci ha fatto sedere e ha chiesto se c’era qualcuno che si proponeva come volontario per rappresentare pubblicamente, in mezzo alla sala, la propria coreografia. Io ho guardato d’istinto l’orologio appeso alla parete, scoprendo che era passata solo un’ora e ne mancavano ancora due, sprofondando sulla mia sedia convintissimo che nemmeno con una pistola puntata alla schiena avrei alzato la mano. Non immaginerai quindi la mia sorpresa quando, con lo sguardo incastrato sul cortile fuori dalla finestra, ho riconosciuto la tua voce che urlava “Noi! Noi!”. Per fortuna, qualcun altro era riuscito a conquistare l’attenzione della maestra prima di te e mentre questi si preparavano per mettere in scena la loro esibizione, io ti ho guardato e avrei voluto dirti “ma sei pazza!?”, ma ho solo sorriso mentre tu mi dicevi “dopo tocca a noi, papà!”. Il mio cuore ha cominciato a battere movimenti strani e quella che stavo vivendo ha cominciato a somigliare all’attesa che si prova davanti ad un rigore decisivo assegnato alla propria squadra. Solo che stavolta davanti al dischetto c’ero io, anzi noi due.

Quelli al centro della sala hanno cominciato la loro performance accucciati a terra abbracciati, a formare una specie di scoglio in mezzo all’oceano. Poi con l’evolversi della musica lo scoglio è diventato una specie di fiore che si è aperto, con il figlio che sembrava un moscone che girava tutto attorno ai due giganteschi massi dei genitori che sventolando i loro veli e a me sembravano degli invasati percorsi dal tremore premorte.

La musica è inesorabilmente finita e mentre le mie orecchie non ascoltavano più e i miei occhi non sapevano più dove posarsi, mi hai preso per un braccio e trascinato al centro della sala. La musica è partita e tu che interpretavi il mare calmo hai cominciato a ballare la tua danza mentre il tuo velo disegnava delle onde leggere leggere. Io stavo davanti a te, Dave Grohl stava usando le mie tempie come rullanti e il mio corpo non sapeva che posa assumere. Il peggio però doveva ancora venire perché quando la musica ha accelerato di ritmo è venuto il momento della mia parte. Dimenticando tutte le cose che ci eravamo detti, mi sono sentito improvvisamente Marcus che canta a cappella e col tamburello Killing me softly davanti alla platea di tutta la scuola, mentre tu sei diventata Will che mi guarda sicuro e mi salva con le note della sua chitarra elettrica e ho cominciato a sventolare il mio velo impetuosamente sulla tua faccia, mimando un mare in tempesta. 

La musica è finita e i nostri spettatori ci hanno regalato un applauso scrosciante mentre io e te tornavano ai nostri posti e una mamma mi diceva portandosi una mano al petto “commoventissimo” e alzando subito dopo tutti e due i pollici in segno di approvazione. 

Sono sprofondato sulla sedia, promettendo a me stesso che non mi sarei rialzato se non per tornarmene a casa, ammesso che le mie gambe si fossero decise a collaborare. Tu mi hai guardato e mi hai chiesto “siamo stati bravi?”, io ti ho sorriso e sussurrato “bravissimi!”, realizzando chiaramente e solo in quel momento che i miei difetti macroscopici non sono i tuoi, per fortuna, che, anche se mi capita continuamente di pensare che hai il mio naso, le mie guance, i miei occhi, la mia fronte e spesso anche il mio carattere, tu non sei il mio clone ma un essere speciale, unico e inimitabile, e che,  a dire la verità, spesso ho l’impressione di non avere nulla da insegnarti ma solo da imparare.