Breathe

Non sempre potrai fidarti di tutti nella vita, un po’ l’hai già capito. Ci sono persone che godono nel veder soffrire gli altri, come se si nutrissero del loro dispiacere, e lo alimentano, lo provocano, lo cercano. È successo così anche con l’amica della tua amica. Una bambina che conosci di striscio perché frequenta un’altra sezione e alla quale mai ti saresti sognata di far qualcosa di male. Non ha avuto la stessa premura lei per te e, dopo aver passato un pomeriggio a giocare insieme, probabilmente osservando il tuo sguardo timido, le tue parole posate e controllate, i tuoi gesti che non fanno rumore, ha pensato bene di andar a parlar male di te in giro il giorno dopo. Te lo ha detto Silvia, che è una tua amica fidata. Ti ha detto che le aveva raccontato che sei antipatica e sei antipatica anche a Paoletta, che è stato il tramite che vi ha fatto incontrare.
Ti è allora crollato il mondo addosso e mi hai dato un’altra di quelle lezioni di maturità che tiri fuori quando meno me l’aspetto. Ti sei tormentata una notte intera a chiederti e chiedermi se davvero Paoletta potesse pensare di te questo e il mattino dopo appena siete rimaste solo glielo hai chiesto. Bam! Schietto e diretto. Lei ti ha risposto che no, non le stai antipatica. Come puoi pensarlo? Vi siete date un abbraccio (questo non so se sia successo ma voglio immaginarmelo così), e siete tornate con gli altri.

Quando me lo hai raccontato ti ho detto che eri stata brava e che molte persone non sono capaci di farlo. Si accontentano della prima versione che trovano dei fatti, la incartano se la ficcano in tasca e se la tengono per sempre lì, mutando atteggiamenti, espressioni, consuetudini che hanno nei confronti degli altri.
Chissà, ho pensato senza dirti, forse facevo la stessa cosa anch’io quando avevo più o meno la tua età e poi ancora dopo, quando ero più grande, andavo alle medie, iniziavo il liceo.

Ero timido, introverso, spigoloso. Ma volevo, lo volevo davvero, fare amicizia con gli altri. Alcuni di loro erano divertenti e simpatici. Passavamo del tempo insieme, c’era pure una specie di legame. Eppure arrivava sempre qualcuno che mi allontanava o dal quale mi facevo allontanare. Invidiosi o prepotenti, mettevano le loro risate tra me e gli altri, le loro battute ironiche, il sarcasmo spicciolo che può avere un bambino che difende il proprio territorio. E io me ne andavo. Ritornavo dentro la mia tana di solitudine e tristezza, a guardare il mondo che scorreva fuori dalla finestra della mia stanza. Ero solo, dentro e fuori. E disegnavo confini e limiti dentro i quali non mi era permesso spostarmi o allontanarmi, dirazzare. E quelle linee tratteggiate aumentavano ogni giorno d’intensità e volume e io finivo per essere il segnaposto di Google, perennemente inchiodato al perimetro di una stanza.

Quanto sarebbe stato facile, far quello che hai fatto tu. Andare incontro alla paura e chiedere: è vero? Sono io il problema? Ma che lo fossi o no, il problema non si muoveva dal posto che gli avevo dato.

Una volta uno dei bambini simpatici mi disse “gli altri dicono che tu sei uno spione perché ci guardi sempre dalla finestra”. Lo disse senza cattiveria, col tono di chi non crede a ciò che dice. Non seppi cosa rispondere. Mi allontanai e piazzai un nuovo confine tra me e un’altra persona. Quella stessa sera, sentivo le loro voci che chiacchieravano nella panchina sotto la mia finestra. Mi sforzai con tutte le forza che avevo di rimanere sotto le lenzuola e resistere alla tentazione di alzarmi e guardare. Ma li sentivo parlare e parlavano anche di me. È probabile che piansi o covai vendetta e violenza. Qualunque cosa feci, rimase sotto le lenzuola quella sera e tutte quelle che seguirono. Non fui mai capace di integrarmi in quel gruppo che finì per essere il gruppo degli altri. Persi anche le poche amicizie che avevo iniziato e forse anche per questo quando a 19 anni partii per venire qui all’università, sentii che non era solo l’inizio della mia vita da adulto. In qualche modo, era un inizio assoluto.

Puoi passare la vita intera a nasconderti ma prima o poi ciò che fuggi ti troverà. E quello che fuggi non è quasi mai ciò che pensi. Io scappavo dagli altri ma in realtà scappavo da me. Ci ho messo quasi 20 anni per capirlo e oggi che ne ho il doppio ho capito che la vita è più semplice di quanto ce la possiamo ingarbugliare. Spesso vediamo muri davanti a noi, ma se ti avvicini – come hai fatto tu – scopri che quel muro è un foglio di carta che se soffi si stende su un lato e ti lascia respirare.  

Come salvarsi la vita

Io le avrei detto “quando avrò bisogno della tua opinione te la chiederò” oppure ancora “Hai mai fatto caso che ogni tanto si incrocia qualcuno che non va fatto incazzare? Quella sono io!”. Tu hai riso ma hai capito che non avresti tratto un ragno dal buco se continuavamo così e allora ti sei fatta più seria. La tua faccia stava dicendo “papi, ascoltami” e ho provato allora a smettere di essere il cretino che sono e fare il padre. “Dimmi amore, ti ascolto” e hai capito che ora ti stavo ascoltando davvero. 
Il fatto è che questa tua amica, chiamiamola così, fa la stronza. Non giriamoci attorno. Qui lo posso scrivere e dire chiaramente. Per quando lo leggerai, probabilmente non farà più tanto scalpore questo termine. È convinta di essere il capo e si sente il diritto di dire a ognuno quello che deve fare, come lo deve fare, quando lo deve fare. A te dice cose come “tu non puoi giocare” oppure “te ne vai?”. E io mentre ti ascolto ho una tale rabbia che mi monta dentro che vorrei soltanto accenderti la tv, lasciarti vedere quello che vuoi, andare nell’altra stanza, chiamare i suoi genitori e urlargli contro “che cazzo state facendo?”.
Respiro, invece. Continuo ad ascoltarti, capendo che se lascio intravedere quanto sia arrabbiato, cercherai una scorciatoia per evitare i danni collaterali. Fingo comprensione, provo a spiegarti che a volte le persone si comportano così perché dentro hanno un disagio, provo a spingerti a evitare lo scontro e passare il tuo tempo solamente con chi lo merita. Perché il tuo tempo, ti dico, è uno e unico e non lo puoi regalare a chi non lo apprezza per quello che è: prezioso e irripetibile. 

Eppure la mia morale da libro cuore non è sufficiente a darti una soluzione e certamente non calma né te né me. Allora mi sale un sospiro da qualche parte dentro. Prosciuga tutta l’aria che ho intorno e se la porta in fondo alla pancia per poi salire in una nuvola di ricordi e malinconia. 
Amore mio quanto ti capisco. C’era un bambino alle elementari. Aveva la mia stessa età ma aveva fatto la primina e stava nella classe prima della mia. Me lo sono ritrovato alle elementari, alle medie e persino al liceo. Lo odiavo e lui odiava me. 
Mi tormentava. Mi cercava per dirmi cose cattive, su di me che non ero capace di giocare a pallone, che tifavo per una squadra di brocchi, persino su mio padre o la mia famiglia. Non lo sopportavo e provavo sempre a non stargli vicino. La mia strategia era semplicissima: se c’era lui, non c’ero io. Ma in un paese di quattro gatti, una chiesa e un bar, è difficile evitarsi sempre. Così accadeva di scontrarsi, litigare e portare a casa lividi e livore. Abbiamo continuato a odiarci per tutta la nostra vita e anche se non lo vedo da più di vent’anni, penso che se lo reincontrassi lo odierei ancora, per tutto quello che mi ha fatto e detto, o semplicemente perché esisteva. 

Non è stata un’infanzia facile la mia. Mi sentivo solo, lo sai perché te lo racconto sempre. E non avevo niente e nessuno a cui aggrapparmi. Eppure oggi che ho quarant’anni e penso a quegli anni così duri, per la prima volta mi viene in mente che forse devo un grazie a quello stronzo. La prima volta che mi scontrai con lui, lo feci perché stava tormentando un bambino della mia classe che aveva dei problemi fisici. L’ultima perché diffondeva posizioni politiche demenziali. E oggi che ti scrivo, mi viene un po’ da riflettere su quanto amore ho messo in ciò che pensavo, credevo e facevo per difendermi dalle sue aggressioni. Forse non sarei un tifoso così convinto della Roma, se non avessi scelto di tifare anche mentre tutti tifano per i cattivi. Forse non avrei le mie idee, la mie convinzioni, non sarei chi sono oggi se non avessi preso tutte quelle botte. 
Allora approfitto di questa lettera che scrivo a te, per dirgli grazie, anche se mi viene il dubbio che non sappia leggere. 

Se mi stai leggendo, sappi che ti sono grato, perché senza la tua pochezza oggi forse non avrei la mia infinita ricchezza.
Chissà, magari puoi ringraziare anche tu la tua amica.  

‘A vita mia m’a porto n’pietto 
‘o core mio fa oili oilà 
e nun v’à rongo pé dispietto 
‘sta libertà.

La fine dell’estate

Ti verso ancora l’acqua nel bicchiere e i pomeriggi con te sono tutto un coro di “papi ho sete”, “papi mi dai l’acqua”.  Non ci avevo mai fatto caso. Nel senso che non avevo mai collegato questa formula ai tuoi otto anni e mezzo, pensando a quando o come fosse ancora naturale versarti l’acqua. Rispondo a una domanda “ho sete” e trovo una soluzione “ecco l’acqua”. E se ti facessi però male così?
Non succede mai veramente di ricordare chi siamo stati in una dimensione spazio temporale più o meno esatta. Così, raramente capita di avere un ricordo e saperlo collocare nel tempo giusto che l’ha visto svolgersi. Cosa facevo alla tua età? Cosa pensavo? Cosa sapevo fare? Certamente ero un bambino molto solo. Nonostante avessi un fratello più o meno coetaneo, non eravamo molto uniti, anzi spesso ce ne stavamo ognuno per fatti suoi, a cercare di riempire le giornate ritagliandole intorno a una noia che era l’unica vera cosa che condividevamo. 
I nostri genitori erano impegnati in altro. Io e lui, pochi giochi e istinti completamente diversi. Lui correre, saltare, fisico e fiato. Io solo testa: intagliavo dentro alla fantasia favole, costruzioni, progetti, invenzioni che rimanevano solitamente una nuvola già evaporata al mattino dopo. Ricordo però chiaramente quando nacque nostra sorella e questo mi permette di avere un’idea precisissima dell’età che avevo, e avevo l’età che hai tu adesso. Ricordo quel primo anno che i nonni passarono a fare avanti e dietro dall’ospedale per capire cosa avesse questa bambina che non voleva crescere. E poi il sollievo, l’ambientamento, la familiarità di tutti i giorni.
Sai che le cambiavo il pannolino? Da solo, la prendevo in braccio, la mettevo sul letto e la cambiavo. Le davo da mangiare e quando si svegliava ed era sola nella sua culletta, andavo a farle compagnia e qualche volta, solo qualche volta, quando i tuoi nonni erano distratti, andavo da lei anche se non era sveglia e la prendevo lo stesso in braccio e la cullavo lentamente.
Può fare tutte queste cose un bambino di 9 anni e non puoi farle tu che sei capace di cose straordinarie? 

È strano però come tutte queste cose siano sempre state sotto i miei occhi e io non le abbia mai viste. Fa impressione pensarci adesso che ho finalmente gli occhi aperti e vedo il mondo attorno nitido com’è. Forse a volte sono come Rocky con gli occhi completamente chiusi, incapace di inquadrare il ring. E Agata è il mio Micky al quale imploro di aprirmi gli occhi per tornare lì su a fare la mia parte. Lei mi guarda ed è incredula che io possa esser ridotto così e ha la tentazione, la voglia – lo dice pure, in realtà – di lasciar perdere, ché è finita, non ne vale più la pena, sono messo troppo male. Però poi alla fine afferra una lametta e mi incide la parte sopra l’occhio, uno spruzzo di sangue mi ricopre la faccia, mi passa un panno per asciugarmi e finalmente riguardo il mondo e sono il campione che nessuno aveva mai visto, quello che ritorna sul ring e strapazza Apollo. E non è così che faccio anche con lei? Recidivo combatto una battaglia nella quale incasso solamente colpi e i colpi non vengono dal niente, sono tutti i miei sbagli, le cose che non vedo, gli occhi che non proteggo e mi si gonfiano fino a farmi non vedere più. Non sapevo già tutto dall’inizio? Eppure mi lascio andare e inevitabilmente sbaglio fino al momento in cui capisco. E lì, in quel momento, mi sento come il personaggio di Cechov: all’improvviso tutto gli fu chiaro

Non ti darò più l’acqua. È una promessa non una minaccia. Puoi prendertela da sola e se rompi un bicchiere non sarà un gran danno ché ne rompo già di mio tanti senza consumare tragedie. E smetterò lentamente di fare tante altre cose per te. Non perché non ti voglia più bene ma proprio perché te ne voglio da impazzire. E sai un’altra cosa? Quella crostata che diciamo ogni volta di fare insieme e poi finisco a fare quasi completamente io mentre tu ti limiti a rubare pezzetti d’impasto di nascosto, la prossima volta te la lascio fare da sola. Questa è la ricetta, lì la dispensa con le cose che servono. Divertiti! E se casca un po’ di farina per terra non aver paura: c’è il Dyson (che ovviamente puoi usare da sola). Ad Agata non lascerò preparare crostate ché in questo è già un fenomeno indiscusso. A lei lascerò viver la vita che desidera, standole accanto e riempiendo ogni ansa del suo fiume con il mio, fino a farli diventare paralleli e indissolubili. E per ogni sasso, ogni dosso o collinetta, stringerò i denti e ci andrò contro con tutta la forza che non so di avere. 

Promettimi una vita bella

Abbiamo finito di leggere Harry Potter e la Pietra Filosofale. 
L’abbiamo iniziato qualche mese fa e da subito siamo rimasti intrappolati nelle maglie della storia. A puntate, di settimana in settimana, ci siamo inoltrati nel racconto, scoprendoci tristi ogni volta che siamo stati costretti a chiudere il mondo magico del libro per andarcene a dormire. Rimandare alla settimana successiva la lettura è stata spesso una vera tortura. Tuttavia, il racconto ci ha tenuti inchiodati per tante settimane e ci chiamava, come fossimo obbligati a continuare perché Harry, Hermione e Ron potessero portare a conclusione la loro avventura.
Non abbiamo abbandonato il libro nemmeno quando la tua amica di scuola ha provato a spoilerare qualche particolare di questa storia o di quelle che compongono la restante saga. Non lo abbiamo lasciato quando tua madre ti ha regalato il cofanetto dei primi quattro film e tu, combattuta, hai deciso di vedere il primo, e poi lo hai rivisto il giorno dopo e il giorno dopo ancora, mentre ci mancavano forse soltanto tre capitoli per concludere la nostra storia. Sai, ho pensato sarebbe finita lì. Invece sei tornata da me dicendomi “io so delle cose” con un sorrisetto furbo, e hai voluto, preteso, nonostante tutto, continuare a leggere il nostro libro, non tanto perché ti piacesse continuare a galleggiare in quella storia o perché volessi farmi contento, perché eri davvero convinta che leggere avrebbe potuto rivelarti scoperte sensazionali ed emozioni del tutto nuove, comunque nuove. E perché tu sai, sai già che un libro non è solo la storia che racconta.

Allora ti ho proposto di fare come faccio sempre quando sto per finire un romanzo che mi piace tanto. Smetto la lettura al penultimo capitolo e mi lascio il rash finale per un momento nuovo, pulito, lontano da tutto il resto. Così, la sera abbiamo salutato Harry e i suoi amici mentre erano nella stanza della botola e il giorno successivo, subito dopo pranzo, ci siamo sdraiati sul letto e stretti l’uno all’altra ci siamo lasciati riprendere per mano e accompagnare fino alla fine. Mentre leggevo facevo una fatica tremenda per continuare. Mi interrompevo. Fingevo pause inesistenti. Mi schiarivo la voce, per riprendere fiato e sciogliere quel nodo alla gola di emozione e lacrime. Tu eri addosso a me, io usavo la mano sinistra per stringerti, per sentire che eravamo insieme, un libro ci teneva nello stesso posto, sopra lo stesso materasso e in un mondo che è stato di molti ma a me sembrava solo nostro. Noi due, ancorati alla più grande passione che abbiamo in comune.

Qualche anno fa ho letto un libro di Pennac. Parlava di come instillare la passione per le storie nei figli. Avevo poco più di vent’anni, nessunissima idea di avere figli nella vita. Eppure misi mentalmente da parte quelle pagine, promettendomi che il giorno in cui avessi avuto un bambino l’avrei riaperto. Non l’ho mai riletto ma ricordo benissimo il racconto; leggi a tuo figlio, diceva. Leggi finché puoi e un giorno ti strapperà di mano il libro perché non gli basterà più starti ad aspettare e vorrà continuare da solo, per sé, finché ne avrà la forza. Ci ho ripensato ieri, quando ti ho trovata al telefono che rileggevi ad alta voce Piccole donne crescono ad Agata che ti ascoltava rapita. Solo tu, lei, il suono della tua voce sicura e una storia nella quale non vuoi smettere di galleggiare. Ho appoggiato una spalla alla porta e pensato quanto fossi bella e quanto fosse meraviglioso il nostro mondo.

Credo di aver versato più lacrime per i libri che ho letto che per i dolori che realmente ho provato fino a oggi nella vita. Ho amato e odiato tantissimi racconti, molti dei quali, sta tranquilla, ti rifilerò presto. In questi giorni di paura ansia e insicurezza, mi sento come un vecchio al tramonto dei sui giorni che si commuove per molto poco. Piango al telefono con tua nonna, senza rendermene conto, mi muoiono le parole in gola quando le sento dire “non appena potrete ritornare”. Piango con Harry Potter, piango con le notizie alla radio, piango mentre costruiamo un palazzo di 3 piani con i Lego o avvitiamo i pezzi di un Meccano, piango mentre ti guardo metterti il pigiama o quando me ne sto solitario davanti al computer e d’improvviso mi cingi il collo con le braccia. Piango quando ritrovo sulla scrivania il tuo disegno del mare, con i pesci, le alghe, un gabbiano, il sole che affoga nell’acqua. Piango se penso che Agata sta finendo il suo libro e piango pensando al giorno in cui io lo finirò. Piango impastando una pizza, guardando i video della Curva allo stadio, contemplando Testaccio deserta dalla finestra. Dentro tutto questo ci vedo una logica così alta, così forte, così chiara che non posso non piangere e allora piango.

Tre vite

Amore, 
Oggi è Natale, lo aspetti da almeno due mesi. Forse dallo scorso anno. È arrivato come tutte le cose; prima lontanissime, poi tra le mani. 
Stai per svegliarti, manca solo qualche minuto. Già ti vedo. Scalza, corri fino all’albero con gli occhi grandissimi di certezza e stupore, ti siedi sulle radici trasformate in regali per te e ridi, ridi con le braccia che afferrano uno dei pacchi per scuoterlo, ridi guardandomi a cercare un compagno con cui dividere la tua gioia. 

Sei tu. 
Così sicura che la notte abbia compiuto il suo miracolo, eppure sorpresa di assistere alla magia che si compie ancora. 
Il Natale sei tu. Piena di certezza e stupore, e gioia.
E sei così bella che io non so dirlo. 
Allora rido, rido anch’io. 
E potrei dire altro, tanto altro. Adesso, aspettando di sentire i tuoi passi, osservando la porta da cui ti vedrò uscire. Potrei dirti cose importanti, interessanti anche. Invece starò zitto fino a quando aprirai gli occhi su questo giorno, immaginandoti. 
Certo che al mio cuore mancherà un battito e alla mia gola un respiro vedendoti comparire. 
Stupito del fatto che al mio cuore mancherà un battito e alla mia gola un respiro, vedendoti comparire.
Certo della tua gioia, stupito ancora una volta di quanto la tua felicità possa essere potente, e perfetta, sempre nuova, capace di posarsi sulla mia pelle e proteggermi da ogni cosa. Ogni cosa.

Questa lettera sarà breve. Sta per finire.
Solo un istante per ricordarti di fare quella corsetta verso di me e saltarmi al collo quando avrai finito di scartare i tuoi regali, perché credo che oggi, solo oggi, potrei anche rischiare di perdere due battiti e due respiri, e sopravvivere. E sentirmi così bene. Così bene.
Mia piccola fortuna, mia certezza stupore e gioia, buon Natale. 

Sogna, ragazzo, sogna

Cara E,
abbiamo saputo che ultimamente ti stai chiedendo chi lasci davvero i regali nei cassettini del tuo calendario dell’avvento, perché qualcuno ha insinuato il dubbio. È una cosa triste. Sai, ogni volta che un bambino smette di credere in noi, non riusciamo più a entrare nella sua casa. Sappiamo che ti stai chiedendo perché veniamo a farti visita da così tanti anni nel periodo di Natale e perché, allo stesso tempo, non abbiamo mai visitato le case dei tuoi amici. Purtroppo non è una cosa che scegliamo noi. I bambini del mondo scelgono se aprirci i loro cuori, che sono le porte attraverso le quali troviamo la luce per muoverci al buio delle stanze, le chiavi grazie alle quali apriamo portoni, palazzi, fortini moderni. Tu hai scelto di credere, e questo ha creato la strada per arrivare fino al tuo calendario.
Chi c’è davvero dietro quel cioccolato, quelle caramelle, quei piccoli doni colorati che scopri ogni mattina al tuo risveglio è una domanda che solamente chi ha il cuore fermo può farsi. Cosa è vero? Cosa non lo è? Non fartelo mai spiegare da chi guarda il mondo solo attraverso gli occhi. Perché ha deliberatamente deciso di perdere una porzione di realtà che non sarà mai più in grado di afferrare.
Credi invece al tuo cuore e non dar retta a chi prova a condizionare i tuoi sogni. Il tuo cuore ha sempre ragione e tutte le favole, proprio tutte, sono vere. Sono vere finché tu le tieni in vita. 
Crescerai, stai già crescendo, diventerai presto una bambina matura, poi un’adolescente e poi una giovane donna. Le favole non ti abbandoneranno, cresceranno con te, trasformandosi con te. Un po’ alla volta si allontaneranno dalla fantasia diventando emozione, saranno una parte della tua essenza, la maniera in cui penserai e farai le cose di ogni giorno. 
Le tue favole di ieri e di oggi diventeranno reali; la forza di cui avrai bisogno, la sensibilità che ti servirà per voler bene, amare. Allora potrai smettere di credere, ma non sarà più importante. Perché la magia e la sorpresa ti avranno già resa una persona migliore. Troverai la tua lettura di ogni favola e ogni riga, ogni istante delle storie che avrai abitato diventerà metafora di bellezza, giustizia, coraggio. Simbolo del tuo saper vivere il mondo senza allontanarti dall’azzurro di tutte le cose possibili. Tu sarai dentro ogni fiaba, sarai il lupo e la principessa, la pianta di fagioli più alta che si sia mai vista, sarai un cane capace di volare e forse anche una fatina dispettosa, sarai tutti loro. 
Sarai capace di credere, saprai vedere una soluzione per tutte le cose, un rimedio per ogni tristezza, un piccolo miracolo dentro ogni gesto.
Saranno così tante e belle le cose che ti capiteranno da non riuscire più a distinguere quelle vere da quelle magiche. Ma cosa importa. Tutte le favole sono magiche. Tutte le favole sono possibili. Allora sono possibili anche le magie e se sono possibili sono vere. 
Non saranno le bacchette o le formule a farle capitare, sarai tu. Saranno le persone che il tuo cuore ha scelto, sarà tutta la fame d’incanto che stai nutrendo adesso e che non ti stancherai mai di alimentare.
Hai il diritto di continuare a crederci. E noi ti saremo sempre grati per averci ospitato e per continuare a farci vivere nel tuo cuore. Solo tu hai reso possibile tutto questo. Sogna più forte che puoi, chiudi gli occhi e resta in ascolto: li senti i nostri passetti felpati?

Ti vogliamo bene.
I tuoi amati Elfi  

Cuori

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo, forse lo sei davvero, anche se nella mia immaginazione che si confonde con la memoria, questa bambina ha i capelli lisci e bruni, la carnagione molto più scura della tua e due occhi profondissimi. Ha avuto un’infanzia complicata. Un po’ ce l’abbiamo avuta tutti. Lei però ogni giorno che vive trasforma la sofferenza in perle, con le quali fa una collana lunga lunga che quando sarà abbastanza grande per metterla al collo, potrà avvolgere due, tre volte e indossare con disinvoltura, senza eleganza e senza importanza, come si portano due Stan Smith ai piedi, di quelle bianche con la lingua rossa all’altezza dei talloni. 
Non le diamo un nome, perché non ha alcuna rilevanza e perché questa bambina odia apparire. Odia pure le fotografie e anche questo un po’ lo avete in comune, anche se tu te le lasci fare ma più per farmi contento che per reale trasporto. Ha un fardello, grande come una casa, una casa senza le finestre, senza le porte, come quella della canzoncina che canti tu. Lei potrebbe rimanerci dentro, incastrata per tutta la vita. Ma ha una tecnica, un modo tutto suo per entrare e uscire. E alla lunga stare dentro o fuori è diventato sopportabile, poi gestibile, poi ancora naturale. E dentro tutto è usuale, anche se scomodo. Non fa però paura, è solo un posto come un altro e non è casa. Casa è ovunque mette i suoi piedi scalzi. E lei ha la tendenza a togliersi le scarpe ogni volta che può, un po’ dove capita. Poggia la pianta nuda del piede sul pavimento, sulla strada, sulla sabbia e quel posto diventa casa. Immaginati che questa bambina abbia un segreto. Un segreto che le si legge in faccia. Uno di quei segreti che si imparano in anni di solitudine, di amore così pesante da sopportare eppure presente, sempre presente, da non sapere dove metterselo. Vive una vita che è sempre e solo sua, nella quale diventa ogni giorno più grande pur restando piccola. Il tempo scorre ma lei non ha voglia di riacchiapparlo, correggerlo, scuoterlo, come capita a tutti di voler fare. Lei lo sa vivere e lo vive diventando la donna che sarà pur non essendo mai la donna che è. Vederla, in ogni istante di questa vita, è uno spettacolo senza precedenti. Te la devi immaginare, in un fotogramma qualunque di questa esistenza, mentre cammina scalza, le spalle larghe per spalancare la gabbia toracica e far entrare più aria possibile, andare avanti a saltelli che somigliano a passi di danza leggeri. Puoi vederla come vuoi anche se so già la immaginerai come una principessa, perché le principesse entrano sempre, inevitabilmente, dentro le tue storie. Allora facciamo davvero che è una principessa e un po’ davvero lo è. Pocahontas, potrebbe essere lei. E se è una principessa vuol dire che in questa storia deve comparire anche un principe. E facciamo anche che compaia. Eccolo lì. Solo che non è un principe qualunque, di quelli a cavallo e vestiti d’azzurro. Questo è un principe poco principesco. Più un pirata o un bucaniere, ma deve essere principe altrimenti questa storia non funzionerebbe. E allora sia principe. I due si incontrano e lei capisce che ha trovato il contenitore nel quale versare i litri di corallo che porta con sé da sempre. Ma lui distratto com’è, ha lasciato la vasca senza tappo e tutto ciò che ci versi finisce giù per lo scarico. È uno spreco enorme, uno di quegli sfregi così pesanti da farti perdere fiducia nell’umanità. Eppure questa è una favola, abbiamo detto così. E nelle favole accade sempre qualcosa che stravolge tutto, proprio quando tutto sembrava perduto. Una caduta da cavallo, un incidente di percorso, due briganti che afferrano il nostro principe di notte al buio e lo riempiono di botte.  Non so esattamente cosa. Forse solo qualcosa che accade, senza che nessuno capisca, solo accade. Lei è lì accanto a lui, gli tende la mano e, per la prima volta, sussurra il suo segreto. Semplice e leggero come un respiro, gli dice “muoiono tutte le brutte cose di tutti i giorni”. Il principe riapre gli occhi e gli pare sia la prima volta che guarda in faccia il mondo, si sente come risvegliarsi da un torpore che lo teneva fermo da sempre. È sbalordito, si strofina gli occhi e adesso sa solo che è vero. Immaginati che in quel momento appaia tra le sue mani uno strumento a fiato. Forse lo teneva nello zaino. Diciamo un clarinetto e uno Smetana, facciamo che è Smetana. Il punto è che questo principe su un pentagramma non distinguerebbe un semitono da una chiave di violino. Eppure improvvisamente ha poggiato i polpastrelli sui tasti e sta suonando la Moldava. Così. So che non devo convincerti sia vero. Tu lo sai già, perché per te, come per lei, certe cose non si dicono, si sentono, non è vero? 

Ti ho raccontato questa storia perché ho scoperto solo oggi che certe declinazioni che nelle favole sono quasi ovvie per me non lo sono mai state. E allora ho deciso di farmi insegnare anche questa conseguenza logica da te che credi profondamente nelle favole: se ogni cosa è possibile allora ogni cosa può diventare pure reale, anche quando è soltanto disegnata dall’immaginazione. E io ora sento quella musica. La sento davvero. Prima era solo accennata, ora è una sinfonia fortissima e se chiudo gli occhi vedo proprio tutto: gli alberi, le sorgenti, il bosco, le cascate, le ninfe, le montagne, gli animali che giocano a rincorrersi ed è un paesaggio pazzesco. 

Tutto tu vuoi

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo. Forse lo sei davvero. Questa bambina si chiama Ah. 
Proprio così, Ah. Come uno sbadiglio, come la prima nota di una risata, come dire “ho capito”. È un nome tra i sogni, la felicità e l’intelligenza. Secondo me è un nome bellissimo, e se fossi stato meno tradizionalista, se avessi avuto meno anni, idee più folli e l’ardire di seguirle, se tua madre non avesse saputo da sempre il tuo nome, adesso anche tu potresti chiamarti così.

Ah è nata in un giorno di pioggia sottilissima, aghi d’acqua tanto fini e innocui che non riuscivano a bagnare nessuno. Quel giorno il sole è sorto alle cinque e quarantasette minuti e tramontato inspiegabilmente due ore più tardi rispetto a quanto riportava l’almanacco. In quelle due ore Ah è rimasta quasi immobile nella sua culla, la sua mamma guardava oltre la finestra aspettando che la luce calasse, il suo papà guardava il suo cuore ormai perso, addormentato nel piccolissimo torace di Ah. Anch’io ho fatto questo nel tuo primo giorno di vita; guardavo te, instancabilmente, e guardavo il mio cuore scindersi come un atomo, diventare tuo, e crescere crescere. Crescere.
Ah non ha un’età precisa. Non è possibile stabilire quanti anni siano trascorsi dalla sua nascita. Fino al suo terzo compleanno ci sono state torte con candeline rosa, poi non più. Poi i pensieri e le parole di Ah hanno cominciato a evolversi in maniera spropositata, non appartenevano più a quelli di una bambina della sua età, non potevano essere contenuti in un numero. Cinque, sei, sette anni, nessuna di queste lancette le apparteneva. Tutto ciò che faceva era così stupefacente da non poter essere misurato, controllato. Il tempo non era più necessario. Lei ragionava con la saggezza di ottanta lune, comprendeva ciò che ai bambini viene celato, per proteggerli, si dice serva a proteggerli. Osservava apparentemente indifferente comportamenti che sarebbe stata presto in grado di ripetere con la precisione di un liutaio. Imparava termini mai usati da nessuno, disegnava mondi sconosciuti, abitati dalle persone a cui voleva bene. Disegnava enormi barche di zucchero e tendoni del circo in fiera nel cortile della sua casa. Al timone suo padre. Sul filo, sospeso tra una nuvola e una stella a trenta punte, suo padre. Marinaio ed equilibrista. E medico, dottore di tutte le malattie curabili con le caramelle. 
Ecco, queste cose possono sembrare sciocche. Ecco, non lo sono. Queste cose sono le stesse che fai tu, e credo le stesse che faccia ogni bambino del mondo, ma tu le fai meglio. Ogni bambino le fa meglio. 
Ogni bambino dal niente genera mondi irrazionali, eppure di quei mondi sa dire, raccontare, spiegare, con una logica convincente al punto da lasciare senza fiato il più illustre rettore universitario. Ogni bambino ha fermato il tempo il giorno in cui è nato. Tutti i bambini hanno rallentato la rotazione terrestre consentendo al sole di splendere più a lungo. È da qui che nasce l’espressione venire alla luce, non si tratta solo della luce fuori dal pancione delle loro mamme, è una luce speciale, un bacio dal cielo alla culla, lungo il tempo che serve a capacitarsi di quanto possa essere eccezionale il miracolo che avviene da sempre, eppure non riesce a perdere neanche una sfumatura d’ombra dello stupore che si trascina dietro a ogni respiro, passo, gesto.

Ti racconto questa cosa. Ah un giorno era a casa, era pomeriggio, sua madre le stava preparando il pane con la confettura di albicocche, le piacciono molto le albicocche. Suo padre non stava bene: solo un po’ di febbre, qualche starnuto. Ad Ah era stato detto di non avvicinarsi a lui, avrebbe potuto ammalarsi. Camminava appena, instabile, i passi strani dei cuccioli, che sollevano troppo le ginocchia e sembrano avanzare come muovendosi nel cerchio di una danza africana. Con quei passi è andata verso la stanza del suo papà, sua madre a rincorrerla per portarla indietro, invece non ce n’è stato bisogno. Ah si è fermata davanti alla porta, l’orecchio teso fino all’istante in cui un colpo di tosse è riuscito a sovrastare il volume basso della televisione, allora si è voltata, “tosse”, ha detto, l’espressione vagamente contrita andava trasformandosi in sollievo. “Tosse solo”, ha pronunciato queste due parole come a stabilire che era tutto a posto, tornando in cucina e sedendosi sullo sgabello, finalmente serena. Non so cosa siano le malattie per i bambini, un pericolo suppongo, intuiscono l’ipotesi degenerativa che si cela dietro quel termine, quella condizione. So che la premura e la dolcezza di Ah, che senza entrare, senza disturbare, si accerta che il suo papà sia malato ma ci sia, che stia bene in fondo, che la sua sia solo tosse, per me è una cosa così grande, dolce, così piena di protezione, interesse, e potrei andare avanti e riempire pagine di aggettivi, ma non lo farò. Dirò solo che per me sei tu, i tuoi baci piccolissimi, infiniti, pronti, come urgentissimi. La tua capacità d’intuire, sapere qual è il momento in cui quei baci mi servono davvero, e mi servono così tanto che non ricordo più di che colore fosse il mare, che sapore avessero le arance prima dei tuoi baci. 

Lascia che ti racconti ancora qualcosa. Ah ogni tanto canta qualche strofa della canzone preferita di suo padre, anche tu lo fai. È normale, va bene, facciamo finta che sia normale, ma non lo è. Ti piacciono canzoni diverse da quelle che ascolto io, eppure di tanto in tanto mi concedi di ascoltare dalla tua voce, che lo sai, è la mia voce preferita in assoluto, la versione live della colonna sonora di un pezzetto della mia vita. Non è normale quello che mi succede, non è normale come mi sento, dura un istante, un momento di comunione tra te, me e chi sono stato prima ancora che tu esistessi. Quell’istante non è normale.
Ah ha i suoi gusti, oltre alle albicocche le piacciono molto il cioccolato e la polenta che fa sua nonna in inverno, che è anche il piatto preferito di suo padre. Tu hai i tuoi gusti, ti piacciono le patatine e il gelato, non ti piace il cocomero. Allora, il cocomero piace a tutti. A tutti. È grande, tondo come un pallone da spiaggia, verde come una zebra se le zebre facessero la fotosintesi, e poi è rosso, dentro è sorprendentemente rosso, questo basta a renderlo fantastico. Poi c’è il fatto che il cocomero non lo trovi dal fruttivendolo tutti i giorni, come le carote, no, devi aspettare l’estate, il caldo, la fine della scuola, allora il cocomero diventa prezioso e spensierato, freschezza dopo tanto sudare. Il cocomero piace a tutti, per forza. Ma a te no. E neanche a me. Capisci? Vogliamo tornare a dire che è normale anche questo? Va bene. È normale. È normale solo se non sei un padre però. Altrimenti è magia, è qualcosa di mio che è cresciuto dentro te, qualcosa che non potevo immaginare fino al giorno in cui hai rifiutato quella fetta rossa e hai fatto la stessa faccia che credo di aver fatto io la prima volta in cui qualcuno mi ha messo davanti un cocomero dicendomi di assaggiarlo. Dicendomi che era buono, troppo buono.

Ah, e questo non è il nome di quella bambina. Ah adesso è il mio sbadiglio, il prologo di ogni volta che sogno di averti con me, è la prima nota della mia risata quando mi rendo conto che non ho bisogno di sognare, tu ci sei. 
È la parte più vera di me che comprende quanto meravigliosa sia la vita. Ah, ho capito. È questo il senso di tutto.
La tua vita, e la mia dentro la tua.

Chiuso dall’interno

Ti piace raccontare storie, inventarle dal niente e sei anche brava. Lo fai senza un reale piano, al contrario di quello che ti ho spiegato quando ti ho detto che raccontare storie è come costruire un mobile o una casa: serve sempre un progetto. In realtà è solo una cosa che ho detto, convincendo poco sia te che me che scrivo a tutt’oggi senza un progetto, semplicemente lanciando le parole sul foglio bianco del computer, così come i pensieri le mischiano e le dita compongono, limitandomi a sistemarle alla fine.
Le tue storie sono molto articolate, piane di incisi e tangenti che spesso si perdono o ci fanno perdere in storie o pezzi di altre storie. È però bello starti ad ascoltare. Vuoi che ti dica ogni tanto di sì, anche solo con la testa, per confermarti che ci sono, sono lì dove tu mi stai portando. Anche questo lo abbiamo in comune. Pure io mi interrompo quando racconto se chi mi sta di fronte non mi dice di tanto in tanto “uhm uhm” o “sì”.

La storia che mi racconti ultimamente è divertente. È cominciata qualche settimana fa mentre tornavamo in macchina dal mare. Mi hai chiesto ancora cosa voglio fare da grande. Io ti ho risposto l’astronauta o il pilota di mongolfiere, non ricordo. Tu mi hai detto allora che avevi il mestiere perfetto per me e che se volevo mi potevi spiegare come fare. Volevo. Hai detto allora che il mestiere del futuro, quello che mi farà guadagnare tanti soldi, è lo scaccoliere (o scaccolista, hai detto proprio così, perché, hai spiegato, si può dire in entrambi i modi). Lo scaccoliere è uno specialista, come un medico, ha un suo studio, al quinto piano di un edificio all’Eur e riceve per appuntamento. “Visita” un certo numero di persone al giorno, gli toglie le caccole dal naso e poi le mette nel computer per analizzarle. Ha il responso solo dopo qualche giorno, perché il computer deve fare calcoli complessi per sapere se le caccole sono buone oppure marce. Quando finalmente si ha il responso, le persone tornano e vengono a ritirare le caccole buone (quelle marce vanno al macero), se le portano via, se la mangiano o ci fanno quello che vogliono.

È una storia disgustosa che fa venire il vomito solo a leggerla o pensarla. Te l’ho detto e tu hai riso tanto soddisfatta della reazione che hai ottenuto. Col tempo hai arricchito questa storia di tanti particolari: le modalità di prenotazione degli appuntamenti, le tecniche di scaccolamento, i profili dei “pazienti”. Ad un certo punto, mi hai persino raccontato l’arredamento dello studio dello scaccolista. E ogni volta io mi sono sentito fiero della tua fantasia e dell’uso che ne fai. Le tangenti che prende e le stanze che riempie di minuzie e particolari che creano uno spazio comodo e leggero riservato a noi due. So che la tua passione per le caccole non è casuale. È una di quelle storture da me indotte che ti ho convinta di avere una venerazione per le caccole a tal punto dal convincerti a mettere da parte quelle più grandi. È una cosa schifosa, lo so. Ma è parte del nostro mondo, fatto di sorrisi, risate, battute buffe, talvolta scomode, qualche volta esagerate. Io ci sto bene e so che pure tu ci stai alla grande. E allora ci stanno bene anche le caccole. Solo questo.

Intanto ci ho riflettuto un po’. Non so se me la sento così dal niente di mollare tutto e avviare una carriera da scaccolista. Non so nemmeno se il mondo sarebbe pronto per una cosa così. Forse mi prendo un altro po’ di tempo per pensarci. Nel frattempo, chissà, trovo il modo per diventare astronauta o pilota di mongolfiera perché se c’è una cosa che mi insegni giorno dopo giorno è che davvero posso diventare tutto ciò che voglio. Posso perché voglio, perché tu ci credi e perché prendi sul serio tutto ciò che dico, anche quando è una cosa aberrante come conservare una caccola per farmela vedere.

L’Internazionale

Le maestre della tua classe hanno deciso di mettere in scena per la recita di fine anno una rielaborazione di Inside Out e, dopo alcuni provini, hanno assegnato le parti.
Tu sei tornata a casa triste e malinconica, raccontando che ci eri rimasta male perché ti era toccata la Noia mentre tu avresti voluto con tutta te stessa essere l’Amore. Mi ha fatto sorridere il fatto che nel tuo mondo non stai interpretando una parte quanto piuttosto assumendo quel ruolo nella vita. Questo ti ci ha fatto rimanere male, forse perché deve essere scattato in te un meccanismo mentale per il quale devi aver pensato che affidandoti quella parte per le tue maestre sei una bambina noiosa.

Io, per farti ridere, ti ho detto che ti avrei visto meglio come La Lagna ma non ha attecchito poi tanto.
Mi sono così fermato a riflettere un secondo su quanto siamo diversi e, ancora, sulle cose che io avrei sempre voluto per te, sin dal primo momento che ti ho vista.
Il mio puffo preferito, quando avevo più o meno la tua età, era brontolone. Pur amando esageratamente la perfetta armonia che regnava a pufflandia, mi piaceva da morire il suo brontolio di sottofondo, quell’imperituro io odio le puffragoleio odio le festeio odio l’estate, mi pareva il modo migliore di non essere omologato alla massa dei puffi che accettavano passivamente l’andirivieni delle giornate. Che poi, brontolone il più delle volte si limitava a lamentarsi ma, di fatto, si allineava alle regole come tutti gli altri. 

Io mi sentivo simile a lui. Nel mio mondo di bambino, banale e un po’ noioso, provavo con tutto me stesso a respingere la banalità delle giornate con il mio “io odio”, pur restando ligiamente dentro al sentiero delle regole. Sono cresciuto allo stesso modo, alternando periodi di ribellione a stasi che potevano durare lunghissimi mesi. Forse pure per questo, se mi avessero assegnato la parte della noia lo avrei probabilmente trovato divertente e mi avrebbe fatto sentire fuori dal coro.
Eppure – e per fortuna – tu non sei me. E, nonostante gli ingenui tentativi di ricercare in te parti di me, è da quando sei piccolissima che tento, con la complicità di tua madre, di inculcarti valori, passioni, ideali che siano il più universali possibili, ben al di là dei miei che si sono scontrati quasi sempre col cinismo e il disincanto. 

Quando eri ancora nella pancia di tua madre – per dire – spesso la sera ci sdraiavamo uno accanto all’altro a letto, io le scoprivo la pancia, bussavo delicatamente e ti parlavo. Una delle prime cose che avevo comprato per te, era un carrillon che produceva le note de L’Internazionale. Chiedevo la tua attenzione e mi immaginavo te, piccolissima e svelta, che avvicinavi l’orecchio alla parete della pancia. Io avviavo il carrillon e cominciavo a cantare sottovoce Compagni avanti il gran partito noi siamo dei lavoratori

Tutto è cominciato così, con le note di una canzone senza tempo. Sin da allora, avrei voluto per te solo il meglio: lealtà, sincerità, onestà, altruismo. Cose che provo (proviamo) a farti vedere e sperimentare in ogni singolo istante delle tue giornate.
Così, se oggi quando andiamo in giro non mi sorprendo se ti vedo ficcare nello zaino la Costutuzione italiana per bambini, forse non dovrei sorprendermi nemmeno perché nella recita di fine anno vorresti essere l’amore.