Promettimi una vita bella

Abbiamo finito di leggere Harry Potter e la Pietra Filosofale. 
L’abbiamo iniziato qualche mese fa e da subito siamo rimasti intrappolati nelle maglie della storia. A puntate, di settimana in settimana, ci siamo inoltrati nel racconto, scoprendoci tristi ogni volta che siamo stati costretti a chiudere il mondo magico del libro per andarcene a dormire. Rimandare alla settimana successiva la lettura è stata spesso una vera tortura. Tuttavia, il racconto ci ha tenuti inchiodati per tante settimane e ci chiamava, come fossimo obbligati a continuare perché Harry, Hermione e Ron potessero portare a conclusione la loro avventura.
Non abbiamo abbandonato il libro nemmeno quando la tua amica di scuola ha provato a spoilerare qualche particolare di questa storia o di quelle che compongono la restante saga. Non lo abbiamo lasciato quando tua madre ti ha regalato il cofanetto dei primi quattro film e tu, combattuta, hai deciso di vedere il primo, e poi lo hai rivisto il giorno dopo e il giorno dopo ancora, mentre ci mancavano forse soltanto tre capitoli per concludere la nostra storia. Sai, ho pensato sarebbe finita lì. Invece sei tornata da me dicendomi “io so delle cose” con un sorrisetto furbo, e hai voluto, preteso, nonostante tutto, continuare a leggere il nostro libro, non tanto perché ti piacesse continuare a galleggiare in quella storia o perché volessi farmi contento, perché eri davvero convinta che leggere avrebbe potuto rivelarti scoperte sensazionali ed emozioni del tutto nuove, comunque nuove. E perché tu sai, sai già che un libro non è solo la storia che racconta.

Allora ti ho proposto di fare come faccio sempre quando sto per finire un romanzo che mi piace tanto. Smetto la lettura al penultimo capitolo e mi lascio il rash finale per un momento nuovo, pulito, lontano da tutto il resto. Così, la sera abbiamo salutato Harry e i suoi amici mentre erano nella stanza della botola e il giorno successivo, subito dopo pranzo, ci siamo sdraiati sul letto e stretti l’uno all’altra ci siamo lasciati riprendere per mano e accompagnare fino alla fine. Mentre leggevo facevo una fatica tremenda per continuare. Mi interrompevo. Fingevo pause inesistenti. Mi schiarivo la voce, per riprendere fiato e sciogliere quel nodo alla gola di emozione e lacrime. Tu eri addosso a me, io usavo la mano sinistra per stringerti, per sentire che eravamo insieme, un libro ci teneva nello stesso posto, sopra lo stesso materasso e in un mondo che è stato di molti ma a me sembrava solo nostro. Noi due, ancorati alla più grande passione che abbiamo in comune.

Qualche anno fa ho letto un libro di Pennac. Parlava di come instillare la passione per le storie nei figli. Avevo poco più di vent’anni, nessunissima idea di avere figli nella vita. Eppure misi mentalmente da parte quelle pagine, promettendomi che il giorno in cui avessi avuto un bambino l’avrei riaperto. Non l’ho mai riletto ma ricordo benissimo il racconto; leggi a tuo figlio, diceva. Leggi finché puoi e un giorno ti strapperà di mano il libro perché non gli basterà più starti ad aspettare e vorrà continuare da solo, per sé, finché ne avrà la forza. Ci ho ripensato ieri, quando ti ho trovata al telefono che rileggevi ad alta voce Piccole donne crescono ad Agata che ti ascoltava rapita. Solo tu, lei, il suono della tua voce sicura e una storia nella quale non vuoi smettere di galleggiare. Ho appoggiato una spalla alla porta e pensato quanto fossi bella e quanto fosse meraviglioso il nostro mondo.

Credo di aver versato più lacrime per i libri che ho letto che per i dolori che realmente ho provato fino a oggi nella vita. Ho amato e odiato tantissimi racconti, molti dei quali, sta tranquilla, ti rifilerò presto. In questi giorni di paura ansia e insicurezza, mi sento come un vecchio al tramonto dei sui giorni che si commuove per molto poco. Piango al telefono con tua nonna, senza rendermene conto, mi muoiono le parole in gola quando le sento dire “non appena potrete ritornare”. Piango con Harry Potter, piango con le notizie alla radio, piango mentre costruiamo un palazzo di 3 piani con i Lego o avvitiamo i pezzi di un Meccano, piango mentre ti guardo metterti il pigiama o quando me ne sto solitario davanti al computer e d’improvviso mi cingi il collo con le braccia. Piango quando ritrovo sulla scrivania il tuo disegno del mare, con i pesci, le alghe, un gabbiano, il sole che affoga nell’acqua. Piango se penso che Agata sta finendo il suo libro e piango pensando al giorno in cui io lo finirò. Piango impastando una pizza, guardando i video della Curva allo stadio, contemplando Testaccio deserta dalla finestra. Dentro tutto questo ci vedo una logica così alta, così forte, così chiara che non posso non piangere e allora piango.

Sei il mio vice-sceriffo preferito!

Fare il padre è il mestiere più difficile del mondo. Quando poi sei un genitore separato, tutto è più complicato perché il tempo che passo con te sto con te senza interruzioni, senza distrazioni. Quando si è in due, uno dei due può permettersi il lusso delle pause. Quando si è soli, tutto è più complicato. Lo è, a maggior ragione, quando il rapporto è inframmezzato da giorni di distanza, in cui non ci vediamo. Il tempo che passiamo insieme deve colmare quello perso e recuperare le cose che non ci siamo detti, quelle che non abbiamo fatto, pur senza interrompere la tua routine quotidiana fatta di scuola, amiche, attività ludico-ricreative-sportive. Una fatica tremenda insomma. A tal punto che quando ci fermiamo (generalmente accade prima di mettersi a letto), è come riprendere fiato dopo una corsa. Ti guardo, tu ti rilassi, finisci di raccontarmi le cose che ti tornano in mente, io ti accarezzo i capelli e diventiamo solo padre e figlia, una storia da raccontare, un futuro da costruire.
Ho sempre provato a non farti sentire molta differenza tra lo stare con tua madre e lo stare con me. Ti porto al parco, ti inseguo mentre corri sui pattini, ti vengo in soccorso quando mi chiami e l’acuto della tua voce che implora “papà” copre distanze siderali.   

Però non volevo dire dello stare insieme. Volevo raccontarti e sorprendermi di qualche pomeriggio fa, quando siamo andati a vedere Toy Story 4 al cinema.
Non saprei descrivere esattamente perché, ma abbiamo entrambi una straordinaria passione per Toy Story. Il tuo personaggio preferito è Woody, seguito da Jessie. Il mio è senza dubbio Buzz Lightyear, anche se quello che mi fa ridere di più è Rex. Credo che il tuo essere affezionata a Woody sia dovuto alla sicurezza che trasmette, quel suo saper tenere sempre tutto sotto controllo, far regnare l’armonia tra i giocattoli e far vincere sempre l’amicizia. Somiglia molto al tuo modo di essere o, per lo meno, all’idea del mondo che mi racconti. Odii quando c’è un po’ di discordia tra le tue amiche o quando qualcuna di loro impazzisce e comincia a prendere in giro te o qualcun’altra del gruppo. Non è dovuto all’incapacità di vivere il conflitto quanto alla sua totale incomprensione. Per te non c’è mai ragione di litigare e quando succede ci rimani così tanto male che gli altri fanno fatica a capire il tuo disorientamento. Vorresti che le cose si rimettessero a posto, in qualunque modo e che l’armonia regnasse sempre, senza intoppi.
Io adoro invece Linghtyear perché sento che mi somiglia molto. È silenzioso, spesso in disparte ma non si tira mai indietro quando c’è bisogno d’aiuto e rivela doti e capacità straordinarie. Il suo non capire le batture o non saper leggere sempre la realtà, il suo vivere in un presente bidimensionale, diviso tra ciò che avviene per tutti gli altri e un mondo fatto di basi e razzi spaziali, missioni interplanetarie e poteri cosmici che nessun altro vede, è molto mio. 

Ci commuoviamo sempre al cinema o a casa davanti ai film che ci piacciono. Generalmente la nostra commozione non è sincronizzata. Su di te fanno effetto soprattutto le ingiustizie. Io mi commuovo quasi sempre per gli abbandoni o gli addii.
In Toy Story 4 c’è una scena in cui una bambina si è persa al luna park. È dietro una parete, piange, è disperata. È bloccata dalla paura e non sa cosa fare né come. Woody la vede e insieme a Gabby Gabby decide di aiutarla. Gabby Gabby le si avvicina furtiva, poi prende la posa da bambola, tira il cordino del suo disco vocale. La bambina si volta, la vede, l’abbraccia e trova la forza per uscire dall’ombra e chiedere aiuto. È stato più o meno a questo punto che tu hai cominciato a piangere a dirotto. Ti sei buttata tra le mie braccia e piangevi di un pianto inconsolabile. Io volevo a tutti i costi calmarti, anche perché piangevi a singhiozzi e tutto il cinema avrà pensato che ti stavo menando, ma purtroppo stavo piangendo anch’io e ogni frase che provavo a dire sotto voce mi moriva in gola strozzata dalla commozione. Ci siamo allora solo abbracciati e lasciati consolare dal calore delle braccia. Ecco, in momenti come questi penso che essere padre sia la cosa più bella e unica del mondo. Ed è talmente mia che va verso l’infinito e oltre.