Tutto tu vuoi

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo. Forse lo sei davvero. Questa bambina si chiama Ah. 
Proprio così, Ah. Come uno sbadiglio, come la prima nota di una risata, come dire “ho capito”. È un nome tra i sogni, la felicità e l’intelligenza. Secondo me è un nome bellissimo, e se fossi stato meno tradizionalista, se avessi avuto meno anni, idee più folli e l’ardire di seguirle, se tua madre non avesse saputo da sempre il tuo nome, adesso anche tu potresti chiamarti così.

Ah è nata in un giorno di pioggia sottilissima, aghi d’acqua tanto fini e innocui che non riuscivano a bagnare nessuno. Quel giorno il sole è sorto alle cinque e quarantasette minuti e tramontato inspiegabilmente due ore più tardi rispetto a quanto riportava l’almanacco. In quelle due ore Ah è rimasta quasi immobile nella sua culla, la sua mamma guardava oltre la finestra aspettando che la luce calasse, il suo papà guardava il suo cuore ormai perso, addormentato nel piccolissimo torace di Ah. Anch’io ho fatto questo nel tuo primo giorno di vita; guardavo te, instancabilmente, e guardavo il mio cuore scindersi come un atomo, diventare tuo, e crescere crescere. Crescere.
Ah non ha un’età precisa. Non è possibile stabilire quanti anni siano trascorsi dalla sua nascita. Fino al suo terzo compleanno ci sono state torte con candeline rosa, poi non più. Poi i pensieri e le parole di Ah hanno cominciato a evolversi in maniera spropositata, non appartenevano più a quelli di una bambina della sua età, non potevano essere contenuti in un numero. Cinque, sei, sette anni, nessuna di queste lancette le apparteneva. Tutto ciò che faceva era così stupefacente da non poter essere misurato, controllato. Il tempo non era più necessario. Lei ragionava con la saggezza di ottanta lune, comprendeva ciò che ai bambini viene celato, per proteggerli, si dice serva a proteggerli. Osservava apparentemente indifferente comportamenti che sarebbe stata presto in grado di ripetere con la precisione di un liutaio. Imparava termini mai usati da nessuno, disegnava mondi sconosciuti, abitati dalle persone a cui voleva bene. Disegnava enormi barche di zucchero e tendoni del circo in fiera nel cortile della sua casa. Al timone suo padre. Sul filo, sospeso tra una nuvola e una stella a trenta punte, suo padre. Marinaio ed equilibrista. E medico, dottore di tutte le malattie curabili con le caramelle. 
Ecco, queste cose possono sembrare sciocche. Ecco, non lo sono. Queste cose sono le stesse che fai tu, e credo le stesse che faccia ogni bambino del mondo, ma tu le fai meglio. Ogni bambino le fa meglio. 
Ogni bambino dal niente genera mondi irrazionali, eppure di quei mondi sa dire, raccontare, spiegare, con una logica convincente al punto da lasciare senza fiato il più illustre rettore universitario. Ogni bambino ha fermato il tempo il giorno in cui è nato. Tutti i bambini hanno rallentato la rotazione terrestre consentendo al sole di splendere più a lungo. È da qui che nasce l’espressione venire alla luce, non si tratta solo della luce fuori dal pancione delle loro mamme, è una luce speciale, un bacio dal cielo alla culla, lungo il tempo che serve a capacitarsi di quanto possa essere eccezionale il miracolo che avviene da sempre, eppure non riesce a perdere neanche una sfumatura d’ombra dello stupore che si trascina dietro a ogni respiro, passo, gesto.

Ti racconto questa cosa. Ah un giorno era a casa, era pomeriggio, sua madre le stava preparando il pane con la confettura di albicocche, le piacciono molto le albicocche. Suo padre non stava bene: solo un po’ di febbre, qualche starnuto. Ad Ah era stato detto di non avvicinarsi a lui, avrebbe potuto ammalarsi. Camminava appena, instabile, i passi strani dei cuccioli, che sollevano troppo le ginocchia e sembrano avanzare come muovendosi nel cerchio di una danza africana. Con quei passi è andata verso la stanza del suo papà, sua madre a rincorrerla per portarla indietro, invece non ce n’è stato bisogno. Ah si è fermata davanti alla porta, l’orecchio teso fino all’istante in cui un colpo di tosse è riuscito a sovrastare il volume basso della televisione, allora si è voltata, “tosse”, ha detto, l’espressione vagamente contrita andava trasformandosi in sollievo. “Tosse solo”, ha pronunciato queste due parole come a stabilire che era tutto a posto, tornando in cucina e sedendosi sullo sgabello, finalmente serena. Non so cosa siano le malattie per i bambini, un pericolo suppongo, intuiscono l’ipotesi degenerativa che si cela dietro quel termine, quella condizione. So che la premura e la dolcezza di Ah, che senza entrare, senza disturbare, si accerta che il suo papà sia malato ma ci sia, che stia bene in fondo, che la sua sia solo tosse, per me è una cosa così grande, dolce, così piena di protezione, interesse, e potrei andare avanti e riempire pagine di aggettivi, ma non lo farò. Dirò solo che per me sei tu, i tuoi baci piccolissimi, infiniti, pronti, come urgentissimi. La tua capacità d’intuire, sapere qual è il momento in cui quei baci mi servono davvero, e mi servono così tanto che non ricordo più di che colore fosse il mare, che sapore avessero le arance prima dei tuoi baci. 

Lascia che ti racconti ancora qualcosa. Ah ogni tanto canta qualche strofa della canzone preferita di suo padre, anche tu lo fai. È normale, va bene, facciamo finta che sia normale, ma non lo è. Ti piacciono canzoni diverse da quelle che ascolto io, eppure di tanto in tanto mi concedi di ascoltare dalla tua voce, che lo sai, è la mia voce preferita in assoluto, la versione live della colonna sonora di un pezzetto della mia vita. Non è normale quello che mi succede, non è normale come mi sento, dura un istante, un momento di comunione tra te, me e chi sono stato prima ancora che tu esistessi. Quell’istante non è normale.
Ah ha i suoi gusti, oltre alle albicocche le piacciono molto il cioccolato e la polenta che fa sua nonna in inverno, che è anche il piatto preferito di suo padre. Tu hai i tuoi gusti, ti piacciono le patatine e il gelato, non ti piace il cocomero. Allora, il cocomero piace a tutti. A tutti. È grande, tondo come un pallone da spiaggia, verde come una zebra se le zebre facessero la fotosintesi, e poi è rosso, dentro è sorprendentemente rosso, questo basta a renderlo fantastico. Poi c’è il fatto che il cocomero non lo trovi dal fruttivendolo tutti i giorni, come le carote, no, devi aspettare l’estate, il caldo, la fine della scuola, allora il cocomero diventa prezioso e spensierato, freschezza dopo tanto sudare. Il cocomero piace a tutti, per forza. Ma a te no. E neanche a me. Capisci? Vogliamo tornare a dire che è normale anche questo? Va bene. È normale. È normale solo se non sei un padre però. Altrimenti è magia, è qualcosa di mio che è cresciuto dentro te, qualcosa che non potevo immaginare fino al giorno in cui hai rifiutato quella fetta rossa e hai fatto la stessa faccia che credo di aver fatto io la prima volta in cui qualcuno mi ha messo davanti un cocomero dicendomi di assaggiarlo. Dicendomi che era buono, troppo buono.

Ah, e questo non è il nome di quella bambina. Ah adesso è il mio sbadiglio, il prologo di ogni volta che sogno di averti con me, è la prima nota della mia risata quando mi rendo conto che non ho bisogno di sognare, tu ci sei. 
È la parte più vera di me che comprende quanto meravigliosa sia la vita. Ah, ho capito. È questo il senso di tutto.
La tua vita, e la mia dentro la tua.

Favole al telefono

C’è una cosa che non ti ho mai raccontato. È una cosa di cui non so se vergognarmi. Durante il mio ultimo periodo a casa con voi ero così confuso da non sapere cosa sarebbe successo nell’intervallo di pochi minuti. Vivevo una vita sospesa, come in attesa che accadesse qualcosa o che qualcun altro potesse decidere per me la cosa giusta da fare.
Non te lo ricorderai perché eri troppo piccola o forse un giorno, sorprendendomi per l’ennesima volta, mi racconterai di come hai vissuto quei giorni terribili.
Durante quelle sere, ti mettevo sempre io a letto. Tu sceglievi meticolosamente un libro dalla libreria e io mi sedevo sulla poltrona e cominciavo a leggere.

Ecco, la cosa che volevo raccontarti è questa. In quelle sere prima di dormire io registravo la mia voce che leggeva le tue storie preferite. Non so esattamente per quale ragione. Certo non avrei immaginato che un giorno quelle registrazioni mi avrebbero fatto compagnia.
Nel tempo questa cosa era finita chissà dove nei ricordi e l’avevo quasi rimossa. Me ne sono ricordato improvvisamente qualche giorno fa.
Stavo facendo un trekking sui Lucretili e mentre percorrevo gli ultimi 2 chilometri verso la vetta del Monte Gennaro, nel folto di un tratto di foresta, mi è venuta improvvisamente in mente.
Ho percorso l’ultimo pezzo arrancando un po’ e accusando un dolore lato alla gamba sinistra ma sono arrivato in cima senza troppa fatica.
In vetta non c’era nessuno. Mi sono arrampicato sul cubo di sassi e cemento che sorregge la croce di ferro e seduto sul ciglio. C’era vento e anche se faceva caldo si stava bene. Con le gambe penzoloni e l’orizzonte sterminato tutto intorno, ho rovistato nello zaino per trovare il telefono. Mi sono ficcato le cuffie nelle orecchie e, scalando una selva di messaggi vocali mai inviati, ho finalmente trovato i file che cercavo e premuto play su “Zeb”.

La storia è incentrata su una piccola zebra che va al campo estivo per la prima volta nella sua vita. È sconsolata e triste perché dovrà lasciare i suoi genitori e teme di non farcela a stargli lontano per così tanto tempo. La mamma e il papà hanno allora l’idea di imprimere i loro baci sui dei foglietti che arrotolano come caramelle e ficcano dentro una scatola. Così, ogni volta che Zeb sarà triste, potrà tirare fuori dalla scatola un bacio-caramella e sentirsi meno lontano da casa. La cosa funziona a tal punto che durante la prima notte di viaggio, non solo Zeb ma l’intera compagnia di zebre usa i baci-caramella per consolarsi e sopravvivere alla malinconia.
La mia voce nelle cuffie legge l’ultima frase del libro e poi ti dice “Adesso si dorme” e la tua risponde “ma è già finita? Era troppo corta”, poi la registrazione si interrompe.

Mi sfilo le cuffie dalle orecchie. Il vento mi soffia in faccia ricordi e tristezza. Chissà a chi apparteneva la voce che leggeva quella favola, chissà che pensieri si portava dietro. Pur avendo quasi dimenticato quella favola, devo aver interiorizzato a tal punto i suoi precetti da farli miei. Non so nemmeno dire quante volte in questi due anni ti ho sentita dire “papà quando sono con te mi manca mamma e quando sono con lei mi manchi tu”. Una domanda alla quale rispondo sempre allo stesso modo: anche tu mi manchi tesoro, ma nei pensieri di mamma e papà tu ci sei sempre, anche quando non siamo con te. Esattamente come noi siamo sempre nei tuoi, non lo scordare mai.