Celia de la Serna

È morto Maradona. Così, di punto in bianco, è arrivata questa notizia che è diventata l’unica notizia di cui parlare. Mi hai chiesto in macchina chi fosse Maradona. E io mi sono riempito il petto di orgoglio per essere il primo a parlartene. Diego Armando Maradona, ho iniziato, con l’aria dei racconti epici che – almeno per ora – ti fanno ancora cambiare posizione e allungare le orecchie a sentire la favola in arrivo. Era un bambino poverissimo, da piccolo. Talmente povero che la sua famiglia spesso non aveva cibo per tutti e sua madre doveva fingere un mal di pancia per lasciare cibo a sufficienza per i figli. Aveva un sogno, diventare un calciatore professionista e giocare un mondiale. Fece molto di più: vinse un mondiale e divenne il calciatore più forte di tutti i tempi. Perché? ti ho chiesto a quel punto. E tu hai risposto perché era molto forte o perché aveva un gran talento. E io ti ho detto che l’una e l’altra cosa non bastano a diventare il migliore e realizzare un sogno. Per realizzare un sogno serve fede. Credere incessantemente, ovunque e comunque al sogno, anche quando la povertà, la miseria, l’immensità talvolta insensata del mondo che viviamo fa di tutto per convincerti che quel sogno è più misero di te, ridicolo come solo i sogni sanno essere, inutile come un calzino spaiato. 
Tu hai fatto quella cosa meravigliosa che vorrei non smettessi mai di fare. Hai guardato fuori dal finestrino, lasciando che macchine, autobus e motorini popolassero per un secondo la tua vista e poi, senza guardare, mi hai detto: io vorrei diventare Akela da grande. E io mi sono commosso un po’, come al solito, quando riscopro che sei la cosa più bella e importante e preziosa che la vita m’abbia donato. E trattenendo un singhiozzo in gola, ti ho detto semplicemente che mi pareva perfetto. 

Sai, amore, volevo raccontarti una cosa che forse nessuno, oltre tuo zio, sa. Quando ero piccolo odiavo Maradona. Lo odiavo perché aveva reso ridicole tutte le altre squadre che giocavano contro la sua, compresa la mia Roma. Lo odiavo perché aveva trascinato il Napoli verso vittorie che nessuno avrebbe mai potuto nemmeno immaginare. Lo odiavo perché mi faceva sentire umiliato, come umiliati erano probabilmente tutti gli altri che stavano dall’altra parte del campo. Ma il problema vero è che non puoi giocare con Dio. Dio è sopra ogni cosa. Puoi stare a guardare e godere dei prodigi che ti offre ma pensare soltanto di metterti al suo livello, giocarci addirittura contro è una bestemmia indicibile. Così io pagai lo stesso prezzo di superbia di tutti gli altri che non si arresero all’evidenza. Convinsi mio padre a portarmi in giro con la mia bandiera giallorossa il giorno stesso in cui tutto il mondo si tingeva d’azzurro. Urlando come un cretino “Roma, Roma, Roma” fuori dal finestrino, mentre l’unica cosa che davvero avrei voluto fare era far parte di quel sogno che improvvisamente e senza fatica Dio aveva regalato agli umani. 

Ecco, te lo volevo raccontare per due ragioni: la prima è che arrendersi ai miracoli non è mai segno di debolezza; la seconda è che se il tuo sogno è grande e vero e autentico travolgerà chiunque e qualunque cosa lo ostacoli, anche i detrattori.  

A.R.

Paolo ha avuto un brutto incidente in moto. Lui filava dritto sulla statale. Una macchina in senso contrario si è ricordata all’ultimo minuto di girare e ha virato bruscamente a destra, travolgendolo di netto. Paolo è sbalzato a tre metri da lì, oltre la recinzione dei campi, tra l’erba, le foglie e la terra umida del mattino. Paolo tu non lo conosci. È uno di quegli amici di cui non hai nemmeno mai sentito parlare. Appare e scompare dalla mia vita, come io dalla sua. Intermittente come l’acqua dei fiumiciattoli di paese, che dai per vinti, sconfitti, per buona parte dell’anno, come rigagnoli preistorici di cui rimane solo un letto di selci. Poi, quando meno te l’aspetti, risgorgano in piena. Ora Paolo è in un letto d’ospedale da quasi un mese. Combatte una guerra solitaria, senza commilitoni e guardie, per colpa del Covid e di queste regioni giallo, arancioni, rosso che impediscono a chiunque di stargli accanto.
Ho saputo del suo incidente solamente dopo due settimane. Non ci sono rimasto male. Con lui è sempre stato così. Esserci e non esserci è uguale. Non nel senso negativo ma in quello dell’amore e l’amicizia che non vuole resoconti o riepiloghi. Prima è stato una sparatoria a salve di “come? Ma quando? Perché? Adesso?”. Poi nella sua voce ho trovato la stanchezza di dover ripetere a ognuno il racconto di cui vorresti solo liberarti e ho smesso di pungerlo, realizzando che l’unica cosa che davvero in questo momento gli manca è la normalità. 

Così da quel giorno ho cominciato a mandargli dei messaggi vocali, nei quali gli racconto di me, di te, delle cose che fai, di Agata, dei voli col drone, dei progetti strampalati che mi riempiono la testa, delle piccole grandi tragedie della nostra piccola enorme vita. Senza rendermene conto, al termine dei miei podcast (così li chiamo, perché possa ascoltarli quando vuole), gli dico sempre “devi farcela perché tu sei tutti quelli che ti vogliono bene e tutti quelli che ti vogliono bene sono te”. È una banalità forse, che m’è venuta una sera, senza averla pensata prima. Ma era una banalità che stava proprio qui dentro ed è uscita con la naturalezza di un respiro. È la banalità più vera che abbia mai concepito. 

Con Paolo è così. C’è tanto silenzio tra un incontro, una chiamata e l’altra. Poi arriva qualcosa che scaraventa con la forza di una slavina addosso a entrambi la potenza della fratellanza. 
Durante il mio cammino verso Santiago evitavo di sentire chiunque. Volevo stare solo e accendevo il telefono solo per chiamarti, la sera prima di dormire. Quando ero ad un paio di tappe da Santiago e avevo in corpo la consapevolezza dell’arrivo, ricevetti un suo vocale. Senza sapere esattamente dove fossi, come e se ci fossi arrivato, mi diceva che era fiero di me e con la voce strozzata dal pianto mi diceva di volermi bene e di aver avuto fiducia sin dal primo istante in me. Dio quanto ho pianto. In quel momento nessuno poteva sapere dov’ero e come stavo e quest’uomo lo sapeva. Senza che io gli avessi detto nulla, lo sapeva. Eravamo nello stesso posto, vicinissimi e umani. E gli ho voluto bene come si può voler bene solo alla propria famiglia.

Adesso Paolo sta soffrendo. Quando trova la forza di afferrare il telefono, tenere premuto il tasto del microfono, risponde ai miei vocali. Mi racconta di corsie d’ospedali, busti ortopedici, sale operatorie, anestetici e dolori che non sa descrivere. Io lo ascolto e piango. Penso alla sua vita, alle sue gambe, al suo torace, alla sua espressione sempre timida e sincera. Mi metto seduto lì al suo lato e rimango a sentire il suo respiro affannato mentre riprova per l’ennesima volta a dormire.   
E penso che adesso le luci di Marsiglia debbano apparirgli proprio lontane e che l’unica cosa di cui un uomo abbia bisogno sempre è sapere, credere, che la vita esiste ancora e non bisogna lasciarla andare. E aspetto che mi guardi con i suoi occhi lucidi e stanchi e gli racconto ancora una volta di quella intervista che Muhammad Ali rilasciò dopo aver sfiorato il knockout nell’incontro della vita con Earnie Shavers (È una storia che non conoscevo e me l’ha raccontata di recente Agata, parlandomi dell’incipit del nuovo  libro di Nesi). 

Ali disse che dopo quel cazzotto feroce, le gambe – proprio le gambe – gli dissero che non era più il caso di starsene lì in piedi a combattere. Ma che lui non volle dar loro retta e fece l’unica cosa insensata e assurda che quel briciolo di vita rimastogli dentro gli dettava di fare: rimanere in piedi. Rimase solo in piedi. Poi vinse e tutto il resto. Ma intanto, rimase in piedi. E questa cosa te la voglio dire a te, figlia mia, perché dio solo sa quante volte nella tua vita sentirai il desiderio, il sogno, la voglia di lasciarti andare e forse rimanere sconfitta. E lo voglio dire al mio amico Paolo che annaspa tra lenzuola bianche e ferri che gli tengono tese ossa che non sa nemmeno più di avere. Restate in piedi. Nient’altro che questo. Perché il resto verrà e saranno vittorie, campionati del mondo e cinture d’oro scintillante. Ma intanto, l’unica cosa che conta davvero, è restare in piedi.

Come salvarsi la vita

Io le avrei detto “quando avrò bisogno della tua opinione te la chiederò” oppure ancora “Hai mai fatto caso che ogni tanto si incrocia qualcuno che non va fatto incazzare? Quella sono io!”. Tu hai riso ma hai capito che non avresti tratto un ragno dal buco se continuavamo così e allora ti sei fatta più seria. La tua faccia stava dicendo “papi, ascoltami” e ho provato allora a smettere di essere il cretino che sono e fare il padre. “Dimmi amore, ti ascolto” e hai capito che ora ti stavo ascoltando davvero. 
Il fatto è che questa tua amica, chiamiamola così, fa la stronza. Non giriamoci attorno. Qui lo posso scrivere e dire chiaramente. Per quando lo leggerai, probabilmente non farà più tanto scalpore questo termine. È convinta di essere il capo e si sente il diritto di dire a ognuno quello che deve fare, come lo deve fare, quando lo deve fare. A te dice cose come “tu non puoi giocare” oppure “te ne vai?”. E io mentre ti ascolto ho una tale rabbia che mi monta dentro che vorrei soltanto accenderti la tv, lasciarti vedere quello che vuoi, andare nell’altra stanza, chiamare i suoi genitori e urlargli contro “che cazzo state facendo?”.
Respiro, invece. Continuo ad ascoltarti, capendo che se lascio intravedere quanto sia arrabbiato, cercherai una scorciatoia per evitare i danni collaterali. Fingo comprensione, provo a spiegarti che a volte le persone si comportano così perché dentro hanno un disagio, provo a spingerti a evitare lo scontro e passare il tuo tempo solamente con chi lo merita. Perché il tuo tempo, ti dico, è uno e unico e non lo puoi regalare a chi non lo apprezza per quello che è: prezioso e irripetibile. 

Eppure la mia morale da libro cuore non è sufficiente a darti una soluzione e certamente non calma né te né me. Allora mi sale un sospiro da qualche parte dentro. Prosciuga tutta l’aria che ho intorno e se la porta in fondo alla pancia per poi salire in una nuvola di ricordi e malinconia. 
Amore mio quanto ti capisco. C’era un bambino alle elementari. Aveva la mia stessa età ma aveva fatto la primina e stava nella classe prima della mia. Me lo sono ritrovato alle elementari, alle medie e persino al liceo. Lo odiavo e lui odiava me. 
Mi tormentava. Mi cercava per dirmi cose cattive, su di me che non ero capace di giocare a pallone, che tifavo per una squadra di brocchi, persino su mio padre o la mia famiglia. Non lo sopportavo e provavo sempre a non stargli vicino. La mia strategia era semplicissima: se c’era lui, non c’ero io. Ma in un paese di quattro gatti, una chiesa e un bar, è difficile evitarsi sempre. Così accadeva di scontrarsi, litigare e portare a casa lividi e livore. Abbiamo continuato a odiarci per tutta la nostra vita e anche se non lo vedo da più di vent’anni, penso che se lo reincontrassi lo odierei ancora, per tutto quello che mi ha fatto e detto, o semplicemente perché esisteva. 

Non è stata un’infanzia facile la mia. Mi sentivo solo, lo sai perché te lo racconto sempre. E non avevo niente e nessuno a cui aggrapparmi. Eppure oggi che ho quarant’anni e penso a quegli anni così duri, per la prima volta mi viene in mente che forse devo un grazie a quello stronzo. La prima volta che mi scontrai con lui, lo feci perché stava tormentando un bambino della mia classe che aveva dei problemi fisici. L’ultima perché diffondeva posizioni politiche demenziali. E oggi che ti scrivo, mi viene un po’ da riflettere su quanto amore ho messo in ciò che pensavo, credevo e facevo per difendermi dalle sue aggressioni. Forse non sarei un tifoso così convinto della Roma, se non avessi scelto di tifare anche mentre tutti tifano per i cattivi. Forse non avrei le mie idee, la mie convinzioni, non sarei chi sono oggi se non avessi preso tutte quelle botte. 
Allora approfitto di questa lettera che scrivo a te, per dirgli grazie, anche se mi viene il dubbio che non sappia leggere. 

Se mi stai leggendo, sappi che ti sono grato, perché senza la tua pochezza oggi forse non avrei la mia infinita ricchezza.
Chissà, magari puoi ringraziare anche tu la tua amica.  

‘A vita mia m’a porto n’pietto 
‘o core mio fa oili oilà 
e nun v’à rongo pé dispietto 
‘sta libertà.

Figlia

Agata mi ha portato a cena a casa di una sua amica che nel mezzo di una conversazione sul Covid, l’estate e il cous-cous mi ha detto che adora quel pezzo in cui ti faccio fare della solitudine e delle sofferenze collane di perle che indosserai quando sarai grande. Ho fatto fatica a capire di cosa stesse parlando, non afferravo il discorso e mi pareva di sentirmi come quando si è nel mezzo di una chiacchierata in una lingua straniera e ti pare che perso il significato di una parola hai improvvisamente perduto il senso di tutta la conversazione. Quando mi ha visto disorientato, ha aggiunto altri elementi, recuperando dalla memoria principesse e pirati. Ho allora capito che parlava di una lettera che ti ho scritto qui e ho avuto l’esigenza di fissare il piatto che avevo davanti e riempirmi la bocca di cibo.
Che strana sensazione vedere traslato il nostro mondo al di fuori di qui, trasportato sulla bocca di qualcuno che non ti conosce e ha appena conosciuto me. Quanto ci rappresenta davvero tutto questo?

Ci ho riflettuto tanto e mi è venuto in mente quel pezzo di Vecchioni che dà il titolo a questa lettera. È curioso perché ho ascoltato tantissimo quella canzone in tempi non sospetti, quando tua madre e io eravamo lontanissimi dalla nostra separazione. Lo ascoltavo, prima ancora che tu nascessi e poi ancora quando sei nata o eri piccolina. Dentro ci sentivo una malinconia sottilissima, non capivo – come avrei potuto? – eppure capivo, come se dentro quei versi ci fosse scritto un destino. E mi arrabbiavo con Vecchioni ogni santissima volta che lo sentivo pronunciare che un sogno lo aveva portato lontano. Mi dicevo “come può un sogno portarti lontano, come puoi permettere a un sogno – soltanto un sogno – di portarti lontano’”. E lo pensavo egoista e cinico, concentrato su se stesso da non avere spazio per altri. E ora, ora che quella canzone mi riguarda così tanto, ora che ho trascorso gli ultimi tre anni a riascoltarla filologicamente parola per parola, come a voler scorgerci dentro una verità assoluta e superiore, capisco più che mai la sensazione di trovarsi sospesi in una vita nella quale tu sei presente fisicamente solo parte del tempo. Rimanendo come intontiti a ogni separazione, incastrati in una bolla improvvisamente vuota nella quale non ci sono più le risate, gli scherzi, le carezze, i baci ma solo la loro eco. E capisco così tanto, così bene, il poco e male, che è diventato mio, nostro. 

Quante volte avrei voluto parlare con Vecchioni. Con lui, con chiunque altro abbia vissuto questa esperienza. Chissà, forse anche per questo ho aperto questo blog, come una rete sospesa a un trabocco sul mare, tesa a raccogliere i pensieri miei che galleggiano nell’acqua cheta. E quei pensieri sono miei e tuoi che stai leggendo. Sono forse anche dell’amica di Agata che ha fatto sue le perle e indossato la collana per il tempo di una lettera, o per non so quanto ancora. Non so, forse dovrei farle sapere che quelle perle non erano tue ma di Agata che le sta indossando di nuovo, proprio adesso, mentre sta in cucina, abbarbicata in una delle sue posizioni da sciamano indiano, sfregiandosi la pelle intorno alle unghie delle mani. È in questi momenti che la nostra vita pare uno di quegli esercizi che ci davano da risolvere al quinto anno di liceo. Allora come adesso, io resto fermo prima di afferrare la penna e cominciare a disegnare schizzi. Guardo all’indietro, poi in avanti. Mi chiedo come saremo tra un mese, un anno o dieci. Ma è un gioco perché la soluzione sta già dentro al foglio. E fare è l’unico modo per sapere. Fare, costruire (come dicevo in una lettera di qualche tempo fa). È per questo che se ti guardi le mani sono sempre sporche di calce. Agata lo sai, sì?

Quest’uomo

Ho scoperto, forse già lo sapevo, certamente lo speravo, che hai il mio senso dell’umorismo. Per lo meno, credo tu abbia un senso dell’umorismo simile a quello che io mi attribuisco: acuto, sottile, a volte un po’ ruvido, talvolta pungente, istintivo e spontaneo. Non è una cosa che viene fuori sempre. Deve esserci di base una specie di alchimia che si instaura con le persone che ti stanno intorno. Funziona così anche per me: intimità, agio, rilassatezza. 

L’altro giorno, per dire, eravamo in macchina e io ti chiedevo se avresti voluto andare al cinema a vedere i Me contro Te. Tu eri indecisa perché non eri sicura ti sarebbe piaciuto. Allora io ti ho detto che nessuno va al cinema a vedere un film che sa per certo gli piacerà, è la seduzione della sorpresa. E una sorpresa può essere bella o brutta. Naturalmente mentivo perché io vado al cinema a vedere solo i film dei registi che mi piacciono o quelli che mi consigliano persone di cui mi fido. Ma questo non te l’ho detto perché vorrei farti crescere un po’ meglio di me. Ho allora cominciato a scherzare e raccontarti di quanto possa essere bello scoprire di aver visto un film meraviglioso. Nel dirti questo ho detto “vedi un film che non ti aspettavi e dici bomba che capolavoro!” e tu hai cominciato a ridere tantissimo per il mio “bomba”. E mentre ridevi mi dicevi “papà ma come parli?” e io ti ho detto che parlo come parlano i giovani e tu mi hai risposto di essere giovane e non aver mai detto “bomba”. E io allora ti ho detto che ti autorizzavo a dirlo ma tu non mi hai preso sul serio e mi hai detto che una cosa così non esiste e non puoi dirla ai tuoi amici perché non esiste nemmeno per loro e poi hai continuato a ridere ancora un po’. Ridevo anch’io e riflettevo nel frattempo sul tuo “papà”. Riflettevo sui modi con i quali ti rivolgi a me. Generalmente mi chiami papi, delle volte pipi, quando vuoi essere ilare mi dici padre (e io mi rivolgo a te dicendoti figlia), altre ancora inventi dei nomignoli che si esauriscono lì per lì. Usi però la parola papà solamente quando sei molto seria, quando vuoi raccontarmi qualcosa sulla quale pretendi un ascolto speciale. Il tuo papà blocca le cose, come a dire attenzione da questo momento devi ascoltare meglio. E allora mentre ridevo mi immaginavo me nella tua testa, mi immaginavo questo padre quasi quarantenne che usa parole da ventenne che ha rubato per strada a qualche adolescente e si infila in bocca per farcire una conversazione di un elemento di scalpore e immediatamente tu lo percepisci, lo decodifichi e ti chiedi perché, anche se ridi, ti chiedi chi io sia in quell’istante o forse chi io voglia essere. E nel farlo forse mi costringi a riflettere davvero su quanto e come io sia me stesso, quanto e come possa apparirti realmente chi sono. E immediatamente capisco che quel “bomba” lanciato alla rifusa in una frase è un estraneo tra noi. Tu fai questo e capisco chiaramente che davanti a te sono sempre nudo, un padre, un uomo. Come in una striscia continua e senza pause, sono adolescente, adulto, senior. Sono tutto quello che sono stato e quello che sarò, sono l’insieme delle parole che ho detto, quelle che ho pensato, quelle che ho solo sentito senza pronunciare. Davanti a te io sono solo io, senza trasformazioni né trucchi, sono il mio nome. È per questo che quando un attimo dopo mi hai detto “papi tu sarai anche giovane dentro ma fuori sei molto vecchio” ho riso quasi con le lacrime agli occhi perché mi sono visto coi i capelli tutti bianchi, le rughe profonde e le mani rinseccolite mentre provo a ballare una tarantella senza esserne capace. E quella tarantella la ballo perché tu suoni la fisarmonica e io devo seguire solo il ritmo, nient’altro.

Poi siamo arrivati a casa e hai notato che avevo attaccato alla parete il disegno che mi avevi fatto per il mio compleanno. Nel disegno ci siamo io e te sotto ad un cuore gigantesco. Allora disegnavi ancora le figure umane con delle gambe lunghissime. Quando sei entrata, hai visto il disegno e mi hai detto “papi ti avevo fatto magrissimo”. Io ti ho risposto “mi hai fatto come sono” e tu hai aggiunto “no, se volessi farti come sei non entreresti in due fogli”. Ecco, a questo punto dovrebbe scattare la mia solita sviolinata sul quanto sia bello e unico e sensazionale averti come figlia. E invece no. Stavolta ti scrivo per dirti che non mi importa se sono vecchio o grasso, ciò che voglio, ho e sono è essere me stesso e esserlo con te e per te e questo è davvero la cosa più straordinaria che possa capitare in una vita. E questo, sì, è davvero una bomba!

Sogna, ragazzo, sogna

Cara E,
abbiamo saputo che ultimamente ti stai chiedendo chi lasci davvero i regali nei cassettini del tuo calendario dell’avvento, perché qualcuno ha insinuato il dubbio. È una cosa triste. Sai, ogni volta che un bambino smette di credere in noi, non riusciamo più a entrare nella sua casa. Sappiamo che ti stai chiedendo perché veniamo a farti visita da così tanti anni nel periodo di Natale e perché, allo stesso tempo, non abbiamo mai visitato le case dei tuoi amici. Purtroppo non è una cosa che scegliamo noi. I bambini del mondo scelgono se aprirci i loro cuori, che sono le porte attraverso le quali troviamo la luce per muoverci al buio delle stanze, le chiavi grazie alle quali apriamo portoni, palazzi, fortini moderni. Tu hai scelto di credere, e questo ha creato la strada per arrivare fino al tuo calendario.
Chi c’è davvero dietro quel cioccolato, quelle caramelle, quei piccoli doni colorati che scopri ogni mattina al tuo risveglio è una domanda che solamente chi ha il cuore fermo può farsi. Cosa è vero? Cosa non lo è? Non fartelo mai spiegare da chi guarda il mondo solo attraverso gli occhi. Perché ha deliberatamente deciso di perdere una porzione di realtà che non sarà mai più in grado di afferrare.
Credi invece al tuo cuore e non dar retta a chi prova a condizionare i tuoi sogni. Il tuo cuore ha sempre ragione e tutte le favole, proprio tutte, sono vere. Sono vere finché tu le tieni in vita. 
Crescerai, stai già crescendo, diventerai presto una bambina matura, poi un’adolescente e poi una giovane donna. Le favole non ti abbandoneranno, cresceranno con te, trasformandosi con te. Un po’ alla volta si allontaneranno dalla fantasia diventando emozione, saranno una parte della tua essenza, la maniera in cui penserai e farai le cose di ogni giorno. 
Le tue favole di ieri e di oggi diventeranno reali; la forza di cui avrai bisogno, la sensibilità che ti servirà per voler bene, amare. Allora potrai smettere di credere, ma non sarà più importante. Perché la magia e la sorpresa ti avranno già resa una persona migliore. Troverai la tua lettura di ogni favola e ogni riga, ogni istante delle storie che avrai abitato diventerà metafora di bellezza, giustizia, coraggio. Simbolo del tuo saper vivere il mondo senza allontanarti dall’azzurro di tutte le cose possibili. Tu sarai dentro ogni fiaba, sarai il lupo e la principessa, la pianta di fagioli più alta che si sia mai vista, sarai un cane capace di volare e forse anche una fatina dispettosa, sarai tutti loro. 
Sarai capace di credere, saprai vedere una soluzione per tutte le cose, un rimedio per ogni tristezza, un piccolo miracolo dentro ogni gesto.
Saranno così tante e belle le cose che ti capiteranno da non riuscire più a distinguere quelle vere da quelle magiche. Ma cosa importa. Tutte le favole sono magiche. Tutte le favole sono possibili. Allora sono possibili anche le magie e se sono possibili sono vere. 
Non saranno le bacchette o le formule a farle capitare, sarai tu. Saranno le persone che il tuo cuore ha scelto, sarà tutta la fame d’incanto che stai nutrendo adesso e che non ti stancherai mai di alimentare.
Hai il diritto di continuare a crederci. E noi ti saremo sempre grati per averci ospitato e per continuare a farci vivere nel tuo cuore. Solo tu hai reso possibile tutto questo. Sogna più forte che puoi, chiudi gli occhi e resta in ascolto: li senti i nostri passetti felpati?

Ti vogliamo bene.
I tuoi amati Elfi  

Carnival

Amore mio, ti vedo ogni giorno più grande. Mi pare ieri che ti tenevo in braccio ed eri un batuffolo di cotone che faceva fatica a tenere gli occhi aperti e guardava senza vedere. Ti appoggiavi al mio petto e, con la fiducia di un neonato, ti lasciavi cullare e ti addormentavi. Ti tenevo ore in braccio, con le labbra appoggiate alla tua fronte, la destra dietro la tua schiena e la sinistra che ti sorreggeva solida.
Non scorderò mai il giorno in cui ti ho vista per la prima volta. Eri nel nido, tra gli altri bambini e dormivi beata nel tuo lettino enorme. Non scorderò mai quel giorno di marzo quando la porta a scomparsa della sala parto si aprì e vidi apparire tua madre su una barella, mentre veniva trasportata nel reparto. Pensavo dormisse, invece passandomi davanti alzò una mano e sorrise, come a dire “sono viva, stai tranquillo” e in quel sorriso riconobbi la ragazza che avevo incontrato nel corridoio della Facoltà di Lettere e Filosofia 10 anni prima. Non scorderò i tuoi primi passi, le tue prime parole, il tuo primo sorriso, le pappe, le ninne nanne, le notti insonni, le cacche, i pannolini, le pomate per gli arrossamenti. Non scorderò mai quando io e tua madre, con la perizia di un chirurgo, ti cambiammo la prima tutina, terrorizzati che ti si potesse rompere un braccio, una gamba o potessi riportare danni permanenti. Non scorderò mai il viaggio a 30 all’ora dall’ospedale a casa, i telefoni spenti per evitare radiazioni, le 4 frecce accese come portassi un carico eccezionale, la paura di frenare, il sudore sulla fronte, la carrozzina ancorata alla macchina da tutte le cinture di sicurezza dei sedili posteriori. La tua prima influenza, la corsa al pronto soccorso, il medico di guardia che ci osserva sconcertato e dice “è solo un po’ di febbre”.

Intanto però stai crescendo. Hai sette anni e ne dimostri qualcuno in più, soprattutto quando mi parli rivelandomi che la tua mente viaggia ad una velocità cui non sempre riesco a stare dietro.

Prima o poi soffrirai, amore mio, molto più di quanto avrai mai sofferto in tutta la tua vita. Soffrirai perché il ragazzo al quale hai affidato il tuo cuore lo spezzerà in due.
Soffrirai come non avrai mai immaginato si possa soffrire. Piangendo le lacrime che non avresti mai creduto i tuoi occhi avrebbero potuto contenere. E vorrai farti male. Fumerai, berrai, correrai nella speranza di inciampare e ferirti e guarderai un fiume invidiando la sua profondità.
Accadrà tutto questo e né tu, né io, né nessun altro potrà evitarlo.
Scrivo questa lettera perché quel giorno tu possa ritrovarla. Se così sarà, voglio farti trovare le strofe di un cantantautore che ancora non ti ho fatto ascoltare: 

Io se fossi Dio
non mi interesserei di odio e di vendetta
e neanche di perdono
perché la lontananza è l’unica vendetta
è l’unico perdono.

Ricordatelo quel giorno. Vorrai a tutti i costi sapere, scontrarti faccia a faccia con lui per avere risposte, sapere con chi ti ha tradito, per cosa ti ha lasciato. Evitalo, amore mio. Allontanati da lui e non provare a capire, perché non si può parlare con chi non vuole ascoltare e non si può esser visti da chi non è in grado di vedere. Penserai che insieme avevate risolto la congettura di Riemann. Per lui quello sforzo così grande sarà ormai soltanto un’addizione il cui risultato è del tutto incerto. Non fidarti di chi dice “è troppo tardi”, non è mai tardi per credere e va da sé che quando diventa tardi è perché in realtà non c’è mai stato tempo. C’è chi possiede un cuore grande, a volte gigantesco e chi il suo l’ha perso chissà quanto tempo prima e gli è rimasto conficcato nel petto un organo rinseccolito, non più grande di una nocciolina. Penserai come potrà sopportare il peso dei ricordi, gli stessi ricordi che ti staneranno ovunque proverai a scappare e stare. Ti chiederai “non può essere siano solo miei, parlino solo con me, inseguano solo me”. Ma non tormentarti e non riavvicinarti perché potrà solo ricordarti che non ci sarà mai più un futuro insieme. Rischierai di impazzire pensando a quanto è costato, quanto dolore e fatica hai pagato per stare con lui. Ma lui ormai è un guscio vuoto, una conchiglia che se avvicini all’orecchio ti darà solo l’impressione di sentire il suono delle onde ma quel suono è un trucco, un inganno. Ricordati ciò che ti dico: puoi sentire il suono delle onde anche in una conchiglia di porcellana che non ha mai visto il mare. 
Non dargli odio, perché l’odio è solo l’amore col segno meno davanti. Non dargli amore perché non lo merita e sarebbe come tentare di colorare il mare. L’amore per nessuno è di nessuno, ed è quindi inutile.

Dagli la tua distanza e sarà l’unica cosa che ti salverà.