Figlia

Agata mi ha portato a cena a casa di una sua amica che nel mezzo di una conversazione sul Covid, l’estate e il cous-cous mi ha detto che adora quel pezzo in cui ti faccio fare della solitudine e delle sofferenze collane di perle che indosserai quando sarai grande. Ho fatto fatica a capire di cosa stesse parlando, non afferravo il discorso e mi pareva di sentirmi come quando si è nel mezzo di una chiacchierata in una lingua straniera e ti pare che perso il significato di una parola hai improvvisamente perduto il senso di tutta la conversazione. Quando mi ha visto disorientato, ha aggiunto altri elementi, recuperando dalla memoria principesse e pirati. Ho allora capito che parlava di una lettera che ti ho scritto qui e ho avuto l’esigenza di fissare il piatto che avevo davanti e riempirmi la bocca di cibo.
Che strana sensazione vedere traslato il nostro mondo al di fuori di qui, trasportato sulla bocca di qualcuno che non ti conosce e ha appena conosciuto me. Quanto ci rappresenta davvero tutto questo?

Ci ho riflettuto tanto e mi è venuto in mente quel pezzo di Vecchioni che dà il titolo a questa lettera. È curioso perché ho ascoltato tantissimo quella canzone in tempi non sospetti, quando tua madre e io eravamo lontanissimi dalla nostra separazione. Lo ascoltavo, prima ancora che tu nascessi e poi ancora quando sei nata o eri piccolina. Dentro ci sentivo una malinconia sottilissima, non capivo – come avrei potuto? – eppure capivo, come se dentro quei versi ci fosse scritto un destino. E mi arrabbiavo con Vecchioni ogni santissima volta che lo sentivo pronunciare che un sogno lo aveva portato lontano. Mi dicevo “come può un sogno portarti lontano, come puoi permettere a un sogno – soltanto un sogno – di portarti lontano’”. E lo pensavo egoista e cinico, concentrato su se stesso da non avere spazio per altri. E ora, ora che quella canzone mi riguarda così tanto, ora che ho trascorso gli ultimi tre anni a riascoltarla filologicamente parola per parola, come a voler scorgerci dentro una verità assoluta e superiore, capisco più che mai la sensazione di trovarsi sospesi in una vita nella quale tu sei presente fisicamente solo parte del tempo. Rimanendo come intontiti a ogni separazione, incastrati in una bolla improvvisamente vuota nella quale non ci sono più le risate, gli scherzi, le carezze, i baci ma solo la loro eco. E capisco così tanto, così bene, il poco e male, che è diventato mio, nostro. 

Quante volte avrei voluto parlare con Vecchioni. Con lui, con chiunque altro abbia vissuto questa esperienza. Chissà, forse anche per questo ho aperto questo blog, come una rete sospesa a un trabocco sul mare, tesa a raccogliere i pensieri miei che galleggiano nell’acqua cheta. E quei pensieri sono miei e tuoi che stai leggendo. Sono forse anche dell’amica di Agata che ha fatto sue le perle e indossato la collana per il tempo di una lettera, o per non so quanto ancora. Non so, forse dovrei farle sapere che quelle perle non erano tue ma di Agata che le sta indossando di nuovo, proprio adesso, mentre sta in cucina, abbarbicata in una delle sue posizioni da sciamano indiano, sfregiandosi la pelle intorno alle unghie delle mani. È in questi momenti che la nostra vita pare uno di quegli esercizi che ci davano da risolvere al quinto anno di liceo. Allora come adesso, io resto fermo prima di afferrare la penna e cominciare a disegnare schizzi. Guardo all’indietro, poi in avanti. Mi chiedo come saremo tra un mese, un anno o dieci. Ma è un gioco perché la soluzione sta già dentro al foglio. E fare è l’unico modo per sapere. Fare, costruire (come dicevo in una lettera di qualche tempo fa). È per questo che se ti guardi le mani sono sempre sporche di calce. Agata lo sai, sì?

Carnival

Amore mio, ti vedo ogni giorno più grande. Mi pare ieri che ti tenevo in braccio ed eri un batuffolo di cotone che faceva fatica a tenere gli occhi aperti e guardava senza vedere. Ti appoggiavi al mio petto e, con la fiducia di un neonato, ti lasciavi cullare e ti addormentavi. Ti tenevo ore in braccio, con le labbra appoggiate alla tua fronte, la destra dietro la tua schiena e la sinistra che ti sorreggeva solida.
Non scorderò mai il giorno in cui ti ho vista per la prima volta. Eri nel nido, tra gli altri bambini e dormivi beata nel tuo lettino enorme. Non scorderò mai quel giorno di marzo quando la porta a scomparsa della sala parto si aprì e vidi apparire tua madre su una barella, mentre veniva trasportata nel reparto. Pensavo dormisse, invece passandomi davanti alzò una mano e sorrise, come a dire “sono viva, stai tranquillo” e in quel sorriso riconobbi la ragazza che avevo incontrato nel corridoio della Facoltà di Lettere e Filosofia 10 anni prima. Non scorderò i tuoi primi passi, le tue prime parole, il tuo primo sorriso, le pappe, le ninne nanne, le notti insonni, le cacche, i pannolini, le pomate per gli arrossamenti. Non scorderò mai quando io e tua madre, con la perizia di un chirurgo, ti cambiammo la prima tutina, terrorizzati che ti si potesse rompere un braccio, una gamba o potessi riportare danni permanenti. Non scorderò mai il viaggio a 30 all’ora dall’ospedale a casa, i telefoni spenti per evitare radiazioni, le 4 frecce accese come portassi un carico eccezionale, la paura di frenare, il sudore sulla fronte, la carrozzina ancorata alla macchina da tutte le cinture di sicurezza dei sedili posteriori. La tua prima influenza, la corsa al pronto soccorso, il medico di guardia che ci osserva sconcertato e dice “è solo un po’ di febbre”.

Intanto però stai crescendo. Hai sette anni e ne dimostri qualcuno in più, soprattutto quando mi parli rivelandomi che la tua mente viaggia ad una velocità cui non sempre riesco a stare dietro.

Prima o poi soffrirai, amore mio, molto più di quanto avrai mai sofferto in tutta la tua vita. Soffrirai perché il ragazzo al quale hai affidato il tuo cuore lo spezzerà in due.
Soffrirai come non avrai mai immaginato si possa soffrire. Piangendo le lacrime che non avresti mai creduto i tuoi occhi avrebbero potuto contenere. E vorrai farti male. Fumerai, berrai, correrai nella speranza di inciampare e ferirti e guarderai un fiume invidiando la sua profondità.
Accadrà tutto questo e né tu, né io, né nessun altro potrà evitarlo.
Scrivo questa lettera perché quel giorno tu possa ritrovarla. Se così sarà, voglio farti trovare le strofe di un cantantautore che ancora non ti ho fatto ascoltare: 

Io se fossi Dio
non mi interesserei di odio e di vendetta
e neanche di perdono
perché la lontananza è l’unica vendetta
è l’unico perdono.

Ricordatelo quel giorno. Vorrai a tutti i costi sapere, scontrarti faccia a faccia con lui per avere risposte, sapere con chi ti ha tradito, per cosa ti ha lasciato. Evitalo, amore mio. Allontanati da lui e non provare a capire, perché non si può parlare con chi non vuole ascoltare e non si può esser visti da chi non è in grado di vedere. Penserai che insieme avevate risolto la congettura di Riemann. Per lui quello sforzo così grande sarà ormai soltanto un’addizione il cui risultato è del tutto incerto. Non fidarti di chi dice “è troppo tardi”, non è mai tardi per credere e va da sé che quando diventa tardi è perché in realtà non c’è mai stato tempo. C’è chi possiede un cuore grande, a volte gigantesco e chi il suo l’ha perso chissà quanto tempo prima e gli è rimasto conficcato nel petto un organo rinseccolito, non più grande di una nocciolina. Penserai come potrà sopportare il peso dei ricordi, gli stessi ricordi che ti staneranno ovunque proverai a scappare e stare. Ti chiederai “non può essere siano solo miei, parlino solo con me, inseguano solo me”. Ma non tormentarti e non riavvicinarti perché potrà solo ricordarti che non ci sarà mai più un futuro insieme. Rischierai di impazzire pensando a quanto è costato, quanto dolore e fatica hai pagato per stare con lui. Ma lui ormai è un guscio vuoto, una conchiglia che se avvicini all’orecchio ti darà solo l’impressione di sentire il suono delle onde ma quel suono è un trucco, un inganno. Ricordati ciò che ti dico: puoi sentire il suono delle onde anche in una conchiglia di porcellana che non ha mai visto il mare. 
Non dargli odio, perché l’odio è solo l’amore col segno meno davanti. Non dargli amore perché non lo merita e sarebbe come tentare di colorare il mare. L’amore per nessuno è di nessuno, ed è quindi inutile.

Dagli la tua distanza e sarà l’unica cosa che ti salverà.

Pink moon

Hai un problema con una tua compagna di classe. Il punto è che non si tratta di una compagna qualunque, perché Federica la conosci da quando sei nata. Siete cresciute insieme, per quanto non abbiate mai avuto una frequentazione assidua. Vi incontravate al parco sotto casa la domenica, ogni tanto organizzavamo un’uscita o una cena con i suoi genitori, tutte quelle cose che l’hanno fatta diventare ai tuoi occhi (e forse anche ai nostri), la tua migliore amica.
Cominciate le elementari, te la sei ritrovata in classe.
Il problema è che Federica è sadica e anche un po’ narcisista. Ti cerca, vuole stare con te, ti fa un sacco di moine, fintanto che tu stai giocando o sembri interessata ad altro o ad altri. Se però è lei a giocare con altre bambine e tu ti avvicini dicendo “posso giocare con voi?”, lei ti risponde secca di no, che non sei la benvenuta. Facendoti rimanere continuamente male.

Oltre questo, mi racconti, Federica ama ficcarti in situazioni imbarazzanti, nelle quali lei passa per la buona, vincente, simpatica e tu per la frignona. Vale, per esempio, per le volte che ti provoca e non appena tu reagisci lei scappa dalla maestra per riportare la sua versione dei fatti.
Qualche giorno fa, Federica ha avuto la bellissima idea di venirti a raccontare quanto sia bello avere una sorellina più piccola. “Vedi”, deve averti detto, “avere una sorellina più piccola è meraviglioso, perché vuole sempre giocare con te, non ti senti mai sola e puoi prenderti cura di lei”. Tu, mi sono immaginato, sei rimasta ad ascoltare e le hai fatto dire. Il punto è che a Federica non bastava raccontare qualcosa che sapeva ti faceva male ed ha quindi rincarato la dose dicendoti che purtroppo tu una sorellina non potrai mai averla, visto che i tuoi genitori sono separati. A quel punto sei scoppiata a piangere e sei corsa a raccontarlo alla maestra che ha voluto sentire le versioni di entrambe e ha deciso alla fine che andava aperta una grande finestra sulle coppie separate. Ti ha allora illuminata, smontando l’enorme castello che faticosamente io e tua madre abbiamo costruito in due anni da genitori separati, raccontandoti che a volte le mamme e i papà litigano. Certe volte poi, litigano così tanto che diventa necessario andare a vivere in due case diverse perché non possono più stare nella stessa casa. 

Queste cose ce le hai raccontate solamente dopo una settimana che io e tua madre ti vedevamo strana. Eri assorta, distratta, non riuscivi ad impegnarti nei compiti e spesso ti arrabbiavi eccessivamente per cose relativamente piccole. Alla fine, hai vuotato il sacco e io mi sono sentito come se avessi scalato una montagna altissima e fossi quasi arrivato in cima. Davanti a me comincio ad intravedere la vetta e uno scorcio di orizzonte sereno e sterminato. Poi mentre sto percorrendo l’ultimo tratto di sentiero, spunta qualcuno di lato, mi mette lo sgambetto e io precipito rotolando giù per la cresta della montagna. Questo perché ci sono voluti quasi due anni per convincerti che le mamme e i papà non necessariamente litigano quando decidono di vivere in case diverse. Così come non necessariamente smettono di volersi bene e certo non smettono di volerne ai propri figli. È solo che, come ti ho raccontato tante volte, le cose cambiano, si trasformano, diventano diverse da prima. Nessuno ci può fare niente, perché semplicemente succede. È così che è successo all’amore che tua madre e tuo padre provavano: non è morto, si è solo trasformato. Mamma e papà si vogliono bene e sopra ogni cosa ne vogliono a te. 

Una cosa però, la prossima volta che Federica ha qualcosa da dirti, tappati le orecchie e dille “Non me ne frega niente di quello che mi devi dire! Ora vallo a dire alla maestra!”.