Luca lo stesso

A volte c’ho lo stress fin sopra i capelli. Tu te ne accorgi perché divento evanescente. Mi dici “papi, ma mi ascolti?” mentre mi stai raccontando di scuola, di un’amichetta che ti ha deluso, del tuo compagno di classe che ha chiesto alla maestra se anche lei ha le tette.
Io sono invece su whatsapp e le notifiche dei nuovi messaggi in arrivo cascano dentro al mio telefono come gocce da una grondaia durante un temporale. Mi affretto a raccoglierne alcune e si allaga tutto intorno. Io me ne resto allora immobile a contemplare il temporale che mi bagna, fino a quando mi lascio cadere le braccia e guardo nella tua direzione come per metterti a fuoco per la prima volta. Tu fai la faccia sfinita e di finta disapprovazione. Io mollo il telefono da una parte e ti chiedo se facciamo una partita a Dobble. Allora forse capisci che voglio stare solo con te e il temporale fuori è finito o semplicemente non mi bagna più. Corri a prendere il mazzo di carte, ne metti una coperta per me e una per te, il resto della pila scoperta al centro del tavolo. Prima ancora che io scopra la mia, tu stai già urlando “macchina”, “chiave di violino”, “lampadina”, “bomba”, “coso” (coso è un mirino ma siccome non ti ricordi mai come si chiama abbiamo stabilito che può chiamarsi semplicemente coso).

Sai, tu non puoi saperlo ma faccio gli stessi errori anche con Agata . Ogni tanto mi perdo il filo del discorso che abbiamo cominciato mesi fa. Si direbbe mi distraggo. Perdo di vista dove sono, mi lascio bagnare da quel temporale che non solo mi bagna ma mi assorda e allontana. Ultimamente avevamo preso un impegno. Era un impegno importante ed era una cosa a cui tenevamo entrambi. Nessuno lo aveva caricato di eccessiva aspettativa ma si vedeva nella cura con la quale ne parlavamo, persino nella scelta delle parole, che tenevamo entrambi tanto a questa cosa. Poi io mi sono distratto solo un attimo. È stato davvero un istante e il mondo fuori si è infilato nella mia mente come una legione romana in un villaggio gallo. In quel singolo istante sono stato capace di spostare quell’appuntamento in avanti, convincermi di averne già parlato con lei, rassicurato che fosse tutto ok per entrambi. A lei avevo solo detto “ne parliamo più tardi” e quel più tardi è stato letteralmente cancellato da tutto quello che nel frattempo entrava e usciva dalla mia testa come treni della metropolitana di Tokyo. Tutto qua e in breve quel buco di un semplice istante aveva contaminato tutto il resto facendolo diventare un colabrodo di disattenzioni. A quel punto non mi restava che fare come faccio con te, afferrare il nostro mazzo di Dobble e chiederle di mettersi a sedere e urlare i nomi dei simboli presenti sulla sua carta e su quella in cima al mazzo. E lei me lo ha lasciato fare. 

E adesso che ti racconto queste cose, mi rendo conto di quanto sia difficile aver cura delle persone alle quali si vuole bene che, in definitiva, vuol dire voler bene anche  a se stessi. Voi accettate l’idea che io ogni tanto sia distratto e prendete per buoni i miei tentativi goffi di rimediare. Tu mi chiami sovrastando ogni altra cosa per catturare la mia attenzione, Agata invece usa il sistema opposto. Si fa piccola piccola, fino a diventare immobile e muta e quel silenzio mi urla contro e mi sveglia. Vorrei essere meno distratto, avere la capacità di mettere ogni cosa al suo posto e trovarcela solo quando serve, dare a te e a lei tutto il tempo e le attenzioni che sento. Ma se i condizionali fossero paglia potrei riempirci un fienile e con quel fienile non sfamerei nemmeno un pony già sazio. Sicché non prometto, ora faccio. E per fare ho un piano: la prossima volta che staremo insieme, io e te, io e Agata o magari tutti e tre, vi sorprenderò. Tirerò fuori dal mio zaino la scatola di latta di Dobble e mentre nessuna delle due se lo aspetterà, vi dirò “facciamo una partita?”.

Un bene dell’anima

Ho conosciuto Antonello a Lettere, il primo giorno. Eravamo in pochi, noi due stavamo a qualche posto di distanza e durante una pausa abbiamo cominciato a chiacchierare. Ci siamo incontrati alla lezione successiva, poi a quella dopo. In aula, al quarto appuntamento, si è aggiunto Gianluca. “È simpatico, è milanese”, Antonello me l’ha presentato così. Gianluca invece era di Pesaro, sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, oltre che coinquilino dei sette anni che seguirono. È stato lui a rivelarci, sbalordito e divertito, che il corso che stavamo seguendo ormai da due settimane non era quello che pensavamo. Avevamo confuso le aule e i docenti, senza renderci nemmeno conto che gli argomenti trattati erano lontanissimi da quelli che avremmo dovuto aspettarci. Continuammo comunque a frequentare, entrambi. Più per comodità che per reale convinzione.

Antonello era di Roma, abitava a San Giovanni, con i suoi. Veniva da noi ogni volta che poteva, a pranzo o a cena, a bere il caffè della nostra moka, a fare niente. Frequentava casa nostra come fosse sua; credo lo fosse. Non sono mai entrato completamente nel suo mondo, come esistesse una diga tra la nostra acqua e quella che scorreva nel tempo lontano da noi, ma questo non ha mai impedito alle nostre anime di abitare le stesse stanze. Lui invece conosceva perfettamente il nostro mare, al punto da sentirsi un fuorisede, come noi. 
Dopo la laurea, ci ritrovammo quasi inconsapevoli a fantasticare il Sudamerica. Non dimenticherò mai il giorno in cui andammo in motorino alla biglietteria delle Aerolineas Argentinas, in via Cavour. Negli astucci celesti un biglietto per Buenos Aires e uno di ritorno da Lima, piantato a quasi due mesi di distanza

Ti accompagno a scuola, piove e c’è traffico. La macchina copre l’asfalto a singhiozzi. Sonnecchi, accendo la radio. La voce di Lorenzo ti sorprende, ti cattura, ormai lo riconosci, anche nelle canzoni che non hai mai ascoltato. 
Che cos’è un amico, nessuno lo sa dire.  
Mi sorprendo anch’io, impantanato come sono a pensare queste cose.

Non vedevo Antonello da qualche anno quando quest’estate l’ho incontrato a Barcellona. Una telefonata, un appuntamento, un treno, un abbraccio lungo abbastanza da colmare gli anni trascorsi. E poi una giornata al sapore inconfondibile di ricordi e affetto. 
Lui vive lì, insieme a una ragazza col sorriso negli occhi. Sono belli insieme. Sono belli anche quando non sono insieme, accesi da una bellezza comune, che traspare in ogni cosa che pensano o fanno. Ho visto la loro casa, abbiamo mangiato insieme, ci siamo commossi rincorrendo i fotogrammi del viaggio tenuti in serbo per momenti come questo, svegliando la memoria e resuscitando i ragazzi che eravamo. 
Il giorno dopo io avrei cominciato il mio cammino verso Santiago. Prima che salissi di nuovo sul treno ci siamo abbracciati. Forte. Più forte. Mi ha detto  “buona fortuna”, solo questo. Valeva però come “buon viaggio”, come un “ci sentiamo”, oppure, senza sentirci, “ci incontriamo nei pensieri belli”. Valeva come “ti voglio bene”. Davvero. Credo si possa applicare al  bene, a volte, la stessa logica che si applica al dolore; lieve è quello che ha voce, grave quello muto.
Mi sono sentito al suo fianco proprio ieri, mentre leggevo una sua mail: nel suo racconto ho visto chiaramente la sua espressione, sempre uguale, solo un’insignificante manciata di anni in più e la preoccupazione di non sapere se ha fatto abbastanza a piegare un po’ la pelle intorno agli occhi e sulla fronte. Mi sono chiesto se gli ho mai raccontato davvero chi sono, come sto, cosa faccio. Gli ho parlato abbastanza di te?

Tu mi guardi, annuisci come se stessi leggendomi la mente e la memoria, io ti amo e spero che la mia espressione sappia comunicartelo. Sono così, ho l’ansia di saperti piena del mio bene, di  vederti sorridere davanti alle cose buffe che metto in scena per te, come quando eravamo a Parigi e in metro ho cominciato a urlare “sono stanco, non ce la faccio più, ti prego portami in braccio”, prima che tu potessi iniziare la tua lagna ormai nota. Ridevi, riconoscendoti nella mia esibizione, ridevi e ridevi, a me veniva da piangere. L’ansia di farti vedere un film della mia infanzia, e scoprirti a distanza di settimane fare ancora la mossa della gru di Karate Kid, o ripetere fino allo sfinimento una battuta che ci aveva fatto tanto ridere. 
Ho l’ansia di sorprenderti, sbalordirti al telefono quando ti chiamo e a volte, prima di dirti “ciao”, ti ripeto a memoria una frase della lettura che ti ha assegnato la maestra, sulla quale ti stai esercitando proprio in quel momento. No piccola, non ho poteri magici. Devo confessarti che c’è un gruppo whatsapp di scuola, nel quale ogni tanto una mamma chiede ai genitori di pubblicare la foto della lettura del giorno perché magari il figlio era distratto, o malato.

Sai, tesoro, adesso, in questa macchina, sul finire di questa canzone, mi sale una nuova ossessione. Voglio che la vita ti riservi amici come i miei. 
Come Antonello che vive a Barcellona, ma è come se abitasse ancora alla Caffarella. 
Come Gianluca, che si è appena trasferito a Mosca e mi manda foto della tomba di Gagarin, dimostrandomi di essere lontanissimo, eppure nello stesso luogo in cui sono io quando una notifica mi avvisa del fatto che mi sta pensando, che mi conosce come pochi, che non smette di  percorrere la nostra strada comune. 
Come Liberato che è a Londra da una vita, e ogni santa volta mi chiama dicendo “come stai?” al posto di “pronto”. Lui che una volta ha preso un aereo per capire cosa mi succedeva, e ha cenato da solo nella mia cucina perché io non avevo la forza di affrontare quella giornata, e mai, mai me l’ha ricordato. Lui che per i miei trent’anni mi ha regalato la colonna sonora della nostra storia, tutte le note, non una in meno, del nostro conoscerci. E adesso, a distanza di dieci anni, quel disco è incorniciato e poggiato sulla scrivania, pronto a uscire da questa casa e seguirmi ovunque andrò. Liberato quest’anno compirà quarant’anni, e io in fila a seguirlo, anche se non so se sono pronto e mi sento ancora il ragazzino al binario che lo portava in aeroporto e lo salutava col pugno alzato cantando in mezzo alla gente “fratello non temere che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria”, come c’entrasse davvero qualcosa. Chissà se lui se lo ricorda. Se sa che in ogni istante dei quasi 33 anni che ci conosciamo e di tutti quelli che verranno per me ne ha sempre avuti cento e ne avrà sempre solo sette.
Vorrei prometterti amici come quelli che ho io, irrinunciabili. Vederli crescere al tuo fianco, schierati dalla tua parte. Amici che ti stiano vicino, dentro. 
Amici capaci di essere te, ogni volta che tu non sai più chi sei. 

Arriviamo, scendo per primo e vengo ad aprire il tuo sportello. Le tue compagne riconoscono la mia macchina, ti salutano come se non ti vedessero da mesi, ti aspettano. Penso non sia necessario desiderare o prometterti niente. Hai già la tua vita, il tuo modo speciale di essere te stessa, riempi stanze di cuori e amore. Qualche giorno fa eri al parco, una tua amica stava piangendo, le sei andata vicino e le hai detto “adesso pensiamo intensamente a qualcosa di bello”. Eccolo il segreto dell’amicizia. L’hai scoperto. Dovremmo scrivere a Lorenzo questa sera, per farglielo sapere. 

Scendi dalla macchina, ci salutiamo. Ogni volta che ti lascio davanti scuola, tu mi baci distratta. Mentre stai entrando io ti chiamo e ti chiedo di darmi un bacio più forte, poi un altro e un altro ancora, fino a quando mi dici “papi devo andare”. La mia espressione supplichevole ti spinge di nuovo verso di me, un ultimo velocissimo bacio che si perde nel sorriso che ti stampi sulla bocca e ti porti in classe. Hai mai saputo che, dopo che sei entrata, rimango un sacco di tempo davanti scuola a guardare le mattonelle dell’atrio che hanno visto i tuoi passi un attimo prima? 

Come mai un casino sembra un posto perfetto.
Quanto abbiamo riso, e quanto rideremo.

Pink moon

Hai un problema con una tua compagna di classe. Il punto è che non si tratta di una compagna qualunque, perché Federica la conosci da quando sei nata. Siete cresciute insieme, per quanto non abbiate mai avuto una frequentazione assidua. Vi incontravate al parco sotto casa la domenica, ogni tanto organizzavamo un’uscita o una cena con i suoi genitori, tutte quelle cose che l’hanno fatta diventare ai tuoi occhi (e forse anche ai nostri), la tua migliore amica.
Cominciate le elementari, te la sei ritrovata in classe.
Il problema è che Federica è sadica e anche un po’ narcisista. Ti cerca, vuole stare con te, ti fa un sacco di moine, fintanto che tu stai giocando o sembri interessata ad altro o ad altri. Se però è lei a giocare con altre bambine e tu ti avvicini dicendo “posso giocare con voi?”, lei ti risponde secca di no, che non sei la benvenuta. Facendoti rimanere continuamente male.

Oltre questo, mi racconti, Federica ama ficcarti in situazioni imbarazzanti, nelle quali lei passa per la buona, vincente, simpatica e tu per la frignona. Vale, per esempio, per le volte che ti provoca e non appena tu reagisci lei scappa dalla maestra per riportare la sua versione dei fatti.
Qualche giorno fa, Federica ha avuto la bellissima idea di venirti a raccontare quanto sia bello avere una sorellina più piccola. “Vedi”, deve averti detto, “avere una sorellina più piccola è meraviglioso, perché vuole sempre giocare con te, non ti senti mai sola e puoi prenderti cura di lei”. Tu, mi sono immaginato, sei rimasta ad ascoltare e le hai fatto dire. Il punto è che a Federica non bastava raccontare qualcosa che sapeva ti faceva male ed ha quindi rincarato la dose dicendoti che purtroppo tu una sorellina non potrai mai averla, visto che i tuoi genitori sono separati. A quel punto sei scoppiata a piangere e sei corsa a raccontarlo alla maestra che ha voluto sentire le versioni di entrambe e ha deciso alla fine che andava aperta una grande finestra sulle coppie separate. Ti ha allora illuminata, smontando l’enorme castello che faticosamente io e tua madre abbiamo costruito in due anni da genitori separati, raccontandoti che a volte le mamme e i papà litigano. Certe volte poi, litigano così tanto che diventa necessario andare a vivere in due case diverse perché non possono più stare nella stessa casa. 

Queste cose ce le hai raccontate solamente dopo una settimana che io e tua madre ti vedevamo strana. Eri assorta, distratta, non riuscivi ad impegnarti nei compiti e spesso ti arrabbiavi eccessivamente per cose relativamente piccole. Alla fine, hai vuotato il sacco e io mi sono sentito come se avessi scalato una montagna altissima e fossi quasi arrivato in cima. Davanti a me comincio ad intravedere la vetta e uno scorcio di orizzonte sereno e sterminato. Poi mentre sto percorrendo l’ultimo tratto di sentiero, spunta qualcuno di lato, mi mette lo sgambetto e io precipito rotolando giù per la cresta della montagna. Questo perché ci sono voluti quasi due anni per convincerti che le mamme e i papà non necessariamente litigano quando decidono di vivere in case diverse. Così come non necessariamente smettono di volersi bene e certo non smettono di volerne ai propri figli. È solo che, come ti ho raccontato tante volte, le cose cambiano, si trasformano, diventano diverse da prima. Nessuno ci può fare niente, perché semplicemente succede. È così che è successo all’amore che tua madre e tuo padre provavano: non è morto, si è solo trasformato. Mamma e papà si vogliono bene e sopra ogni cosa ne vogliono a te. 

Una cosa però, la prossima volta che Federica ha qualcosa da dirti, tappati le orecchie e dille “Non me ne frega niente di quello che mi devi dire! Ora vallo a dire alla maestra!”.