Point Blank

Non so dirti esattamente da quanto e come aspettassi questo momento. Ansia, come sempre, un po’ di emozione, tanta frenesia e la solita vecchia tentazione di disseminare check point giù per la mia vita. Questo è uno di quelli. Quelli importanti, significativi, probabilmente con la bandierina un po’ più grande delle altre.
Negli anni, me lo sono immaginato in tanti modi diversi, a seconda dell’euforia o della tristezza che riempiva il liet motiv della mia esistenza nel momento in cui mi fermavo a riflettere. “Affitterò una villa con piscina, magari in Umbria o in Toscana, e ci inviterò per tre giorni tutti i miei amici”, pensavo, immaginandomi probabilmente una di quelle feste hollywoodiane, con il patron che esce in vestaglia dalla magione, mentre una platea di bikini e bermuda lo attende a bordo piscina. Lo festeggerò buttandomi col paracadute, organizzerò una braciolata in montagna, un viaggio esotico, voglio arrivarci col tatuaggio di Moby Dick sull’avanbraccio sinistro. E poi le cose che avrei voluto fare prima di questo traguardo: finire un romanzo, leggere Infinite Jest, rileggere il Quijote, imparare a suonare la batteria o la chitarra (o entrambe), comprare una V7, trovare un lavoro migliore, viaggiare, assistere almeno a un concerto del Boss, di Dylan, di Vedder, incontrare finalmente il Maestro e chiedergli di firmarmi Radici. Di quante cazzate mi sono riempito la testa in tutti questi anni. Cose futili, a volte superficiali, insensate, certamente non importanti. A volte ho davvero l’impressione di essere il ragazzino che raccontava tua madre. Quello che si riempie la bocca e il cuore di voli d’airone ma che non sa volare nemmeno come un tacchino. Ogni tanto ci penso. Mi chiedo chi sia davvero questo quarantenne con i capelli da tagliare e la barba a chiazze, gli occhiali vecchi perché quelli nuovi sono diventati a loro volta più vecchi e graffiati, sei, sette chili di troppo e un continuo programma di ambizioni e progetti che rimangono puntualmente dentro la scatola incellophanata appena afferrata dallo scaffale. Non sono i giorni come quelli che racconta il boss in fila uno dopo l’altro? Io in fila metto le scintille della mia testa, lame di luce che escono dal coperchio sopra al quale il gigante si è seduto. E a volte quel coperchio è proprio chiuso, altre sigillato, e qualche volta, ormai solo qualche volta, riesce a scivolare di pochi millimetri di lato, lasciando che il suo contenuto trabocchi un poco, esaurendosi però nell’attimo esatto in cui lo intravedo appena. Quanto è pessimista tuo padre. Imparerai, se non lo hai già fatto, a riconoscere questo pessimismo, forse anche ad amarlo o a sorriderne. Spero però non ti appartenga mai perché è una gabbia che disegni da solo e dentro la quale ti chiudi a doppia mandata ingoiando la chiave. Sembra un ambiente confortevole e piacevole perché ti fornisce tutto ciò di cui hai bisogno: le rassicurazioni e la certezza che peggio è sempre più comodo e nella migliore delle ipotesi, se ti sarai sbagliato, sarà andata tutto sommato meglio di quanto avevi puntato. Non è un modo per vincere sempre? È così che sono cresciuto, sin da quando avevo più o meno la tua età. Mi dicevo: se abbasso le mie aspettative al minimo, tutto quello che verrà sarà meglio e quindi sarò felice. E così facendo limitavo al minimo i danni collaterali, costringendo sogni e ambizioni a nuotare in una pozzanghera di fango. Ma non puoi scappare sempre e prima o poi chi sei ti trova. 

Faccio ancora spesso molti degli errori del passato. Qualche volta confondo il passato col presente. A volte sono così stupido da vederci dentro il futuro. Ma ciò che rimane al di là di questi momenti isolati in cui quasi mi esercito ad essere malinconico come in una parte che interpretavo in uno spettacolo andato in scena tanti anni fa, è un prato di trifogli e margherite. Io mi sdraio con un filo d’erba in bocca e le mani incrociate dietro la nuca a contare le nuvole che passano nel cielo, mentre tutto intorno è pieno di quadrifogli che aspettano solo di essere trovati. Ogni tanto mi alzo, per ammirare la visuale orizzontale. Certe volte corro. Altre cammino piano, pianissimo. Ciò che mi piace di più al mondo è stendere le braccia, come faceva Montella dopo un gol, alzare la testa al vento e chiudere gli occhi. Di solito faccio un passo in avanti e inciampo. Quando riapro gli occhi ho un quadrifoglio dritto davanti agli occhi. Io mi dico che è stata fortuna o caso ma dentro so che è soltanto destino. Perché nel destino di ognuno c’è scritta la propria felicità. Sai che una volta avevo paura di pronunciare questa parola? La chiamavo serenità, come fosse la stessa cosa. 
Ho raccolto un mazzo di quadrifogli e tutto ciò che voglio è continuare a starmene qui a sentire il vento sulla pelle, il sole nei pori, l’erba umida sotto i polpastrelli, il profumo della primavera che abita il mio epitelio olfattivo. Non ho bisogno di niente perché niente mi serve e, sai, mercoledì è un giorno come un altro, bello come tutti gli altri. Vedi, te lo volevo dire da tanto tempo, amore mio, e ci giravo intorno, certe volte ci saltavo sopra. Ora che però mi rigiro questo quadrifoglio meraviglioso tra le dita, mi dico che non ha nessun senso continuare a non dirlo. Sono innamorato. Ecco, l’ho detto. 

Luca lo stesso

A volte c’ho lo stress fin sopra i capelli. Tu te ne accorgi perché divento evanescente. Mi dici “papi, ma mi ascolti?” mentre mi stai raccontando di scuola, di un’amichetta che ti ha deluso, del tuo compagno di classe che ha chiesto alla maestra se anche lei ha le tette.
Io sono invece su whatsapp e le notifiche dei nuovi messaggi in arrivo cascano dentro al mio telefono come gocce da una grondaia durante un temporale. Mi affretto a raccoglierne alcune e si allaga tutto intorno. Io me ne resto allora immobile a contemplare il temporale che mi bagna, fino a quando mi lascio cadere le braccia e guardo nella tua direzione come per metterti a fuoco per la prima volta. Tu fai la faccia sfinita e di finta disapprovazione. Io mollo il telefono da una parte e ti chiedo se facciamo una partita a Dobble. Allora forse capisci che voglio stare solo con te e il temporale fuori è finito o semplicemente non mi bagna più. Corri a prendere il mazzo di carte, ne metti una coperta per me e una per te, il resto della pila scoperta al centro del tavolo. Prima ancora che io scopra la mia, tu stai già urlando “macchina”, “chiave di violino”, “lampadina”, “bomba”, “coso” (coso è un mirino ma siccome non ti ricordi mai come si chiama abbiamo stabilito che può chiamarsi semplicemente coso).

Sai, tu non puoi saperlo ma faccio gli stessi errori anche con Agata . Ogni tanto mi perdo il filo del discorso che abbiamo cominciato mesi fa. Si direbbe mi distraggo. Perdo di vista dove sono, mi lascio bagnare da quel temporale che non solo mi bagna ma mi assorda e allontana. Ultimamente avevamo preso un impegno. Era un impegno importante ed era una cosa a cui tenevamo entrambi. Nessuno lo aveva caricato di eccessiva aspettativa ma si vedeva nella cura con la quale ne parlavamo, persino nella scelta delle parole, che tenevamo entrambi tanto a questa cosa. Poi io mi sono distratto solo un attimo. È stato davvero un istante e il mondo fuori si è infilato nella mia mente come una legione romana in un villaggio gallo. In quel singolo istante sono stato capace di spostare quell’appuntamento in avanti, convincermi di averne già parlato con lei, rassicurato che fosse tutto ok per entrambi. A lei avevo solo detto “ne parliamo più tardi” e quel più tardi è stato letteralmente cancellato da tutto quello che nel frattempo entrava e usciva dalla mia testa come treni della metropolitana di Tokyo. Tutto qua e in breve quel buco di un semplice istante aveva contaminato tutto il resto facendolo diventare un colabrodo di disattenzioni. A quel punto non mi restava che fare come faccio con te, afferrare il nostro mazzo di Dobble e chiederle di mettersi a sedere e urlare i nomi dei simboli presenti sulla sua carta e su quella in cima al mazzo. E lei me lo ha lasciato fare. 

E adesso che ti racconto queste cose, mi rendo conto di quanto sia difficile aver cura delle persone alle quali si vuole bene che, in definitiva, vuol dire voler bene anche  a se stessi. Voi accettate l’idea che io ogni tanto sia distratto e prendete per buoni i miei tentativi goffi di rimediare. Tu mi chiami sovrastando ogni altra cosa per catturare la mia attenzione, Agata invece usa il sistema opposto. Si fa piccola piccola, fino a diventare immobile e muta e quel silenzio mi urla contro e mi sveglia. Vorrei essere meno distratto, avere la capacità di mettere ogni cosa al suo posto e trovarcela solo quando serve, dare a te e a lei tutto il tempo e le attenzioni che sento. Ma se i condizionali fossero paglia potrei riempirci un fienile e con quel fienile non sfamerei nemmeno un pony già sazio. Sicché non prometto, ora faccio. E per fare ho un piano: la prossima volta che staremo insieme, io e te, io e Agata o magari tutti e tre, vi sorprenderò. Tirerò fuori dal mio zaino la scatola di latta di Dobble e mentre nessuna delle due se lo aspetterà, vi dirò “facciamo una partita?”.