Stagioni

Oggi è l’anniversario della morte di Guevara. 9 ottobre 1967, 54 anni fa. È anche il compleanno di una mia compagna di classe del liceo. Me lo ricordo per la coincidenza dei due anniversari.

Scrivevo per lei. Scrivevo tantissimo per lei, come faccio adesso per te e per Agata, attraverso questo blog. Avevo 15 anni, poi 16, poi forse anche 17 e le scrivevo poesie, piccoli racconti, stralci di romanzi, qualunque cosa potesse farmi tornare a scuola il giorno dopo e sussurrarle “ho scritto una cosa”. Gliela passavo, sapendo che quel foglietto stampato ad aghi sarebbe rimasto un segreto tra noi due. Lei lo leggeva durante le ore di biologia o di italiano, non so. E alla ricreazione o all’uscita mi avvicinava senza guardarmi mai negli occhi. Sorrideva, fissava un punto del cielo attraverso la finestra della classe e sussurrava “mi è piaciuto”, portando lo sguardo al pavimento e arrossendo un po’. Tutto qua. Poi tornava dalla sua compagna di banco, io dai miei. Altro giro, altra corsa. 
Non credo abbia mai saputo davvero quanta dedizione dedicassi a quegli appuntamenti né quanto di me scoprisse in ogni riga che riceveva in dono. Non credo avesse mai nemmeno saputo quanto mi piacesse e quanto dolce trovassi i suoi gesti delicati e mai invasivi nel ringraziarmi e allo stesso tempo chiedermi “ancora” senza mai chiederlo davvero. Eravamo legati da un foglio leggero di tabulato a modulo continuo. Continuo come il rapporto che avevamo instaurato. Io le raccontavo della mia adolescenza per tramite di costruzioni contorte e arricchite da parafrasi di canzoni. Lei nei suoi silenzi e in quello sguardo timido e triste mi lasciava entrare nel suo mondo che capivo tanto simile al mio. Tanto vicini eppure così lontani.

L’ultima volta che l’ho sentita eravamo entrambi all’università. Io a Roma, a studiare Lettere senza convinzione, lei a costruirsi una carriera da ingegnere a Napoli. Era lo stesso giorno di oggi e la chiamai per farle gli auguri di compleanno. Le dissi che era l’ultima volta che le avrei fatto gli auguri senza riceverli. Non sapevo di certo che quello scherzo sarebbe diventato una profezia. Negli ultimi tempi la sua tristezza leggera si era condensata e compattata, trasformata in ghiaccio. Sentivo che c’era qualcosa che non andava nella sua voce ma non me ne parlò come non me ne aveva mai parlato prima. Di lì a qualche giorno mi rubarono il telefono e con esso tutti i numeri che all’epoca erano custoditi dentro la sim (proprio così). Non ebbi mai più modo di scriverle o sentirla, lei non si fece mai più viva. Ricordo bene come a distanza di qualche anno da allora un mio amico mi parlo dell’esistenza di Facebook. Me lo fece vedere, me ne parlò con l’entusiasmo di ogni rivoluzione anche se io non ne rimasi particolarmente attratto. Mi iscrissi lo stesso per cercarla. Non la trovai, non trovai nemmeno la sua compagna di banco, né nessuno dei pochi che avrebbero potuto ridarmi il suo numero. Ma all’epoca probabilmente su Facebook eravamo in 3: io, il mio amico e Zuckerberg.

Per molti anni l’ho dimenticata, tenuta isolata in un angolo cieco della mia storia, fino a stamattina. 
Avevo intenzione di ritornare a scriverti. Farlo dopo così tanto tempo, dopo un milione di rimandi e mille tentativi mentali andati a male. Sapevo solo di volerlo e doverlo fare. Ho aperto il computer, poi Word. E mentre la barretta bianca sottile ha cominciato a lampeggiare pressante, sapevo che avrei raccontato di te, di Agata, degli sviluppi meravigliosi che sta prendendo la nostra vita ultimamente. Poi però l’icona di Calendar mi ha ricordato che oggi è 9 ottobre. Come la morte di Guevara, ho pensato, e il compleanno della mia amica forse ingegnere. Tutto il resto è venuto da sé. A far due conti a spanne, credo siano passati proprio 20 anni da quell’ultima volta. Una cosa incredibile e assurda, passare 20 anni senza notizie di una persona a cui hai voluto così tanto bene, dalla quale hai ricevuto tanto bene. Viene da chiedersi chi fossimo l’uno per l’altra e chi erano le persone rimaste incastrate in un tempo così lontano. Se oggi avessi un soldino per un desiderio, lo spenderei per chiederle se è felice, se ha trovato quello che cercava e mai mi ha rivelato. E se di quel soldino rimanesse una piccola porzione ancora utile allora lo spenderei per farmi raccontare com’era quando la mattina le portavo un racconto che avevo scritto la notte soltanto per lei. 

Ovunque tu sia e qualunque cosa tu stia facendo, amica mia, buon compleanno!

Costruire

Esattamente un anno fa cominciavo a scriverti queste lettere. Sentivo che ogni istante della vita che trascorrevamo insieme e di quella parte di esistenza durante la quale eravamo distanti, aveva una quantità di informazioni che sarebbero andate perse se non le avessi catturate e impresse da qualche parte. Fotografie, fotogrammi o piccole clip del girato dei nostri giorni insieme e lontani. Cominciai allora a scriverti, immaginandoti come interlocutore presente e futuro. Ho sempre provato a essere più onesto che potevo. Mai romanzando, anche quando la tentazione di farci apparire più belli e divertenti e simpatici era forte. Siamo solo io e te, tu e io. E abbiamo riempito quaranta lettere in un anno: dodici mesi, cinquantaquattro settimane, trecentosessantasei giorni, ottomilasettecentoottantaquattro ore della nostra vita.

Sai, avevo ragione. In queste lettere sono rimasti appiccicati un sacco di ricordi che avremmo perso. Alcuni, immagino, li avrei persi solo io. Altri tu. Altri ancora entrambi. Sono invece qui dentro. A distanza di un solo anno, li ho ritrovati già, sfogliando queste lettere sin dall’inizio e ho provato quella sensazione che si prova quando ritrovi una foto del passato, la guardi e rivedi quella maglietta che indossavi e improvvisamente ti ricordi quanto le eri affezionato, quando o come l’avevi avuta, alcuni dei giorni nei quali l’avevi addosso. Ho un ricordo così. Di una maglietta blu elettrico dell’Energie che avevo durante il primo o secondo anno del liceo. Blu, con delle righe rosse che percorrevano perpendicolari le spalle e la E che aveva la forma di una freccia sul petto. Tamarrissima, diremmo oggi. Eppure mi ci sentivo un figo. La mettevo negli ultimi giorni di scuola. Elasticizzata e aderente (allora potevo permettermelo), sopra ai miei pantaloni strappati alle ginocchia e con i capelli a spazzola ingellati, mi sentivo gli occhi delle ragazzine della mia classe addosso e stavo bene.

Siamo stati bene allo stesso modo in molte delle storielle che ho raccontato finora. In alcune appariamo davvero buffi. Mi commuove un po’ leggere a ritroso le cose che ci sono successe nell’ultimo anno e sorrido quando sembriamo una coppia consumata del cinema che fa gag esilaranti. Se fossimo ad un pranzo di un matrimonio e questo fosse il mio discorso agli sposi, direi una di quelle frasi che si sentono sempre in questi casi: “quante ne abbiamo passate insieme!”. Belle ma anche brutte. Qui dentro, infatti, ci sono anche tante lacrime che insieme e separati abbiamo versato.
Quando sarai grande e le leggerai, ci ritroverai dentro i miei tentativi goffi di farti imparare a riconoscere Bruce Springsteen, la passione per Guccini, i disegni belli e quelli che abbiamo rovinato, le delusioni che ti hanno rifilato alcune tue amiche, alcuni dei giochi che facevamo, le passeggiate per Roma, la paura del virus, il rapporto con tua madre, molti dei ricordi del mio passato (alcuni dei quali affioravano proprio mentre ti scrivevo), la nascita di un nuovo amore, gli attimi belli e emozionanti del vostro primo incontro, i nostri tic, i film, le canzoni, la montagna, le favole, i giocattoli, le macchine fotografiche e la fotografia, i libri, i compiti, la scuola, gli amici, i desideri, il futuro e il passato (quello bellissimo e quello tristissimo), i dolci, le seratine speciali e i toast a colazione, le matite colorate e i pennarelli, le punte spezzate, la nostra numerosa famiglia, i viaggi, la nostra casa, le paure e le speranze, Roma e la Roma, le risate, i sorrisi e le lacrime, le domande, i racconti, le ninnenanna, la mia passione per le liste, l’amore, tutto il nostro amore.

Quando avevo più o meno la metà degli anni che ho oggi, scrivevo già racconti. Quando li finivo, li firmavo con le miei iniziali e appuntavo il giorno e l’ora esatta con la scritta “per chi dovesse viaggiare nel tempo”. In quell’appunto, c’era la possibilità per il me del futuro che avrebbe ritrovato quei racconti molti anni dopo, di sapere con esattezza l’attimo irripetibile che li aveva partoriti e, soprattutto, la consapevolezza che in quell’attimo c’era un pensiero per lui, una specie di saluto dal passato.

Sono le 8 e cinquantasette minuti del 3 aprile 2020. Sono nella mia stanza e ti sto scrivendo la quarantesima lettera di una serie iniziata un anno fa. Ciao, figlia del futuro. 

La tua canzone

Ti ho lasciata pochi minuti fa davanti scuola. La maniglia del tuo zaino in una mano, nell’altra la mia mano. Hai detto “ciao papi” e hai fatto per scappar via ma io ti ho trattenuta reclamando un altro bacio, più grande di quello precedente. Mi hai accontentato e fatto un sorriso proprio bello. Poi sei andata e io, come al solito, sono rimasto lì a guardarti scomparire nel corridoio della tua scuola. Mentre andavi però ti sei girata due volte per guardare se ero ancora lì e io c’ero e agitavo un braccio come se fossi appena salita su un transatlantico che ti avrebbe portato dall’altra parte del mondo. Tu ridevi, io ti mandavo baci, gli altri genitori mi passavano accanto indifferenti.
Credo il bidello della tua scuola si sia accorto che rimango sempre lì un paio di minuti dopo che sei entrata. Mi guarda o forse sono solo io che mi sento guardato. A volte me lo immagino che scuote la testa come a dire “questi papà apprensivi”. Non so se è realmente così. So però che ogni volta, faccio finta di tirare fuori le cuffie dalla giacca, le srotolo, me le ficco nelle orecchie e questo mi consente di avere circa un paio di minuti di velata nonchalance.

Stamattina, mentre venivo a lavoro, faceva freddo. Quel freddo che a Roma si vede ben poco d’inverno. Mi pungeva alle caviglie e alle ginocchia e per evitarlo andavo piano e stringevo le gambe verso il centro del motorino. Facendo slalom nel traffico, pensavo a te, alla tua giornata a scuola. Spesso quando siamo insieme ci raccontiamo di scambiarci. Io vado a scuola per te e tu vieni a lavoro per me. Quando facciamo questo gioco tu mi interroghi sulle cose che dovrò vivere nella mia giornata al tuo posto, così so per certo ogni cosa che accade dal momento in cui in cui ti lascio. Nella mia giornata al tuo posto so dunque che dovrò affrontare una piccola ricreazione, prima che arrivi la maestra, poi l’appello, delle spiegazioni, un’altra ricreazione (un po’ più lunga) insieme a una merenda, altra spiegazione o esercizi in classe, mensa, piccola ricreazione, esercizi e poi attesa dell’uscita. Quando invece ti chiedo “e tu al mio lavoro cosa farai?”, tu mi rispondi che preparerai dei caffè (quanti? Per chi? Non si sa. È solo che ti piace usare la macchina Nespresso del mio ufficio), poi ti siederai alla mia scrivania e stamperai dei disegni da colorare. Il mio lavoro è dunque questo per te: fare caffè e stampare disegni. Non male.

Ora sono a lavoro davvero, mentre tu avrai superato l’appello e sarai nel mezzo della prima spiegazione del mattino. Mi perdo un po’ a pensarti, seduta nel tuo banco, illuminata di traverso dalla luce calda di questo sole d’inverno. Guardi la maestra attentissima a non perdere una parola. Io il caffè non me lo sono fatto, invece. Avevo finito le cialde e sono allora andato a prendermi un cappuccino al distributore automatico. Ho preso anche una Kinder Delice (e sì, lo so che non avrei dovuto e so anche che stando ai nostri accordi, se prendo una schifezza per me la devo prendere anche per te. Ti devo quindi una Kinder Delice). Sono poi arrivato in ufficio, ho acceso il computer e mentre cominciavo a scrivere questa lettera ho messo Coez su Spotify. Dovrei cominciare a lavorare un po’, non mi va. Quasi quasi mi metto a cercare qualche disegno da colorare su internet.

La leva calcistica del ‘68

La tua prima e ultima partita allo stadio è stata un disastro anche se tu la ricordi come una specie di picnic divertente, pieno di pizzette, biscotti, wafer, panini e altre mille ragioni che non hanno nulla a che fare col calcio. Gianluca si era rotto un piede a calcetto e il suo posto sarebbe rimasto vacante. Mercoledì però era il mio giorno con te e anch’io avevo deciso di disertare Roma- Atalanta. Silvia però ci ha riflettuto un po’, mostrando una passione per quell’avventura nella quale era stata coinvolta quasi controvoglia a inizio anno ormai superiore a qualunque affezione a due cari amici, e mi ha detto “ma perché non venite insieme?”, sottintendendo io e te. Tanto è bastato perché io ti proponessi questa cosa che somigliava un po’ tanto a Homer che regala a Marge una palla da bowling per il suo compleanno facendole credere sia davvero un pensiero speciale per lei. Tu ci hai riflettuto a tua volta e perplessa mi hai chiesto “e se poi mi annoio?”.  Sapevo però che non ti saresti annoiata, rapita da tutte quelle cose che ti avrebbero portata ad assaporare due ore di calcio senza calcio. Così, subito dopo scuola, la tua serata da tifosa è iniziata al supermercato dove siamo andati a prendere i panini. Eravamo già in ritardo, io sono corso al banco del pane e ti ho lasciata con Silvia all’altezza delle merendine autorizzandoti a comprare un dolcetto. Quando vi ho reincontrate alla cassa avevate preso così tante schifezze che avremmo potuto offrirle a tutta la curva.

A volte accadono cose stupefacenti quando sto con te. Una di queste è stata trovare a primo colpo, quasi senza cercarlo, un parcheggio a 500 metri dall’Olimpico. Da lì, immersi nel mare rosso di sciarpe, magliette e bandiere, ci siamo lasciati trasportare ai nostri posti. Mentre tu ti guardavi attorno curiosa, Silvia se la prendeva con gli steward e i poliziotti che le dicevano “prego signora” facendola passare ai tornelli e ai controlli, convinti fosse tua madre.
In queste occasioni, anche se spesso abbiamo scorte di cibo che potrebbero sfamare la popolazione del Ciad, tu razioni il cibo con scrupolosa osservanza lasciandoti per i momenti più importanti le cose che ti piacciono di più e non cominciando mai a mangiare prima dell’effettivo inizio. Lo fai anche al cinema, per dire. Appena arrivati compriamo il barattolone di popcorn che tu custodisci gelosamente fino all’inizio del film. E spesso, anche dopo che il film è iniziato, mi chiedi “papi ma è iniziato?”, preoccupandoti che quello che stai vedendo non sia l’ennesimo trailer. Sei fatta così. Ti piace fare le cose con ordine. Ogni cosa al momento e al posto giusto. Così hai fatto anche allo stadio. Hai aspettando l’inizio per cominciare ad attaccare le tue riserve di stuzzichini e nel frattempo mi chiedevi delle bandiere, i nomi dei calciatori e mi guardavi stupita mentre cantavo a squarciagola Roma non si discute. Io ti ho messo la mia sciarpa tra le mani e tu, quasi senza pensarci, ti sei ritrovata a mimare modi e gesti di chi ti stava intorno che ormai ti aveva assunta a mascotte.

Abbiamo sofferto tanto. Una partita brutta e lenta. A tratti sfortunata. Chi soffriva più di tutti ero io che mi sentivo schiacciato tra la voglia di esplodere nei miei soliti eccessi di entusiasmo da stadio e il desiderio di non apparirti diverso dal solito. Così a ogni azione sbagliata, a ogni errore arbitrale, a ogni fallo subito, mentre il mondo intorno si lanciava in improperi e urla forsennate, io reprimevo velocemente dentro la frustrazione e rielaboravo nel minor tempo possibile la frase sconcia che avevo sulle labbra rendendola potabile. Così tu e il resto della curva, mi avete sentito urlare cose tipo “ma che cavolo!”, “arbitro stai attento!”, tanti piccoli e innocui mannaggia. 
Quando l’Atalanta ha segnato il primo gol lo stadio si è ammutolito. I giocatori hanno ripreso la palla, ritornando a centrocampo e dopo poco il gioco è ripreso. Tu non ti sei accorta di nulla. E solo dopo 10 minuti mi hai chiesto perché sul maxischermo accanto al nome dell’Atalanta fosse apparso un 1. Tempo qualche secondo e quell’uno è diventato un 2 mentre la cifra accanto al nome della nostra squadra rimaneva invariabilmente zero.
La partita è finita così. Con la gente che andava via schifata, Silvia che tentava di raccontare qualcosa di divertente e io che ti ho fatto salire in piedi sul sedile per farti ammirare lo stadio che lentamente perdeva il rosso e guadagnava in blu.

Vedi mi son chiesto davvero cosa ricorderai di quella giornata. A lungo ci avevo pensato anche prima, dicendomi che avresti conservato i cori, l’esultanza di un gol, l’impressione di far parte di qualcosa di enorme e lontanissimo dalla vita normale. Al di là di tutto, pensavo che portarti allo stadio sarebbe stata una cosa che avresti potuto raccontare oggi, adesso, ma anche tra tanti anni, ricordando la volta che a sette anni accompagnasti tuo padre a vedere la Roma. Di sicuro non immaginavo, mentre pensavo tutto questo, che nella tua mente potesse esserci una qualche forma di identificazione in ciò che è il mio mondo e nel quale ti immaginavo solo spettatrice. Invece il mattino dopo, mentre facevi colazione e io fissavo ossessivamente l’orologio alla parete convincendomi che non ce l’avremmo mai fatta ad arrivare in tempo a scuola, mi hai stupito, facendomi commuovere. Mi hai chiesto “Papi abbiamo perso per colpa mia?”. Ovviamente sono corso a rassicurarti, chiedendoti come potessi pensare una cosa così. Tu mi hai detto “perché non avevo la maglietta, non avevo la sciarpa e non conoscevo i cori”. Io ti ho guardato come si guarda un mago che sta fluttuando nell’aria senza trucco, ti ho stretta forte forte e nel momento esatto in cui realizzavo che avrei dovuto compilare anche per quella mattina il foglio di giustificazione per l’ingresso in ritardo a scuola, ti ho detto che quando sono con te io non perdo mai e la mia squadra, che siamo io e te, gioca e vince ogni anno il campionato, la Champions e la Coppa del Mondo. Tu mi hai sorriso probabilmente capendo solo una piccola parte delle cose che avevo detto e hai aggiunto “tu però avresti voluto dire un sacco di parolacce e non le hai dette”.

Allora ho realizzato che hai capito molto più di quello che cercavo di dire, hai compreso i miei sforzi, il mio desiderio di farti conoscere tutto ciò che amo, di condividere ogni cosa con te, cercando di trovare sempre un compromesso, un modo. 
Ho realizzato che non sono le imprecazioni mascherate male, i ritardi, e nemmeno i cori che non mi sono preoccupato d’insegnarti a poter gettare ombra sulla nostra squadra, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore.
Noi indossiamo una maglietta sempre pulita, e con lei scendiamo in campo ogni giorno. Non siamo spettatori ma campioni. Giochiamo la nostra lunghissima partita, tifiamo l’uno per l’altra senza conoscere esitazione. Affrontiamo il nostro stadio, l’erba falciata da poco, le luci sulle nostre teste, e iniziamo a correre con coraggio e tutta la fantasia di cui siamo capaci, quella che serve a rendere nuova e speciale ogni cosa.
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, e tu lo vedi, mi vedi. Mi dai fiducia. Come un procuratore mi osservi e dentro di te pensi il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette.

Ti voglio bene amore mio. Perché hai solo sette anni e non giudichi il tuo calciatore preferito nemmeno quando sbaglia un rigore a porta vuota.

Per te

Quando avevo 16 anni usci L’albero, ficcandosi prepotentemente in ogni interstizio di pausa della mia vita di adolescente e riempiendo una miriade di pomeriggi, notti, mattine dei tre anni che seguirono. Lo ascoltai così tanto che, col passare del tempo, l’attesa per il disco successivo divenne angosciante. In fine arrivò il 10 maggio del 1999. Per comprare un disco dovevo prendere la macchina, affrontare i 30 km di curve che mi separavano dalla città, cercare parcheggio, evitando di graffiare o tamponare la macchina dei tuoi nonni, governare le pulsazioni del mio cuore per dosare abbastanza sangue nelle gambe e raggiungere il negozio di dischi in pieno centro.
Il negozio è ancora nella mia mente, così come il suo nome. Chissà se c’è ancora però. Era una botteguccia piccola con alcuni scaffali zeppi di cd, addossati l’uno all’altro e il bancone, bianco, a destra dell’entrata.

A me e tuo zio, per festeggiare l’ultimo anno di liceo, per quell’anno fu concesso di andare a scuola in macchina. Non era in realtà un vero regalo. Era più un favore che tuo nonno faceva a se stesso per evitare di dover coprire almeno un paio di volte la settimana gli 11 chilometri che separavano casa dalla scuola, nei giorni in cui l’autobus sarebbe partito più tardi. Non ricordo esattamente come andò quel lunedì ma, avendo vissuto tante altre giornate come quella, è probabile la dinamica sia stata la stessa di sempre. Te la racconterò allora così, come le altre volte. Lasciai tuo zio a casa dei nonni e probabilmente senza mangiare passai a prendere Filippo a casa sua. Insieme ci precipitammo in città. Entrammo da Top dischi, simulando indifferenza e nonchalance (all’epoca, come adesso, ci mancavano sia l’una che l’altra) e cominciammo a curiosare tra i cd esposti, non riuscendo comunque a concedere alcun tipo di interesse a nessun altro disco che quello
Il pezzo di pizza consumato senza troppa fame da Young Pizza, la passeggiata di rito lungo il corso, la consueta sosta alla casetta dei fumetti per osservare e avere tra le mani il mitico numero 1 di Dylan Dog, per quel giorno furono solo un lampo, un flash indistinto tra un viaggio di andata e una corsa di ritorno.

A casa, come ogni altra volta, rigirai numerose volte tra le mani il disco ancora incellophanato. Leggendo e rileggendo i titoli delle canzoni, le scritte piccole piccole, osservando con minuzia da incisore i dettagli dell’immagine di copertina. Poi la punta di una forbice infilata nella plastica. L’emozione di scoprire il dentro dell’oggetto, le pagine del libretto, ogni singolo dettaglio come un viaggio aspettato per 3 anni. E infine infilare il disco nel lettore, le cuffie alle orecchie, steso a letto, occhi chiusi, ascoltare, solo ascoltare.
L’albero mi aveva tenuto compagnia per così tanto tempo che Capo Horn non poteva riservarmi emozioni lontane. Ero tutto quello che sapevo. Ascoltai il disco la prima volta, poi la seconda, forse anche una terza. Probabilmente fino a quando non fui interrotto da tua nonna che mi intimava di scendere per la cena. Eppure quella che doveva essere una festa si rivelò un fallimento clamoroso. Perché nessuna delle tante aspettative che avevo riposto in quel disco era stata assecondata. Ero così deluso che quella sera non riuscii a mangiar nulla, continuando a chiedermi perché. E alla fine decisi di scrivere. 

Ero cresciuto con Jovanotti, sin dall’88 quando avevo poco più della tua età, e ascoltavo la cassetta di Jovanotti for president, implorando i nonni di comprarmi l’astuccio con la bandiera americana e la scritta “yo jovanotti”. Non era un cantante, né una star. Era uno di famiglia, dal quale non è concepibile ricevere delusioni.

Google, non ci crederai, ma esisteva da pochi mesi. Esisteva però Soleluna.com, nel quale c’era una casella per inviare messaggi. Scrissi una lunga mail di cui ho perso memoria. Ricordo però benissimo che concludevo con questa frase “ho passato gli ultimi 3 anni ascoltando L’albero e continuerò per i prossimi 3”. Poi invio.
Puoi immaginare la sorpresa quando il giorno dopo cascò nella mia casella email un messaggio proveniente da un certo Lorenzo Cherubini. 
Piangevo, tanto per fare una cosa nuova. Lorenzo mi diceva di essere dispiaciuto. Mi garantiva di avercela messa tutta. Mi proponeva di ascoltarlo ancora oppure chiedere al negoziante di riprendere il disco e ridarmi i soldi. Le lacrime che versai per l’emozione non furono nulla se confrontate a quelle che versai nei giorni successivi quando riascoltai ancora e ancora il disco e me ne innamorai perdutamente. Come avevo potuto giudicarlo così precipitosamente è un dubbio che non riesco a risolvere nemmeno oggi, a distanza di 20 anni esatti. Ma è una cosa che facciamo continuamente, la facciamo tutti.

Mi è tornata in mente questa storia ieri sera. La raccontavo a Agata e mentre la descrivevo, nel brillare dei suoi occhi indulgenti, ho pensato dovesse esserci un senso che mi era sfuggito per tutti questi anni. Poi Agata ha smesso di guardarmi e ha puntato gli occhi su un punto lontano a metà tra l’orizzonte e noi. Ha detto “dovresti riascoltarlo il Jovane” (lei lo chiama così). E così ho fatto questa mattina, dall’inizio alla fine, e alla terza volta che riascoltavo “Per te”, mi sono ricordato di domenica scorsa, quando io guardavo il derby alla tv e tu con la mia maglia di Dzeko addosso facevi i compiti. Io ogni tanto mi scaldavo per una traversa, un palo, o fuorigioco che non c’era. Tu interrompevi i tuoi compiti, ti giravi e mi urlavi “Papi stai davvero esagerando, è soltanto una partita”. Ecco, collegando tutti questi avvenimenti mi è venuto in mente che non potrò tornare indietro a tutte le volte che ho giudicato lapidariamente cose che all’apparenza mi sembravano stupide, superficiali, insensate, fatte male. Ma tu ad un certo punto mi hai insegnato che possiamo provare a farlo insieme. Perché mentre Luis Alberto al 58’ minuto pareggiava i conti e io urlavo come un disperato, tu hai deciso di fare una pausa perché probabilmente non ne potevi più di vedere tuo padre comportarsi come i maschi stupidi che pensano solo al calcio. Ti sei seduta allora sul divano accanto a me, hai cominciato ad osservare lo schermo e hai detto: “però la maglia del Lazio è molto bella”. Io ti ho fulminato con lo sguardo e tu hai sorriso.

Sono passati 20 anni dall’uscita di Capo Horn. La mia città è cambiata tantissimo, la Roma non vince un campionato da più o meno gli stessi anni, la macchina dei nonni rimane immacolata nonostante il tempo, Young Pizza si è allargato ed è diventato un ristorante enorme, Top dischi ha la stessa insegna di allora ma adesso vende soprattutto vinili e magliette, la casetta dei fumetti in Piazza Roma non c’è più anche se adesso ho il mitico numero 1 di Dylan Dog, il ragazzo che io ero e ascoltava “Per te” commosso ha avuto nel frattempo una figlia meravigliosa e ha finalmente capito quanto davvero è per te ogni cosa che c’è, ninna naaa ninna eee.

Piangi Roma

A Roma fa caldo e la notte si fa fatica a dormire. Per me che tengo le imposte della finestra chiuse è anche peggio. Ho paura che entri un geco in casa e la paura vince sul caldo e il bisogno di areazione. Non so se tu riesci a percepirla. Ogni tanto, quando siamo per strada di sera, ti indico un geco sulle pareti dei palazzi e ti dico “guarda!”. Lo dico forse più a me che a te, per sembrarti coraggioso e senza paura. Tu osservi la bestia ma non ti avvicini mai. A volte dici “che schifo!”, qualche altra “come è ciccione”, ma non ho ancora capito se ti terrorizzano come terrorizzano me oppure se tutto sommato ti lasciano indifferente. Una delle ultime imprese compiute in casa vostra fu proprio catturare un geco che si era intrufolato in casa. Tua madre, che ne ha un timore forse anche superiore al mio, lo vide attraversare la parete dietro alla televisione. Tu eri già a letto che dormivi. Io non lo vidi e provai a rassicurarla, convincendola che l’aveva sognato. Quando però lo vidi anch’io fu il panico. Due adulti che saltano sul divano per paura di una creatura piccola e innocua però viscida e disgustosa. Il mio terrore principale è sempre stato trovarmelo nel letto, sentire le sue zampette da rettile che percorrono le mie gambe, fino a infilarsi sotto la t-shirt e poi chissà salirmi sul viso.

Passai più di due ore con una scatola di scarpe vuota in mano, sentendomi Willy il coyote che tenta di catturare Beep-Beep che però è troppo veloce, furbo e praticamente imprendibile. Alla fine però riuscii a catturarlo, smontando mezza casa e incastrandolo su una parete del corridoio, dietro agli scaffali con i tuoi giocattoli. Queste cose non te le ho mai raccontate per non sembrarti debole e soprattutto per non trasmetterti paure. Nella mia mente ho sempre desiderato che tu diventassi una di quelle bambine che vanno a caccia di lucertole, le catturano a mani nude e le osservano da vicino con la perizia di uno zoologo. Naturalmente tu non diventerai mai ciò che io o qualcun altro sogniamo o abbiamo sognato. Per dire che ieri notte ero a letto che continuavo a rigirarmi per trovare una posizione per dormire ed ero forse in quello stadio in cui stai già dormendo ma sei ancora cosciente. Poi ad un tratto suona il telefono, mi alzo di scatto spaventato, lo afferro e leggo il nome di tua madre sullo schermo. Guardo l’ora: mezzanotte e mezza. Mi affretto a rispondere. Dall’altra parte del telefono sento solo silenzio. Ripeto “pronto”, poi il nome di tua madre, fino a quando sento la tua vocina dirmi “papà… mi manchi tanto”.

Tu e tua madre siete per qualche giorno in vacanza a Barcellona. Andate in giro, ogni tanto mi inviate foto in cui sembrate rilassate e divertite. C’eravamo già sentiti almeno due volte durante la giornata, mi avevi raccontato di aver visitato l’acquario, di un pesce che sembrava una conchiglia, del taxi, del caldo, del gelato spagnolo che è meno buono di quello di Roma. In nessuno di questi momenti mi eri sembrata triste o che stessi pensando a me. Eppure nel cuore della notte hai aperto gli occhi, afferrato il telefono di tua madre, chiesto a Siri di chiamarmi per dirmi che ti mancavo tanto e che non riuscivi a dormire, anche se sei partita solo da due giorni. Mi si è stretto il cuore e ho provato in tutti i modi a farti ridere, senza successo. Allora mi sono risdraiato a letto e ho cominciato a raccontarti di quanto manchi anche tu a me. Nel dormiveglia devo averti raccontato dei grandi esploratori, che sono uno dei miei cavalli di battaglia, del fatto che se non avessero afferrato a due mani il coraggio e affrontato la lontananza, non avrebbero fatto nessuna delle scoperte che hanno fatto e, insomma, di pensare che sto bene e sei sempre nei miei pensieri e che, a differenza dei grandi esploratori, tu puoi sempre prendere il telefono e chiamarmi o addirittura vedermi in videocall.  Devo averti tranquillizzata perché mi hai salutato come fai sempre quando mi saluti al telefono: dici “ok, ciao!” e attacchi senza aspettare il mio saluto di risposta. Ho appoggiato il telefono sul comodino. Il sonno era ormai passato. Ho allora afferrato il libro che ho accanto a letto e cominciato a leggere. È il libro che mi hai regalato per il mio compleanno, una graphic novel. Tua madre mi ha detto che lo hai scelto perché il tizio in copertina somigliava a me e la cosa assurda è che in ogni pagina che leggo mi ritrovo in maniera inquietante. Vado avanti per un po’ nella lettura, fino a quando volto pagina e trovo il tuo disegno piegato in due. Ci siamo io e te che ci teniamo per mano e sopra di noi campeggia un cuore giallo gigantesco che contiene la scritta “sei il papà migliore del mondo!”. Sorrido, mi commuovo un po’, penso ad alta voce: Tu sei la figlia migliore del mondo!

Stairway to heaven

Oggi ti ho costretta a fare una passeggiata in centro. Quando c’è di mezzo il verbo camminare è d’obbligo anche quello costringere. Perché sei pigra e fai risultare muoversi per qualche centinaia di metri un’impresa degna di un maratoneta. 

Ciò che in assoluto invece ti piace di più è lamentarti. Lamentarti del caldo, del freddo, della fame, della sete, del traffico, del rumore, della difficoltà di trovare parcheggio a Roma e, appunto, delle distanze incolmabili che separano i nostri intenti dagli obiettivi che ci proponiamo. Ultimamente hai inoltre una grande passione per i numeri e vorresti che ti raccontassi con estrema precisione quanti sampietrini scorrono sotto le suole delle nostre scarpe, quant’acqua contiene il Tevere, quante macchine ci sono, gli abitanti di Roma (sì ma tutti tutti, non solo quelli che ci sono oggi, quelli dalla fondazione in poi). Così, da quando ti ho fatto vedere un’app che ho sul mio telefono e che conta con “esattezza” quanti passi faccio ogni giorno, ti si è aperto un mondo. Adesso quando camminiamo, ogni trenta metri mi chiedi “papà puoi controllare quanti passi abbiamo fatto?” e lo chiedi con tale cadenza, che solitamente io prendo il telefono in mano, guardo l’ora sul bloccaschermo e ti rispondo cifre a casaccio, causando quello spiacevole disguido dell’essere preso in castagna ogni volta che pronuncio per errore un numero inferiore ad uno di quelli che ti avevo detto una delle volte precedenti.

L’obiettivo della giornata era raggiungere il Lego Store a via Tomacelli per comprare un portachiavi da regalare a tua madre che oggi aveva il rogito della sua nuova casa. Il problema a monte – ovviamente – è stato trovare un buco dove ficcare la macchina ma tu, per fortuna, ti sei addormentata e così ho potuto trascorrere in tranquillità i 40 minuti che mi ci sono voluti per trovare un parcheggio a 1 chilometro e centro metri (milleecento metri, centodiecimila in centimetri) dal negozio. Una volta lì, mi è sembrato quasi un sogno poter scegliere in 5 minuti due portachiavi (uno per tua madre e uno per te che non hai un mazzo di chiavi ma hai assolutamente bisogno di un portachiavi) e dedicarci poi alla perlustrazione dello store. Ecco, io non te l’ho detto perché devo avertelo detto così tante volte che ho dato per scontato mi avresti risposto “papà già lo so”, ma i Lego sono i miei giochi preferiti, da sempre. Non credo però i miei genitori mi abbiano mai concesso da piccolo il lusso di avere un mio set, anche minimo. Così sono cresciuto pensando ai mattoncini del Lego come un islandese può pensare alle giornate di sole. È stato per questo che quando tu ti sei fermata davanti al tavolo da gioco e hai cominciato a costruire una casa afferrando alla rinfusa i mattoncini dalla vasca enorme che avevi davanti, in quel suono inconfondibile di Lego smossi, il mio cuore ha pulsato come fosse passata Scarlett Johansson e mi avesse fatto l’occhiolino. Mi sono inginocchiato accanto a te e ho cominciato ad aiutarti, bacchettandoti di tanto in tanto quando incastravi un pezzo da 4 sopra una fila da 8. Poi mi è venuto in mente che se fossimo arrivati a casa tardi, sarei stato costretto a rifilarti per cena i bastoncini di pesce. Così mi sono fatto violenza e ti ho detto un paio di volte, senza troppa convinzione, “amore dobbiamo andare”. Tu ovviamente hai fatto finta di non sentirmi ma la bambina stronza che avevi accanto e voleva prendere il tuo posto mi ha invece sentito benissimo e senza dare troppo nell’occhio ha fatto il giro largo, si è avvicinata a me e mi ha detto “voi state andando via?” e io che non avevo colto il nesso causa/effetto ho risposto, senza capire, “sì, dovremmo”. Quella allora si è abilmente ficcata tra noi due e ha cominciato ad aggiungere pezzi a cazzo alla nostra casa che ormai era diventata già la sua casa. Tu mi hai guardato con una faccia come a dire “e questa che vuole?” e io mi sono ritrovato nell’ennesima situazione in cui i figli degli altri si comportano come io non vorrei mai tu ti comportassi e però non so come prenderli perché pare sempre questi bambini siano orfani che girano per il mondo in totale autonomia.

Ho detto allora quello che non avresti voluto sentire, ovvero “tanto, amore, dovevamo andare via” e tu hai detto “va bene” e hai abbassato lo sguardo, dicendomi la frase che io non avrei voluto sentir dire: “papà ma noi non abbiamo mai abbastanza pezzi per costruire una casa grande”. Ora, io so bene che il concetto di grande è quanto di più lontano sia dal quantificabile in termini di mattoncini eppure in quel momento ho sentito una fitta al cuore e, sebbene la tasca del mio portafoglio abbia premuto contro il mio petto per ricordarmi che questo mese ho già abbondantemente finito il mio stipendio e all’arrivo di quello nuovo manca ancora qualche giorno, non ho resistito e, ricordando quanto difficile sia stata la mia infanzia a causa dell’assenza di una quantità adeguata di Lego, ho solo sussurrato “eh, hai ragione”. Siamo allora andati entrambi dal commesso che avevamo più vicino e tu mi hai sentito dirgli la frase che ti ha fatto illuminare gli occhi. Gli ho detto “qual è la scatola più grande di mattoncini misti che avete?”.

Tornando alla macchina siamo passati davanti alla teca di Meier. C’era un gruppo rock che stava suonando all’aperto. Ci siamo seduti sugli scalini, proprio al centro della platea, poggiando davanti ai nostri piedi la scatola con la scritta “900 pezzi”. Ti ho indicato le due chitarre elettriche, la batteria e il basso e fatto indovinare il suono di ognuno. Mi hai ascoltato con molto interesse. Poi il cantante ha detto che avrebbero suonato un ultimo pezzo e ho riconosciuto immediatamente le note di Stairway to heaven. Ti ho detto che è una canzone di un gruppo che si chiamava Led Zeppelin e aggiunto che è la più bella canzone che sia mai stata scritta. Devi aver pensato che ti ho detto la stessa cosa per almeno altre venti canzoni che ho voluto ascoltassi e poi mi hai chiesto se potevamo andare a sentirli suonare dal vivo una volta. Ti ho risposto che non suonano più da un pezzo e tu mi hai chiesto “sono morti?” probabilmente pensando che tutta la gente che di solito ti faccio ascoltare è morta. Ti ho allora rassicurato che Plant, Page, Jones godono di ottima salute ma hanno smesso di suonare dopo la morte di John Bohnam, il batterista. Tu mi hai detto che è un gran peccato e io ho pensato che in macchina, al ritorno, ti avrei fatto ascoltare i Led Zeppelin. Hai poggiato la tua testa sulla mia gamba, io ti ho accarezzato i capelli e pensato quanto sia straordinario e unico avere qualcuno che ama ciò che sei e racconti e potergli regalare ogni giorno un pezzetto di te.