La leva calcistica del ‘68

La tua prima e ultima partita allo stadio è stata un disastro anche se tu la ricordi come una specie di picnic divertente, pieno di pizzette, biscotti, wafer, panini e altre mille ragioni che non hanno nulla a che fare col calcio. Gianluca si era rotto un piede a calcetto e il suo posto sarebbe rimasto vacante. Mercoledì però era il mio giorno con te e anch’io avevo deciso di disertare Roma- Atalanta. Silvia però ci ha riflettuto un po’, mostrando una passione per quell’avventura nella quale era stata coinvolta quasi controvoglia a inizio anno ormai superiore a qualunque affezione a due cari amici, e mi ha detto “ma perché non venite insieme?”, sottintendendo io e te. Tanto è bastato perché io ti proponessi questa cosa che somigliava un po’ tanto a Homer che regala a Marge una palla da bowling per il suo compleanno facendole credere sia davvero un pensiero speciale per lei. Tu ci hai riflettuto a tua volta e perplessa mi hai chiesto “e se poi mi annoio?”.  Sapevo però che non ti saresti annoiata, rapita da tutte quelle cose che ti avrebbero portata ad assaporare due ore di calcio senza calcio. Così, subito dopo scuola, la tua serata da tifosa è iniziata al supermercato dove siamo andati a prendere i panini. Eravamo già in ritardo, io sono corso al banco del pane e ti ho lasciata con Silvia all’altezza delle merendine autorizzandoti a comprare un dolcetto. Quando vi ho reincontrate alla cassa avevate preso così tante schifezze che avremmo potuto offrirle a tutta la curva.

A volte accadono cose stupefacenti quando sto con te. Una di queste è stata trovare a primo colpo, quasi senza cercarlo, un parcheggio a 500 metri dall’Olimpico. Da lì, immersi nel mare rosso di sciarpe, magliette e bandiere, ci siamo lasciati trasportare ai nostri posti. Mentre tu ti guardavi attorno curiosa, Silvia se la prendeva con gli steward e i poliziotti che le dicevano “prego signora” facendola passare ai tornelli e ai controlli, convinti fosse tua madre.
In queste occasioni, anche se spesso abbiamo scorte di cibo che potrebbero sfamare la popolazione del Ciad, tu razioni il cibo con scrupolosa osservanza lasciandoti per i momenti più importanti le cose che ti piacciono di più e non cominciando mai a mangiare prima dell’effettivo inizio. Lo fai anche al cinema, per dire. Appena arrivati compriamo il barattolone di popcorn che tu custodisci gelosamente fino all’inizio del film. E spesso, anche dopo che il film è iniziato, mi chiedi “papi ma è iniziato?”, preoccupandoti che quello che stai vedendo non sia l’ennesimo trailer. Sei fatta così. Ti piace fare le cose con ordine. Ogni cosa al momento e al posto giusto. Così hai fatto anche allo stadio. Hai aspettando l’inizio per cominciare ad attaccare le tue riserve di stuzzichini e nel frattempo mi chiedevi delle bandiere, i nomi dei calciatori e mi guardavi stupita mentre cantavo a squarciagola Roma non si discute. Io ti ho messo la mia sciarpa tra le mani e tu, quasi senza pensarci, ti sei ritrovata a mimare modi e gesti di chi ti stava intorno che ormai ti aveva assunta a mascotte.

Abbiamo sofferto tanto. Una partita brutta e lenta. A tratti sfortunata. Chi soffriva più di tutti ero io che mi sentivo schiacciato tra la voglia di esplodere nei miei soliti eccessi di entusiasmo da stadio e il desiderio di non apparirti diverso dal solito. Così a ogni azione sbagliata, a ogni errore arbitrale, a ogni fallo subito, mentre il mondo intorno si lanciava in improperi e urla forsennate, io reprimevo velocemente dentro la frustrazione e rielaboravo nel minor tempo possibile la frase sconcia che avevo sulle labbra rendendola potabile. Così tu e il resto della curva, mi avete sentito urlare cose tipo “ma che cavolo!”, “arbitro stai attento!”, tanti piccoli e innocui mannaggia. 
Quando l’Atalanta ha segnato il primo gol lo stadio si è ammutolito. I giocatori hanno ripreso la palla, ritornando a centrocampo e dopo poco il gioco è ripreso. Tu non ti sei accorta di nulla. E solo dopo 10 minuti mi hai chiesto perché sul maxischermo accanto al nome dell’Atalanta fosse apparso un 1. Tempo qualche secondo e quell’uno è diventato un 2 mentre la cifra accanto al nome della nostra squadra rimaneva invariabilmente zero.
La partita è finita così. Con la gente che andava via schifata, Silvia che tentava di raccontare qualcosa di divertente e io che ti ho fatto salire in piedi sul sedile per farti ammirare lo stadio che lentamente perdeva il rosso e guadagnava in blu.

Vedi mi son chiesto davvero cosa ricorderai di quella giornata. A lungo ci avevo pensato anche prima, dicendomi che avresti conservato i cori, l’esultanza di un gol, l’impressione di far parte di qualcosa di enorme e lontanissimo dalla vita normale. Al di là di tutto, pensavo che portarti allo stadio sarebbe stata una cosa che avresti potuto raccontare oggi, adesso, ma anche tra tanti anni, ricordando la volta che a sette anni accompagnasti tuo padre a vedere la Roma. Di sicuro non immaginavo, mentre pensavo tutto questo, che nella tua mente potesse esserci una qualche forma di identificazione in ciò che è il mio mondo e nel quale ti immaginavo solo spettatrice. Invece il mattino dopo, mentre facevi colazione e io fissavo ossessivamente l’orologio alla parete convincendomi che non ce l’avremmo mai fatta ad arrivare in tempo a scuola, mi hai stupito, facendomi commuovere. Mi hai chiesto “Papi abbiamo perso per colpa mia?”. Ovviamente sono corso a rassicurarti, chiedendoti come potessi pensare una cosa così. Tu mi hai detto “perché non avevo la maglietta, non avevo la sciarpa e non conoscevo i cori”. Io ti ho guardato come si guarda un mago che sta fluttuando nell’aria senza trucco, ti ho stretta forte forte e nel momento esatto in cui realizzavo che avrei dovuto compilare anche per quella mattina il foglio di giustificazione per l’ingresso in ritardo a scuola, ti ho detto che quando sono con te io non perdo mai e la mia squadra, che siamo io e te, gioca e vince ogni anno il campionato, la Champions e la Coppa del Mondo. Tu mi hai sorriso probabilmente capendo solo una piccola parte delle cose che avevo detto e hai aggiunto “tu però avresti voluto dire un sacco di parolacce e non le hai dette”.

Allora ho realizzato che hai capito molto più di quello che cercavo di dire, hai compreso i miei sforzi, il mio desiderio di farti conoscere tutto ciò che amo, di condividere ogni cosa con te, cercando di trovare sempre un compromesso, un modo. 
Ho realizzato che non sono le imprecazioni mascherate male, i ritardi, e nemmeno i cori che non mi sono preoccupato d’insegnarti a poter gettare ombra sulla nostra squadra, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore.
Noi indossiamo una maglietta sempre pulita, e con lei scendiamo in campo ogni giorno. Non siamo spettatori ma campioni. Giochiamo la nostra lunghissima partita, tifiamo l’uno per l’altra senza conoscere esitazione. Affrontiamo il nostro stadio, l’erba falciata da poco, le luci sulle nostre teste, e iniziamo a correre con coraggio e tutta la fantasia di cui siamo capaci, quella che serve a rendere nuova e speciale ogni cosa.
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, e tu lo vedi, mi vedi. Mi dai fiducia. Come un procuratore mi osservi e dentro di te pensi il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette.

Ti voglio bene amore mio. Perché hai solo sette anni e non giudichi il tuo calciatore preferito nemmeno quando sbaglia un rigore a porta vuota.

Because the night

Adoro quando sei al parco con le tue amichette, mi vedi arrivare da lontano, fai quella corsa a perdifiato per venirmi incontro e saltarmi in braccio, poi torni dalle tue amiche a giocare per qualche altro minuto e poi dici loro “stasera sono a Testaccio”. Mi fa ridere tantissimo.

Il tragitto da casa di tua madre a casa mia occupa di solito lo spazio di circa venti minuti. In questo spazio chiacchieriamo. Ti chiedo di raccontarmi di scuola oppure generalmente non c’è bisogno di chiederti niente perché tu rompi subito il silenzio dicendo “papi lo sai…” e cominci uno dei tuoi racconti fittissimi, nei quali spesso faccio fatica a raccapezzarmi e sono costretto, di tanto in tanto, a interromperti, facendoti spazientire, per chiedere aggiunte di trama.

Se però durante il tragitto ti vedo stanca oppure ti chiedo di raccontarmi qualcosa e tu mi dici di non averne voglia, allora ti dico “ti faccio ascoltare un pezzo che mi piace un sacco” e ne approfitto per caricare su spotify tutti i miei gruppi preferiti, mentre ti spio dallo specchietto retrovisore per vedere la faccia che fai. È così che ti ho dato in pasto tutta la mia musica migliore. Ti ho fatto ascoltare Jimi Hendrix, i Cream, i Doors, gli Who, i Led Zeppelin, i Credeence, i Free, i Ten Years After, i Blue Oyster Cult, i Velvet Underground. Ho spostato l’attenzione sul grunge e hai conosciuto i Pearl Jam, i Soundgarden, i Nirvana, gli Smashing Pumpkins, i Red Hot Chili Peppers, gli Screaming Trees e gli Alice in chains. Il cantautorato italiano: Guccini, De Andrè, De Gregori, Battiato, Gianmaria Testa, Fossati, Lolli, Daniele e Vecchioni. I grandi classici Neil Young, il boss, Johnny Cash, Lou Reed, Dylan, Bowie. Poi alla rinfusa gli Smiths, i Clash, i Radiohead, i REM, Jeff Buckley. Poi ho pensato che se avessi continuato così avresti pensato che le donne non hanno alcun accesso all’olimpo musicale di tuo padre e allora ultimamente ho cominciato a farti sentire Alanis Morissette, Dolores O’Riordan, i Fairport Convention, Janis Joplin. Ecco, di solito in tutti questi casi tu ascolti, anche con una certa curiosità, poi non mi dici niente fino al momento in cui io ti chiedo “allora? Ti è piaciuto?”. E tu rispondi distrattamente “mmm, sì”, mai particolarmente convinta.

Ultimamente pensavo di aver trovato qualcosa che avesse smosso qualcosa in te quando ho messo su Because the night di Patti Smith, perché mi hai chiesto di riascoltarla. E io felicissimo l’ho fatta ripartire dall’inizio, e poi di nuovo. Alla fine della terza esecuzione, mi hai chiesto di cosa parla la canzone e io l’ho fatta ripartire ancora una volta e ti ho tradotto qualche stralcio del testo. Pensavo che a quel punto mi avresti detto “papà questa canzone mi piace tantissimo”. Invece mi hai detto che era carina. “Come? Solo carina?” Ti ho chiesto io, ma tu eri già da un’altra parte. 

Poi però qualche giorno fa eravamo a casa mia e mi hai detto “papà vuoi sentire la mia canzone preferita?”. “Certo”, ti ho risposto, pensando che avresti tirato fuori una canzone della colonna sonora di uno dei tuoi film di animazione. Hai allora afferrato il mio telefono che era già collegato alla cassa bluetooth, aperto Spotify e senza farti scorgere hai digitato il titolo di una canzone. Dopo qualche secondo sono partite le note di una canzone che non conosco, tu hai afferrato un microfono immaginario – come ho visto fare solamente ad un’altra persona nella mia vita – e cominciato a cantare a squarciagola:

Un po’ mi manca l’aria che tirava 
O semplicemente la tua bianca schiena… nananana 
E quell’orologio non girava 
Stava fermo sempre da mattina a sera. 
come me lui ti fissava 
Io non piango mai per te 
Non farò niente di simile, no mai… nononono 
Si, lo ammetto, un po’ ti penso 
Ma mi scanso 
Non mi tocchi più
Solo che pensavo a quanto è inutile farneticare 
E credere di stare bene quando è inverno e te 
Togli le tue mani calde 
Non mi abbracci e mi ripeti che son grande, 
mi ricordi che rivivo in tante cose… nananana 

Perché la verità è che io posso provare a corromperti con tutte le mie più grandi hit e forse prima o poi troverò qualcosa che colpirà la tua attenzione e magari ti piacerà ma, al di là di tutto, tu sei una persona, con la sua individualità, il suo libero arbitrio e, soprattutto, i suoi gusti. 

E nonostante Tiziano Ferro, è davvero meraviglioso che sia così.
Presto però ti farò conoscere il blues.