Le feste di Pablo

Quando avevo più o meno la tua età, i tuoi nonni decisero di trasferire tutta la famiglia nel loro paese d’origine. Io e tuo zio eravamo bambini. Mi ricordo un pranzo, forse una cena, nella cucina con le piastrelle a fiori gialli. Tuo nonno ci chiese cosa ne pensavamo, io pensai alle vacanze. Ma quando fu più chiaro esultammo di gioia. Andare in paese era sempre una festa. I nostri nonni ad accoglierci, la libertà di poter scorrazzare in strada, il verde della collina ovunque tutto intorno. Forse non solo questo, non so. Eravamo felici. Mi ricordo il camion dei traslochi. Mi ricordo i primi tempi ammucchiati in 4 in una stanza, in attesa che la nostra casa venisse ultimata. Mi ricordo le premure di mia nonna, i pranzetti e le cene, la prima neve, il giubbotto celeste che avevo addosso e mi ricordo esattamente l’emozione, la voglia di conservarla e tenerla per quando sarebbe finita. Mi riempii le tasche di neve, poi tornai in casa. Le risate di tua nonna e della mia. 
Il resto però non fu più meraviglioso, come lo era quando andavamo in paese in vacanza. E il peggio doveva ancora arrivare.

Arrivò quando cominciò la scuola. Avevo già frequentato in città la prima. Avevo una mia idea di cosa fossero le elementari. Dovetti riadattarla con martello e scalpello per renderla vagamente simile a quello che vedevo. In classe eravamo in 14. 10 maschi e 4 femmine. Avevamo due maestre, una scuola che cadeva a pezzi, un piano didattico che faceva acqua da tutte le parti. Ricordo poche cose, tutte brutte. Non c’era la mensa ma un lunghissimo corridoio che veniva riadattato tutti i giorni. L’odore di cucinato entrava nelle aule e rimaneva nell’aria fino all’uscita. Ricordo il riposino sui banchi che eravamo costretti a fare nel pomeriggio perché le maestre potessero vedere la puntata di Beautiful alla televisione in corridoio. Ricordo le maestre (non le mie per fortuna) violente: quella che usava un righello di plastica di 50 centimetri come bacchetta, quella che ti tirava le orecchie fino a farle sanguinare. Certe volte potevamo uscire all’aperto. I maschi in pochi secondi si organizzavano per correre dietro a un pallone, le femmine usavano una delle panchine del campo da calcio come casupola dove raccontarsi segreti. Io facevo la spola tra il campo da calcio e la panchina mai convinto di quale fosse il posto mio. 

Allora volevo fare lo scienziato da grande, a limite l’inventore. Passavo pomeriggi interi a disegnare prototipi di cose che avrebbero facilitato la vita di milioni di persone, progetti che per lo più rimanevano un abbozzo su un foglio, privo com’ero di qualunque possibilità costruttiva. Gli altri maschi volevano fare il ruspista, il camionista, i più arditi forse il poliziotto. Mi sentivo e sapevo di essere diverso. Non giocavo a pallone e quando lo facevo venivo messo in porta. L’unica raccomandazione che avevo era rimanere fino alla fine della partita, per evitare di lasciare la mia squadra con un uomo in meno. Ma non riuscivo a stare dentro a qualcosa che non aveva termine, non un termine che potessi capire. Non c’erano tempi regolamentari, né una fine stabilita a chi arriva prima a 10 gol, per dire. Si giocava per giocare, così, a oltranza, fino a sera, fino a quando uno di loro non fosse stato trascinato via, fino a quando non era quasi buio o palesemente l’ora di cena. Mi annoiavo così tanto.

Tutti ricordano i tempi delle elementari come un’età dell’oro. La mia è stata un periodo lunghissimo tra un arrivo e una fuga. Non conservo cose belle di quel tempo trascorso a guardar bambini correre dietro un pallone su un campo di cemento e sassi. Volevo esplorare il mondo, cercare tesori, scavare buche o costruire case sull’albero. Non avevo mai nessuno con cui farlo. Così passavo gran parte del tempo a fantasticare e il restante a far finta di essere uno di loro. Poi arrivava il momento in cui venivo riconosciuto e finivo quasi sempre per fare a botte o estraniarmi ancora di più, spesso entrambe le cose.

Penso queste cose mentre ti guardo giocare con le tue amiche al parco. Al confronto con la mia, la tua mi pare un’infanzia dorata eppure non serve fare chissà quale esercizio di fantasia per scoprire quanto molti dei sentimenti che animavano il mio cuore e la mia mente, appartengano anche a te. Fai fatica a sentirti parte di un gruppo. Rimani spesso a osservare, in attesa che qualcuno ti trascini dentro. Te ne stai ferma e in silenzio come se avessi bisogno del permesso degli altri per correre e giocare. E qualche volta ti arrabbi, ci rimani male, ti offendi. Perché ti pare che gli altri usino i tuoi segreti, i tuoi piccoli errori o quelle perle di intimità che hai donato a una di loro, come merce qualsiasi, pastura per pesci. Non so esattamente come aiutarti. Vorrei dirti di scioglierti un po’, esser meno rigida, più simile agli altri, ma so che non servirebbe. Siamo così. 

Ora è il parco, un giro in bicicletta che perdi dietro al gruppo e ti ritrovi a fare da sola. La tua amica preziosa che rivela agli altri che ti ha visto parlare con la tua bici mentre tu stringi forte gli occhi e ti chiedi “Perché? Perché mi tradisci?”. Domani saranno le feste, quelle alle quali ti annoierai o vorrai non esser mai andata. Le feste a casa di Pablo, dove te ne starai magari a osservare, ascoltare la musica e canticchiare senza ballare. Quante ne ho viste di feste finite nel piazzale della chiesa del paese, in due, in macchina. Avessimo fumato, probabilmente ci sarebbe un una nuvola di mistero e tormento in quelle ore trascorse a raccontarsi niente. Ma le uniche nuvole di fumo erano quelle di vapore che disegnavano i nostri fiati, tra una pipì alla parete della chiesa e una buonanotte. Eppure penso che la tua grande fortuna sia non essere me. Allora è possibile anche che se vai a casa di Pablo e arrivi in ritardo, molti diranno finalmente, e tu li accoglierai con un sorriso pazzesco e completamente a tuo agio. Finisce che ti diverti e entri dentro quella bolla sospesa nella quale le notti passano come un soffio tra una risata e un sospiro. E già ti vedo che parli, racconti, ascolti e ridi, ridi ancora. Il telefono ti squilla, tu urli “sono alla festa di Pablo, vieni alla festa di Pablo, non sai quanta gente c’è”, mentre la nostra solitudine si scioglie in leggerezza che vendica tutte le notti in cui io non ero stato.

La leva calcistica del ‘68

La tua prima e ultima partita allo stadio è stata un disastro anche se tu la ricordi come una specie di picnic divertente, pieno di pizzette, biscotti, wafer, panini e altre mille ragioni che non hanno nulla a che fare col calcio. Gianluca si era rotto un piede a calcetto e il suo posto sarebbe rimasto vacante. Mercoledì però era il mio giorno con te e anch’io avevo deciso di disertare Roma- Atalanta. Silvia però ci ha riflettuto un po’, mostrando una passione per quell’avventura nella quale era stata coinvolta quasi controvoglia a inizio anno ormai superiore a qualunque affezione a due cari amici, e mi ha detto “ma perché non venite insieme?”, sottintendendo io e te. Tanto è bastato perché io ti proponessi questa cosa che somigliava un po’ tanto a Homer che regala a Marge una palla da bowling per il suo compleanno facendole credere sia davvero un pensiero speciale per lei. Tu ci hai riflettuto a tua volta e perplessa mi hai chiesto “e se poi mi annoio?”.  Sapevo però che non ti saresti annoiata, rapita da tutte quelle cose che ti avrebbero portata ad assaporare due ore di calcio senza calcio. Così, subito dopo scuola, la tua serata da tifosa è iniziata al supermercato dove siamo andati a prendere i panini. Eravamo già in ritardo, io sono corso al banco del pane e ti ho lasciata con Silvia all’altezza delle merendine autorizzandoti a comprare un dolcetto. Quando vi ho reincontrate alla cassa avevate preso così tante schifezze che avremmo potuto offrirle a tutta la curva.

A volte accadono cose stupefacenti quando sto con te. Una di queste è stata trovare a primo colpo, quasi senza cercarlo, un parcheggio a 500 metri dall’Olimpico. Da lì, immersi nel mare rosso di sciarpe, magliette e bandiere, ci siamo lasciati trasportare ai nostri posti. Mentre tu ti guardavi attorno curiosa, Silvia se la prendeva con gli steward e i poliziotti che le dicevano “prego signora” facendola passare ai tornelli e ai controlli, convinti fosse tua madre.
In queste occasioni, anche se spesso abbiamo scorte di cibo che potrebbero sfamare la popolazione del Ciad, tu razioni il cibo con scrupolosa osservanza lasciandoti per i momenti più importanti le cose che ti piacciono di più e non cominciando mai a mangiare prima dell’effettivo inizio. Lo fai anche al cinema, per dire. Appena arrivati compriamo il barattolone di popcorn che tu custodisci gelosamente fino all’inizio del film. E spesso, anche dopo che il film è iniziato, mi chiedi “papi ma è iniziato?”, preoccupandoti che quello che stai vedendo non sia l’ennesimo trailer. Sei fatta così. Ti piace fare le cose con ordine. Ogni cosa al momento e al posto giusto. Così hai fatto anche allo stadio. Hai aspettando l’inizio per cominciare ad attaccare le tue riserve di stuzzichini e nel frattempo mi chiedevi delle bandiere, i nomi dei calciatori e mi guardavi stupita mentre cantavo a squarciagola Roma non si discute. Io ti ho messo la mia sciarpa tra le mani e tu, quasi senza pensarci, ti sei ritrovata a mimare modi e gesti di chi ti stava intorno che ormai ti aveva assunta a mascotte.

Abbiamo sofferto tanto. Una partita brutta e lenta. A tratti sfortunata. Chi soffriva più di tutti ero io che mi sentivo schiacciato tra la voglia di esplodere nei miei soliti eccessi di entusiasmo da stadio e il desiderio di non apparirti diverso dal solito. Così a ogni azione sbagliata, a ogni errore arbitrale, a ogni fallo subito, mentre il mondo intorno si lanciava in improperi e urla forsennate, io reprimevo velocemente dentro la frustrazione e rielaboravo nel minor tempo possibile la frase sconcia che avevo sulle labbra rendendola potabile. Così tu e il resto della curva, mi avete sentito urlare cose tipo “ma che cavolo!”, “arbitro stai attento!”, tanti piccoli e innocui mannaggia. 
Quando l’Atalanta ha segnato il primo gol lo stadio si è ammutolito. I giocatori hanno ripreso la palla, ritornando a centrocampo e dopo poco il gioco è ripreso. Tu non ti sei accorta di nulla. E solo dopo 10 minuti mi hai chiesto perché sul maxischermo accanto al nome dell’Atalanta fosse apparso un 1. Tempo qualche secondo e quell’uno è diventato un 2 mentre la cifra accanto al nome della nostra squadra rimaneva invariabilmente zero.
La partita è finita così. Con la gente che andava via schifata, Silvia che tentava di raccontare qualcosa di divertente e io che ti ho fatto salire in piedi sul sedile per farti ammirare lo stadio che lentamente perdeva il rosso e guadagnava in blu.

Vedi mi son chiesto davvero cosa ricorderai di quella giornata. A lungo ci avevo pensato anche prima, dicendomi che avresti conservato i cori, l’esultanza di un gol, l’impressione di far parte di qualcosa di enorme e lontanissimo dalla vita normale. Al di là di tutto, pensavo che portarti allo stadio sarebbe stata una cosa che avresti potuto raccontare oggi, adesso, ma anche tra tanti anni, ricordando la volta che a sette anni accompagnasti tuo padre a vedere la Roma. Di sicuro non immaginavo, mentre pensavo tutto questo, che nella tua mente potesse esserci una qualche forma di identificazione in ciò che è il mio mondo e nel quale ti immaginavo solo spettatrice. Invece il mattino dopo, mentre facevi colazione e io fissavo ossessivamente l’orologio alla parete convincendomi che non ce l’avremmo mai fatta ad arrivare in tempo a scuola, mi hai stupito, facendomi commuovere. Mi hai chiesto “Papi abbiamo perso per colpa mia?”. Ovviamente sono corso a rassicurarti, chiedendoti come potessi pensare una cosa così. Tu mi hai detto “perché non avevo la maglietta, non avevo la sciarpa e non conoscevo i cori”. Io ti ho guardato come si guarda un mago che sta fluttuando nell’aria senza trucco, ti ho stretta forte forte e nel momento esatto in cui realizzavo che avrei dovuto compilare anche per quella mattina il foglio di giustificazione per l’ingresso in ritardo a scuola, ti ho detto che quando sono con te io non perdo mai e la mia squadra, che siamo io e te, gioca e vince ogni anno il campionato, la Champions e la Coppa del Mondo. Tu mi hai sorriso probabilmente capendo solo una piccola parte delle cose che avevo detto e hai aggiunto “tu però avresti voluto dire un sacco di parolacce e non le hai dette”.

Allora ho realizzato che hai capito molto più di quello che cercavo di dire, hai compreso i miei sforzi, il mio desiderio di farti conoscere tutto ciò che amo, di condividere ogni cosa con te, cercando di trovare sempre un compromesso, un modo. 
Ho realizzato che non sono le imprecazioni mascherate male, i ritardi, e nemmeno i cori che non mi sono preoccupato d’insegnarti a poter gettare ombra sulla nostra squadra, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore.
Noi indossiamo una maglietta sempre pulita, e con lei scendiamo in campo ogni giorno. Non siamo spettatori ma campioni. Giochiamo la nostra lunghissima partita, tifiamo l’uno per l’altra senza conoscere esitazione. Affrontiamo il nostro stadio, l’erba falciata da poco, le luci sulle nostre teste, e iniziamo a correre con coraggio e tutta la fantasia di cui siamo capaci, quella che serve a rendere nuova e speciale ogni cosa.
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, e tu lo vedi, mi vedi. Mi dai fiducia. Come un procuratore mi osservi e dentro di te pensi il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette.

Ti voglio bene amore mio. Perché hai solo sette anni e non giudichi il tuo calciatore preferito nemmeno quando sbaglia un rigore a porta vuota.

Per te

Quando avevo 16 anni usci L’albero, ficcandosi prepotentemente in ogni interstizio di pausa della mia vita di adolescente e riempiendo una miriade di pomeriggi, notti, mattine dei tre anni che seguirono. Lo ascoltai così tanto che, col passare del tempo, l’attesa per il disco successivo divenne angosciante. In fine arrivò il 10 maggio del 1999. Per comprare un disco dovevo prendere la macchina, affrontare i 30 km di curve che mi separavano dalla città, cercare parcheggio, evitando di graffiare o tamponare la macchina dei tuoi nonni, governare le pulsazioni del mio cuore per dosare abbastanza sangue nelle gambe e raggiungere il negozio di dischi in pieno centro.
Il negozio è ancora nella mia mente, così come il suo nome. Chissà se c’è ancora però. Era una botteguccia piccola con alcuni scaffali zeppi di cd, addossati l’uno all’altro e il bancone, bianco, a destra dell’entrata.

A me e tuo zio, per festeggiare l’ultimo anno di liceo, per quell’anno fu concesso di andare a scuola in macchina. Non era in realtà un vero regalo. Era più un favore che tuo nonno faceva a se stesso per evitare di dover coprire almeno un paio di volte la settimana gli 11 chilometri che separavano casa dalla scuola, nei giorni in cui l’autobus sarebbe partito più tardi. Non ricordo esattamente come andò quel lunedì ma, avendo vissuto tante altre giornate come quella, è probabile la dinamica sia stata la stessa di sempre. Te la racconterò allora così, come le altre volte. Lasciai tuo zio a casa dei nonni e probabilmente senza mangiare passai a prendere Filippo a casa sua. Insieme ci precipitammo in città. Entrammo da Top dischi, simulando indifferenza e nonchalance (all’epoca, come adesso, ci mancavano sia l’una che l’altra) e cominciammo a curiosare tra i cd esposti, non riuscendo comunque a concedere alcun tipo di interesse a nessun altro disco che quello
Il pezzo di pizza consumato senza troppa fame da Young Pizza, la passeggiata di rito lungo il corso, la consueta sosta alla casetta dei fumetti per osservare e avere tra le mani il mitico numero 1 di Dylan Dog, per quel giorno furono solo un lampo, un flash indistinto tra un viaggio di andata e una corsa di ritorno.

A casa, come ogni altra volta, rigirai numerose volte tra le mani il disco ancora incellophanato. Leggendo e rileggendo i titoli delle canzoni, le scritte piccole piccole, osservando con minuzia da incisore i dettagli dell’immagine di copertina. Poi la punta di una forbice infilata nella plastica. L’emozione di scoprire il dentro dell’oggetto, le pagine del libretto, ogni singolo dettaglio come un viaggio aspettato per 3 anni. E infine infilare il disco nel lettore, le cuffie alle orecchie, steso a letto, occhi chiusi, ascoltare, solo ascoltare.
L’albero mi aveva tenuto compagnia per così tanto tempo che Capo Horn non poteva riservarmi emozioni lontane. Ero tutto quello che sapevo. Ascoltai il disco la prima volta, poi la seconda, forse anche una terza. Probabilmente fino a quando non fui interrotto da tua nonna che mi intimava di scendere per la cena. Eppure quella che doveva essere una festa si rivelò un fallimento clamoroso. Perché nessuna delle tante aspettative che avevo riposto in quel disco era stata assecondata. Ero così deluso che quella sera non riuscii a mangiar nulla, continuando a chiedermi perché. E alla fine decisi di scrivere. 

Ero cresciuto con Jovanotti, sin dall’88 quando avevo poco più della tua età, e ascoltavo la cassetta di Jovanotti for president, implorando i nonni di comprarmi l’astuccio con la bandiera americana e la scritta “yo jovanotti”. Non era un cantante, né una star. Era uno di famiglia, dal quale non è concepibile ricevere delusioni.

Google, non ci crederai, ma esisteva da pochi mesi. Esisteva però Soleluna.com, nel quale c’era una casella per inviare messaggi. Scrissi una lunga mail di cui ho perso memoria. Ricordo però benissimo che concludevo con questa frase “ho passato gli ultimi 3 anni ascoltando L’albero e continuerò per i prossimi 3”. Poi invio.
Puoi immaginare la sorpresa quando il giorno dopo cascò nella mia casella email un messaggio proveniente da un certo Lorenzo Cherubini. 
Piangevo, tanto per fare una cosa nuova. Lorenzo mi diceva di essere dispiaciuto. Mi garantiva di avercela messa tutta. Mi proponeva di ascoltarlo ancora oppure chiedere al negoziante di riprendere il disco e ridarmi i soldi. Le lacrime che versai per l’emozione non furono nulla se confrontate a quelle che versai nei giorni successivi quando riascoltai ancora e ancora il disco e me ne innamorai perdutamente. Come avevo potuto giudicarlo così precipitosamente è un dubbio che non riesco a risolvere nemmeno oggi, a distanza di 20 anni esatti. Ma è una cosa che facciamo continuamente, la facciamo tutti.

Mi è tornata in mente questa storia ieri sera. La raccontavo a Agata e mentre la descrivevo, nel brillare dei suoi occhi indulgenti, ho pensato dovesse esserci un senso che mi era sfuggito per tutti questi anni. Poi Agata ha smesso di guardarmi e ha puntato gli occhi su un punto lontano a metà tra l’orizzonte e noi. Ha detto “dovresti riascoltarlo il Jovane” (lei lo chiama così). E così ho fatto questa mattina, dall’inizio alla fine, e alla terza volta che riascoltavo “Per te”, mi sono ricordato di domenica scorsa, quando io guardavo il derby alla tv e tu con la mia maglia di Dzeko addosso facevi i compiti. Io ogni tanto mi scaldavo per una traversa, un palo, o fuorigioco che non c’era. Tu interrompevi i tuoi compiti, ti giravi e mi urlavi “Papi stai davvero esagerando, è soltanto una partita”. Ecco, collegando tutti questi avvenimenti mi è venuto in mente che non potrò tornare indietro a tutte le volte che ho giudicato lapidariamente cose che all’apparenza mi sembravano stupide, superficiali, insensate, fatte male. Ma tu ad un certo punto mi hai insegnato che possiamo provare a farlo insieme. Perché mentre Luis Alberto al 58’ minuto pareggiava i conti e io urlavo come un disperato, tu hai deciso di fare una pausa perché probabilmente non ne potevi più di vedere tuo padre comportarsi come i maschi stupidi che pensano solo al calcio. Ti sei seduta allora sul divano accanto a me, hai cominciato ad osservare lo schermo e hai detto: “però la maglia del Lazio è molto bella”. Io ti ho fulminato con lo sguardo e tu hai sorriso.

Sono passati 20 anni dall’uscita di Capo Horn. La mia città è cambiata tantissimo, la Roma non vince un campionato da più o meno gli stessi anni, la macchina dei nonni rimane immacolata nonostante il tempo, Young Pizza si è allargato ed è diventato un ristorante enorme, Top dischi ha la stessa insegna di allora ma adesso vende soprattutto vinili e magliette, la casetta dei fumetti in Piazza Roma non c’è più anche se adesso ho il mitico numero 1 di Dylan Dog, il ragazzo che io ero e ascoltava “Per te” commosso ha avuto nel frattempo una figlia meravigliosa e ha finalmente capito quanto davvero è per te ogni cosa che c’è, ninna naaa ninna eee.