Roma capoccia

So che ti pare tutto complicato adesso. Più che complicato, a tuo sfavore. Hai l’impressione – penso – che ti stia trattando male, trascinando in qualcosa che non hai voluto né scelto e per il quale non ti ho dato alternative. Nonostante stia passando intere ore a raccontarti quanto fortunata tu sia, non riesci a toglierti di dosso l’aura di tristezza e nostalgia che ti lega a un passato recente nel quale eravamo in due, ovunque e comunque. Ora invece siamo in tre e ti sta bene, a volte anche benissimo. Ma è l’idea che ti fa star male e con la quale non riesci a venire a compromessi. L’idea che 2 non sarà mai più 2 e 3 non è divisibile per 2. Perché il tuo 2 è fatto di passeggiate, risate, scorribande, complicità, sponde nelle quali le nostre palle rimbalzano da un lato all’altro, finendo qualche volta in buca ma un istante dopo sono di nuovo sul tappeto verde pronte a rotolare allegre. Da un paio d’anni c’è però una palla in più sul nostro tavolo da gioco. È una palla verde, non so dire se sia il 6 pieno oppure il 14 mezzo. Gioca insieme a noi che siamo certamente l’1 pieno e il 9 mezzo, entrambi gialli come il sole dell’inno della Roma. Il che vuol dire che se Agata è il 6 sta tra le mie palle, se invece è il 14 sta con le tue. 

Il punto è che tu finora hai sempre pensato che Agata giocasse campionati interi con me quando tu non ci sei ma solo alcune sessioni comuni in tre, ogni tanto, senza scadenza. Invece col tempo ti ho fatto capire che voglio Agata nella nostra squadra, tutti i giorni, in un girone che non è né mio, né tuo ma nostro. Ma non è facile, come non è stato facile far nessuna delle cose che abbiamo fatto insieme e solo poi sono diventate normali. Così ti pare assurdo e complicato lasciare il nostro tavolo per passare a giocare su un tavolo nel quale possiamo muoverci meglio tutti e tre. È per questo che ti arrabbi con me e mi dici che non ne vuoi sapere. Eppure mi basta ritornare a casa e trovarvi sotto la stessa coperta abbracciate mentre guardate Maria De Filippi, per capire che non c’è nulla a tuo svantaggio in quello che stiamo facendo. Ma non riesco a convincerti che sia la cosa migliore, di fidarti di me, che ci sarò sempre e tra noi due non cambierà mai nulla a prescindere dal tappeto verde sul quale giochiamo. Fidati di me, ti ripeto fino allo sfinimento. Ma non ce la fai a sentirmelo ripetere e ti volti dal lato del finestrino mentre ti porto a scuola. 

Voglio raccontarti una cosa anche se so mi odierai perché come sempre riduco tutto a una metafora calcistica. Lo scorso dicembre giocavamo in casa contro l’Inter. Era una di quelle partite toste nelle quali sai che può succedere tutto e non escludi nemmeno il miracolo. Io, oltre al mio normale attaccamento al calcio e all’orgoglio di tifoso, speravo doppiamente di tornare a casa con una vittoria sulle labbra. Lo speravo perché Agata odia l’Inter, per ragioni sue e un po’ complicate da spiegare qui. Odia l’Inter e ama la Roma, ma soltanto perché ama me. Così volevo tornare a casa e entrare dicendo “Pelato di merda piglia e porta a casa!” che è una frase in codice che l’avrebbe fatta ridere e gioire, ubriaca insieme a me dell’euforia di una vittoria insperata. 

Insomma, loro primi in classifica, noi impantanati in una mezza classifica senza onore né gloria ma dentro la pancia dello stadio era chiara a tutti la voglia che avevamo di vincerla. Alla fine del primo tempo eravamo però già sotto di tre gol e i nostri si passavano la palla senza convinzione e senza costruire. Il disegno era di quelli sconcertanti che avrebbero potuto rivelare una disfatta simile a quella recente di Bodo o quelle più antiche e non meno pesanti contro Barcellona, Bayern, Manchester o Fiorentina. Per fortuna o per pietà dell’avversario, la partita non ha subito quella piega e a un quarto d’ora dalla fine è successo qualcosa che non avrei mai immaginato e che non avevo mai visto prima. Eravamo sconfitti, senza alcuna possibilità di recuperare il risultato. Persi in una stagione mediocre, senza ambizioni e senza midollo. Eppure la curva prende a cantare un coro che in breve contagia tutto lo stadio: Ale ale Roma ale, Ale ale Roma ale. A ripetizione, senza fine e senza senso. La partita era persa e anche le ambizioni della stagione eppure tutto lo stadio cantava a squarciagola quel coro, come una nenia infinita, dolce, malinconica, viva. Ale ale Roma ale, fino all’ultimo minuto di gioco, fino al triplice fischio dell’arbitro e oltre. Non esisteva più lo stadio, non esisteva la partita, né la sconfitta. Esisteva solo la Roma e la sua gente. Nessuno cantava più per ciò che avveniva o poteva avvenire in campo. Tutti, indistintamente, cantavano per ciò che avevano nel cuore, per la Roma. Fino a quel momento, non avevo mai capito esattamente cosa significasse il titolo del nostro inno “Roma non si discute, si ama”. Fino a quel momento, non avevo mai cantato veramente il mio amore per la Roma, insieme a migliaia di altre persone che non conosco e non conoscerò mai. Cantavo, piangevo, incespicavo nelle poche sillabe di quel ritornello, poi ricominciavo. Cantavo, piangevo, amavo. Una passione così duratura, lunga, che legava il 90 per cento della mia esistenza a una squadra. Un bambino di 7 anni che scopre il calcio, un quarantenne felice che ama allo stesso modo e con la stessa forza di cent’anni fa.

Perché ti ho raccontato questo? Non lo so esattamente ma so per certo che significa qualcosa. Perché ti può sembrare di vincere o che tu abbia tutte le carte in regola per sperarci. A volte puoi anche perdere sonoramente, prendere schiaffi che ti suoneranno nelle orecchie per tutta la vita. Ma l’amore, l’amore non finisce mai e io te lo canterò sempre, fino all’ultimo respiro che mi sarà concesso per ricordartelo, ricordarti che al di là delle sconfitte o delle vittorie, esiste sempre l’amore. Anche se adesso ti sembra banalotto e già sentito, fidati di me. Perché questo amore è tutto ciò che ci rimarrà nei momenti complicati che ci sono e che verranno. L’unico calmante che ci farà sentire di nuovo bene quando ci sentiremo soli, in ansia, preoccupati o tristi. Il coraggio che ci servirà quando avremo paura. Fidati di me, perché sono il tifoso più accanito, più assiduo, più scalmanato che c’è.

La leva calcistica del ‘68

La tua prima e ultima partita allo stadio è stata un disastro anche se tu la ricordi come una specie di picnic divertente, pieno di pizzette, biscotti, wafer, panini e altre mille ragioni che non hanno nulla a che fare col calcio. Gianluca si era rotto un piede a calcetto e il suo posto sarebbe rimasto vacante. Mercoledì però era il mio giorno con te e anch’io avevo deciso di disertare Roma- Atalanta. Silvia però ci ha riflettuto un po’, mostrando una passione per quell’avventura nella quale era stata coinvolta quasi controvoglia a inizio anno ormai superiore a qualunque affezione a due cari amici, e mi ha detto “ma perché non venite insieme?”, sottintendendo io e te. Tanto è bastato perché io ti proponessi questa cosa che somigliava un po’ tanto a Homer che regala a Marge una palla da bowling per il suo compleanno facendole credere sia davvero un pensiero speciale per lei. Tu ci hai riflettuto a tua volta e perplessa mi hai chiesto “e se poi mi annoio?”.  Sapevo però che non ti saresti annoiata, rapita da tutte quelle cose che ti avrebbero portata ad assaporare due ore di calcio senza calcio. Così, subito dopo scuola, la tua serata da tifosa è iniziata al supermercato dove siamo andati a prendere i panini. Eravamo già in ritardo, io sono corso al banco del pane e ti ho lasciata con Silvia all’altezza delle merendine autorizzandoti a comprare un dolcetto. Quando vi ho reincontrate alla cassa avevate preso così tante schifezze che avremmo potuto offrirle a tutta la curva.

A volte accadono cose stupefacenti quando sto con te. Una di queste è stata trovare a primo colpo, quasi senza cercarlo, un parcheggio a 500 metri dall’Olimpico. Da lì, immersi nel mare rosso di sciarpe, magliette e bandiere, ci siamo lasciati trasportare ai nostri posti. Mentre tu ti guardavi attorno curiosa, Silvia se la prendeva con gli steward e i poliziotti che le dicevano “prego signora” facendola passare ai tornelli e ai controlli, convinti fosse tua madre.
In queste occasioni, anche se spesso abbiamo scorte di cibo che potrebbero sfamare la popolazione del Ciad, tu razioni il cibo con scrupolosa osservanza lasciandoti per i momenti più importanti le cose che ti piacciono di più e non cominciando mai a mangiare prima dell’effettivo inizio. Lo fai anche al cinema, per dire. Appena arrivati compriamo il barattolone di popcorn che tu custodisci gelosamente fino all’inizio del film. E spesso, anche dopo che il film è iniziato, mi chiedi “papi ma è iniziato?”, preoccupandoti che quello che stai vedendo non sia l’ennesimo trailer. Sei fatta così. Ti piace fare le cose con ordine. Ogni cosa al momento e al posto giusto. Così hai fatto anche allo stadio. Hai aspettando l’inizio per cominciare ad attaccare le tue riserve di stuzzichini e nel frattempo mi chiedevi delle bandiere, i nomi dei calciatori e mi guardavi stupita mentre cantavo a squarciagola Roma non si discute. Io ti ho messo la mia sciarpa tra le mani e tu, quasi senza pensarci, ti sei ritrovata a mimare modi e gesti di chi ti stava intorno che ormai ti aveva assunta a mascotte.

Abbiamo sofferto tanto. Una partita brutta e lenta. A tratti sfortunata. Chi soffriva più di tutti ero io che mi sentivo schiacciato tra la voglia di esplodere nei miei soliti eccessi di entusiasmo da stadio e il desiderio di non apparirti diverso dal solito. Così a ogni azione sbagliata, a ogni errore arbitrale, a ogni fallo subito, mentre il mondo intorno si lanciava in improperi e urla forsennate, io reprimevo velocemente dentro la frustrazione e rielaboravo nel minor tempo possibile la frase sconcia che avevo sulle labbra rendendola potabile. Così tu e il resto della curva, mi avete sentito urlare cose tipo “ma che cavolo!”, “arbitro stai attento!”, tanti piccoli e innocui mannaggia. 
Quando l’Atalanta ha segnato il primo gol lo stadio si è ammutolito. I giocatori hanno ripreso la palla, ritornando a centrocampo e dopo poco il gioco è ripreso. Tu non ti sei accorta di nulla. E solo dopo 10 minuti mi hai chiesto perché sul maxischermo accanto al nome dell’Atalanta fosse apparso un 1. Tempo qualche secondo e quell’uno è diventato un 2 mentre la cifra accanto al nome della nostra squadra rimaneva invariabilmente zero.
La partita è finita così. Con la gente che andava via schifata, Silvia che tentava di raccontare qualcosa di divertente e io che ti ho fatto salire in piedi sul sedile per farti ammirare lo stadio che lentamente perdeva il rosso e guadagnava in blu.

Vedi mi son chiesto davvero cosa ricorderai di quella giornata. A lungo ci avevo pensato anche prima, dicendomi che avresti conservato i cori, l’esultanza di un gol, l’impressione di far parte di qualcosa di enorme e lontanissimo dalla vita normale. Al di là di tutto, pensavo che portarti allo stadio sarebbe stata una cosa che avresti potuto raccontare oggi, adesso, ma anche tra tanti anni, ricordando la volta che a sette anni accompagnasti tuo padre a vedere la Roma. Di sicuro non immaginavo, mentre pensavo tutto questo, che nella tua mente potesse esserci una qualche forma di identificazione in ciò che è il mio mondo e nel quale ti immaginavo solo spettatrice. Invece il mattino dopo, mentre facevi colazione e io fissavo ossessivamente l’orologio alla parete convincendomi che non ce l’avremmo mai fatta ad arrivare in tempo a scuola, mi hai stupito, facendomi commuovere. Mi hai chiesto “Papi abbiamo perso per colpa mia?”. Ovviamente sono corso a rassicurarti, chiedendoti come potessi pensare una cosa così. Tu mi hai detto “perché non avevo la maglietta, non avevo la sciarpa e non conoscevo i cori”. Io ti ho guardato come si guarda un mago che sta fluttuando nell’aria senza trucco, ti ho stretta forte forte e nel momento esatto in cui realizzavo che avrei dovuto compilare anche per quella mattina il foglio di giustificazione per l’ingresso in ritardo a scuola, ti ho detto che quando sono con te io non perdo mai e la mia squadra, che siamo io e te, gioca e vince ogni anno il campionato, la Champions e la Coppa del Mondo. Tu mi hai sorriso probabilmente capendo solo una piccola parte delle cose che avevo detto e hai aggiunto “tu però avresti voluto dire un sacco di parolacce e non le hai dette”.

Allora ho realizzato che hai capito molto più di quello che cercavo di dire, hai compreso i miei sforzi, il mio desiderio di farti conoscere tutto ciò che amo, di condividere ogni cosa con te, cercando di trovare sempre un compromesso, un modo. 
Ho realizzato che non sono le imprecazioni mascherate male, i ritardi, e nemmeno i cori che non mi sono preoccupato d’insegnarti a poter gettare ombra sulla nostra squadra, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore.
Noi indossiamo una maglietta sempre pulita, e con lei scendiamo in campo ogni giorno. Non siamo spettatori ma campioni. Giochiamo la nostra lunghissima partita, tifiamo l’uno per l’altra senza conoscere esitazione. Affrontiamo il nostro stadio, l’erba falciata da poco, le luci sulle nostre teste, e iniziamo a correre con coraggio e tutta la fantasia di cui siamo capaci, quella che serve a rendere nuova e speciale ogni cosa.
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, e tu lo vedi, mi vedi. Mi dai fiducia. Come un procuratore mi osservi e dentro di te pensi il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette.

Ti voglio bene amore mio. Perché hai solo sette anni e non giudichi il tuo calciatore preferito nemmeno quando sbaglia un rigore a porta vuota.