Piccola città

Qualche volta mi fermo dopo una lunga corsa, mentre ho raggiunto una radura nel folto di un bosco. Guardo da ogni lato e mi pare che quel posto non abbia strade o direzioni, sia come isolato dal resto del mondo e rimane un mistero come io l’abbia raggiunto. C’è pace, fa fresco, si sta bene. La luce del sole filtra dall’alto degli alberi, si sentono gli uccelli che cantano e il materasso di foglie accumulate da millenni sotto i piedi dà la piacevole sensazione di un luogo mai visto e accogliente. Allora resto fermo per un po’. Bevo un sorso d’acqua. Guardo gli alberi come in attesa di sentirli parlare. Viene voglia di stendersi sotto il più grande di loro, ospitale e protettivo. E sto quasi per farlo, quando mi stana il dubbio che restare porterebbe con sé anche i pericoli e i misteri della notte. Allora mi muovo, ignorando quanto sia poi bello godersi l’istante di pausa che divide una corsa dall’altra, il prima dal dopo. Scelgo una direzione e la seguo e dopo qualche istante la radura è diventata un punto indistinguibile nel passato di un’escursione, irraggiungibile da me e da chiunque altro, per chissà quanto.
È andata così anche domenica scorsa. Mauro mi ha chiesto di ritornare in montagna. Io ero al supermercato mentre ascoltavo il suo vocale. Mi sono fermato davanti al banco dei salumi e ho chiesto del prosciutto e due panini. Avevo così tanta voglia di tornare in montagna che mi tremavano le ginocchia dall’emozione. Eppure, dopo pochissimi chilometri dall’inizio del sentiero, ho capito che le mie gambe non erano più le stesse che mi avevano portato per così tanti chilometri fino a Santiago, soltanto qualche mese fa. E il mio cuore non pompava lo stesso sangue e la mia testa non era in grado di guardare l’orizzonte indovinando il cammino, la cima, l’arrivo. Ero improvvisamente stanco e per la prima volta da quando ho imparato ad amare la montagna, ho avuto voglia di tornare indietro. 

Mauro aveva calcolato male le distanze e invece di affidarsi ad una mappa, aveva delegato a un’app il compito di condurci lungo il percorso ad anello che cingeva la montagna. Io mi ero invece affidato a lui. Dopo qualche chilometro di sentiero dolce tra i pascoli, abbiamo tagliato nel bosco, perdendo ogni traccia di segnavia. Se era la vetta che cercavamo, dovevamo andare verso l’alto e così abbiamo cominciato letteralmente a scalare un dirupo di faggi. Ero così stanco che alla terza volta che sono scivolato, ritrovandomi lungo sulle foglie marroni e nere e gli arbusti spezzati dal mio peso, ho pensato che non mi sarei mai più rialzato. Eppure, come accade spesso in montagna, nonostante tutto, arrivi in cima. Lì c’erano altre tre persone attorno alla croce che hanno subito cominciato a parlare con Mauro. Io ho poggiato lo zaino, ho aspettato che tornasse per mangiare insieme a lui e poi, senza una parola, mi sono steso e addormentato. Ero convinto di avere già affrontato la parte dura del cammino, quando la montagna ti mette alla prova e ti chiede di dimostrarle se davvero meriti la sua vetta. Mi sbagliavo. Il ritorno è stato come una ritirata in un territorio disseminato di trappole. L’app di Mauro ci ha portato lontanissimi dall’inizio del cammino, per poi farci tagliare attraverso l’ennesimo bosco fittissimo di faggi, giù in picchiata lungo la cresta della montagna. Le ginocchia stavano impazzendo e l’unica racchetta che avevo portato, non mi aiutava a evitare che scivolassi, slittando per metri sulle foglie umide del sottobosco. Poi Mauro, che era più avanti di me, ha urlato “eccolo, lo abbiamo trovato!”, intendendo il sentiero. Io non ho risposto, limitandomi a seguirlo. 

È stato poco dopo che, senza rendermene conto, ho scoperto di essere arrivato nella stanza della pace. I faggi puntavano verso l’alto chiudendo la stanza sotto una volta puntinata di scintille. A terra foglie e radici, come un dipinto medievale. Gli uccelli nascosti fischiettavano allegri e io ero solo. Mi sono seduto su un masso, guardandomi attorno come dentro le mura di casa. Non c’era porta d’ingresso né via d’uscita. Era l’inizio e la fine. Dove devo andare? Ho chiesto senza paura agli alberi che non hanno risposto o forse sì, senza che potessi ascoltarli. E a quelle voci senza suono avrei voluto chiedere tante altre cose. Chissà se fossi rimasto ancora, se non avessi improvvisamente pensato che la notte, i lupi o altri pericoli, sarebbero arrivati di lì a poco per sbranarmi. Chissà se sarei riuscito ad ascoltare i consigli degli alberi, cedere quella stanchezza riprendendo linfa e vigore. Ho invece inventato una direzione e l’ho seguita, reincontrando Mauro poco dopo e lasciandomi trascinare verso l’arrivo.

Perché ti racconto tutto questo, oggi? Forse perché, amore, a volte le pause ti trovano anche se non le cerchi ma il fatto che ti trovino non le rende necessariamente utili. Vorrei insegnarti a riconoscerle e amarle, dare loro l’attenzione che chiedono, e prender da loro tutto ciò che vogliono offrirti. Ma siamo ciò che ricordiamo e spesso, troppo spesso, paure, ansie e tentennamenti ci spingono verso una direzione, anche quando c’è una radice di faggio a forma di sedile pronta ad accoglierci per lasciarci riprendere forza e fiato. Ecco, solo per dirti, amore mio: qualche volta fermarsi è utile, necessario, certe volte persino meglio. Fermarsi per guardare e riconoscersi ancora capaci di stupirsi della bellezza del paesaggio, del verde delle foglie, del calore della luce, del conforto di un’ombra, del ristoro di un sorso d’acqua. 

La verità

Mi sei mancata, tanto. Ma ti ho sentita così vicino che delle volte mi pareva di vederti e poterti parlare. E poi in genere ad un certo punto della giornata arrivavano le tue videochiamate. Io ficcavo il mio faccione nei 5 pollici del telefono e tu dall’altra parte sorridevi e mi chiedevi “stai camminando?”, anche se magari erano le nove di sera. Poi commentavi la mia barba lunga e mi facevi girare il telefono per farti vedere esattamente dov’ero.

Il giorno che stavo per arrivare alla fine, ero così commosso che ho cominciato a piangere a 5 chilometri dall’arrivo. Lì, a quella distanza, c’è l’ultima collina, il Monte do Gozo che in galiziano significa il monte della gioia perché da lì si ammira la vallata antistante ed è il luogo dove i pellegrini capiscono di essere arrivati alla meta e si lasciano andare ad una gioia disperata. È successa la stessa cosa anche a me, pur non vedendo nulla perché c’era nebbia e pioveva. Ho fatto comunque la piccola deviazione che mi ha portato nel punto più alto e mi sono fermato qualche minuto a contemplare la valle antistante avvolta nel bianco. Lì ho cominciato a piangere perché ho capito che ce l’avevo davvero fatta. Ho preso la discesa verso la città ma lentamente, lentissimo, perché non volevo finisse quella sensazione meravigliosa che mi riempiva il petto. Mi sentivo così pieno di gioia ed emozione, mentre le ginocchia tremavano ad ogni passo. E quando sono arrivato alla periferia della città, mi sono fermato sotto al cartello stradale con la scritta “Santiago” e volevo farmi un selfie ma tremavo e il telefono, per la pioggia, mi scivolava dalle mani. Una coppia è arrivata in quel momento ed era emozionata quanto me. Erano spagnoli e abbiamo cominciato a parlare come se avessimo fatto tutto il viaggio insieme, riempiendo le frasi dell’euforia di una vittoria. Veniva voglia di abbracciarsi ma ci siamo limitati a darci delle pacche sulle spalle, sugli zaini. Poi loro hanno scattato una foto a me e io a loro. Sono rimasto allora qualche minuto solo, a contemplare il cartello che avevo davanti. Ero arrivato, ce l’avevo fatta.

Mi sono ficcato le cuffie nelle orecchie e ho premuto play sulla canzone che avevo scelto per celebrare quel momento. E mentre mi addentravo lentamente, lentissimo, dentro la città vecchia continuavo ad ascoltare La verità. E mentre l’ascoltavo, ripetendo a memoria ogni singola strofa, mi rendevo conto di quanto non fossi più il protagonista di quella canzone, non più. Avevo scelto di percorrere il Cammino Primitivo, avevo sfidato sorte, montagne, clima e soprattutto me stesso e avevo vinto. Avevo fatto tutto da solo, per la prima volta. Ed ero fiero di me.
Ho percorso gli ultimi metri tra la gente che mi passava accanto indifferente, continuando a piangere e a stringere l’emozione nei manici delle racchette. E poi ho svoltato l’angolo ed è apparsa lì davanti a me, enorme e imperiosa, sontuosa e cinica, austera e brillante la Cattedrale. Era lì e sembrava fosse stata costruita esattamente per quel momento, nell’attesa che io potessi inchinarmi al suo cospetto e lasciarmi andare al mio ultimo passo. 
Ho lasciato che lo zaino che per lungo tempo era stata la mia casa crollasse al suolo, così come le racchette e mi sono accasciato anch’io. Ce l’avevo fatta e avevo vinto. 

Mancava un’ultima cosa però. Chiamarti per dedicarti quella vittoria. Ho allora preso il telefono e tra le lacrime ho composto il numero di tua madre. Hai risposto tu con il tuo “papi” squillante e io nascondendo l’emozione ti ho detto quasi urlando “amore ce l’ho fatta” e tu hai capito e mi hai detto “papi sei stato bravissimo” e io ho pensato che se avevo potuto percorrere 315 chilometri a piedi, arrivando addirittura a Santiago con un giorno d’anticipo, se avevo potuto superare ben 8 mila metri di dislivello, sopravvivere al dolore alle ginocchia, quello ai piedi, alle anche, alle spalle, alla schiena, alle cosce, ai polpacci e alle caviglie, se avevo camminato così tanto e così bene era perché tu eri sempre stata al mio fianco e in quel preciso istante ho realizzato che insieme a te potrò affrontare ogni altra impresa che la vita mi riserverà: perché se cammini da solo vai più veloce,
ma insieme vai più lontano.

C’è una cosa che il cammino mi ha insegnato e che davvero vorrei raccontarti: il tuo zaino è la tua casa perché contiene tutto quello di cui hai bisogno. Non può essere troppo pesante perché ti affosserebbe ma non puoi nemmeno svuotarlo perché non sopravviveresti. Lo zaino è una delle due certezze che hai, la seconda è che quando apri gli occhi al mattino dovrai camminare. Tutto il resto è incerto. Quando arriverai, cosa incontrerai per il cammino, cosa mangerai, dove, con chi, se pioverà farà freddo oppure un sole cocente ti brucerà le braccia, se incontrerai una fontana per rinfrescarti o un bar solitario per ristorarti, se cadrai facendoti male o se le tue gambe ti abbandoneranno, sono tutte incognite alle quali potrai dare risposta solo camminando, andando, come si dice in spagnolo. E tutto questo, è una metafora perfetta della vita. Nessuno sa esattamente dove ci porterà. Nello zaino ci sono i ricordi e tutta la nostra storia, l’altra certezza è che bisogna camminare. Perché il cammino è la meta. Cerca di ricordartelo, amore mio, tutte le volte che ti verrà voglia di pensare che arriverà un momento migliore. La vita è nonostante tutto, purtroppo, per fortuna, adesso.

Stairway to heaven

Oggi ti ho costretta a fare una passeggiata in centro. Quando c’è di mezzo il verbo camminare è d’obbligo anche quello costringere. Perché sei pigra e fai risultare muoversi per qualche centinaia di metri un’impresa degna di un maratoneta. 

Ciò che in assoluto invece ti piace di più è lamentarti. Lamentarti del caldo, del freddo, della fame, della sete, del traffico, del rumore, della difficoltà di trovare parcheggio a Roma e, appunto, delle distanze incolmabili che separano i nostri intenti dagli obiettivi che ci proponiamo. Ultimamente hai inoltre una grande passione per i numeri e vorresti che ti raccontassi con estrema precisione quanti sampietrini scorrono sotto le suole delle nostre scarpe, quant’acqua contiene il Tevere, quante macchine ci sono, gli abitanti di Roma (sì ma tutti tutti, non solo quelli che ci sono oggi, quelli dalla fondazione in poi). Così, da quando ti ho fatto vedere un’app che ho sul mio telefono e che conta con “esattezza” quanti passi faccio ogni giorno, ti si è aperto un mondo. Adesso quando camminiamo, ogni trenta metri mi chiedi “papà puoi controllare quanti passi abbiamo fatto?” e lo chiedi con tale cadenza, che solitamente io prendo il telefono in mano, guardo l’ora sul bloccaschermo e ti rispondo cifre a casaccio, causando quello spiacevole disguido dell’essere preso in castagna ogni volta che pronuncio per errore un numero inferiore ad uno di quelli che ti avevo detto una delle volte precedenti.

L’obiettivo della giornata era raggiungere il Lego Store a via Tomacelli per comprare un portachiavi da regalare a tua madre che oggi aveva il rogito della sua nuova casa. Il problema a monte – ovviamente – è stato trovare un buco dove ficcare la macchina ma tu, per fortuna, ti sei addormentata e così ho potuto trascorrere in tranquillità i 40 minuti che mi ci sono voluti per trovare un parcheggio a 1 chilometro e centro metri (milleecento metri, centodiecimila in centimetri) dal negozio. Una volta lì, mi è sembrato quasi un sogno poter scegliere in 5 minuti due portachiavi (uno per tua madre e uno per te che non hai un mazzo di chiavi ma hai assolutamente bisogno di un portachiavi) e dedicarci poi alla perlustrazione dello store. Ecco, io non te l’ho detto perché devo avertelo detto così tante volte che ho dato per scontato mi avresti risposto “papà già lo so”, ma i Lego sono i miei giochi preferiti, da sempre. Non credo però i miei genitori mi abbiano mai concesso da piccolo il lusso di avere un mio set, anche minimo. Così sono cresciuto pensando ai mattoncini del Lego come un islandese può pensare alle giornate di sole. È stato per questo che quando tu ti sei fermata davanti al tavolo da gioco e hai cominciato a costruire una casa afferrando alla rinfusa i mattoncini dalla vasca enorme che avevi davanti, in quel suono inconfondibile di Lego smossi, il mio cuore ha pulsato come fosse passata Scarlett Johansson e mi avesse fatto l’occhiolino. Mi sono inginocchiato accanto a te e ho cominciato ad aiutarti, bacchettandoti di tanto in tanto quando incastravi un pezzo da 4 sopra una fila da 8. Poi mi è venuto in mente che se fossimo arrivati a casa tardi, sarei stato costretto a rifilarti per cena i bastoncini di pesce. Così mi sono fatto violenza e ti ho detto un paio di volte, senza troppa convinzione, “amore dobbiamo andare”. Tu ovviamente hai fatto finta di non sentirmi ma la bambina stronza che avevi accanto e voleva prendere il tuo posto mi ha invece sentito benissimo e senza dare troppo nell’occhio ha fatto il giro largo, si è avvicinata a me e mi ha detto “voi state andando via?” e io che non avevo colto il nesso causa/effetto ho risposto, senza capire, “sì, dovremmo”. Quella allora si è abilmente ficcata tra noi due e ha cominciato ad aggiungere pezzi a cazzo alla nostra casa che ormai era diventata già la sua casa. Tu mi hai guardato con una faccia come a dire “e questa che vuole?” e io mi sono ritrovato nell’ennesima situazione in cui i figli degli altri si comportano come io non vorrei mai tu ti comportassi e però non so come prenderli perché pare sempre questi bambini siano orfani che girano per il mondo in totale autonomia.

Ho detto allora quello che non avresti voluto sentire, ovvero “tanto, amore, dovevamo andare via” e tu hai detto “va bene” e hai abbassato lo sguardo, dicendomi la frase che io non avrei voluto sentir dire: “papà ma noi non abbiamo mai abbastanza pezzi per costruire una casa grande”. Ora, io so bene che il concetto di grande è quanto di più lontano sia dal quantificabile in termini di mattoncini eppure in quel momento ho sentito una fitta al cuore e, sebbene la tasca del mio portafoglio abbia premuto contro il mio petto per ricordarmi che questo mese ho già abbondantemente finito il mio stipendio e all’arrivo di quello nuovo manca ancora qualche giorno, non ho resistito e, ricordando quanto difficile sia stata la mia infanzia a causa dell’assenza di una quantità adeguata di Lego, ho solo sussurrato “eh, hai ragione”. Siamo allora andati entrambi dal commesso che avevamo più vicino e tu mi hai sentito dirgli la frase che ti ha fatto illuminare gli occhi. Gli ho detto “qual è la scatola più grande di mattoncini misti che avete?”.

Tornando alla macchina siamo passati davanti alla teca di Meier. C’era un gruppo rock che stava suonando all’aperto. Ci siamo seduti sugli scalini, proprio al centro della platea, poggiando davanti ai nostri piedi la scatola con la scritta “900 pezzi”. Ti ho indicato le due chitarre elettriche, la batteria e il basso e fatto indovinare il suono di ognuno. Mi hai ascoltato con molto interesse. Poi il cantante ha detto che avrebbero suonato un ultimo pezzo e ho riconosciuto immediatamente le note di Stairway to heaven. Ti ho detto che è una canzone di un gruppo che si chiamava Led Zeppelin e aggiunto che è la più bella canzone che sia mai stata scritta. Devi aver pensato che ti ho detto la stessa cosa per almeno altre venti canzoni che ho voluto ascoltassi e poi mi hai chiesto se potevamo andare a sentirli suonare dal vivo una volta. Ti ho risposto che non suonano più da un pezzo e tu mi hai chiesto “sono morti?” probabilmente pensando che tutta la gente che di solito ti faccio ascoltare è morta. Ti ho allora rassicurato che Plant, Page, Jones godono di ottima salute ma hanno smesso di suonare dopo la morte di John Bohnam, il batterista. Tu mi hai detto che è un gran peccato e io ho pensato che in macchina, al ritorno, ti avrei fatto ascoltare i Led Zeppelin. Hai poggiato la tua testa sulla mia gamba, io ti ho accarezzato i capelli e pensato quanto sia straordinario e unico avere qualcuno che ama ciò che sei e racconti e potergli regalare ogni giorno un pezzetto di te.

Aloe Aloe

Hai cominciato a parlare tardi. Così tardi che io e tua madre eravamo preoccupati al punto da chiederci se non fosse il caso di farti vedere da uno specialista. Non avevamo invece capito che avresti cominciato a parlare soltanto quando ti saresti sentita completamente pronta, come d’altronde hai fatto con tutto il resto delle cose da imparare: camminare, andare sui pattini, in bicicletta o più tardi leggere e scrivere.

Nel frattempo, osservavi avidamente. Con una curiosità che metti in tutto ciò che fai.

Quando eri piccola piccola, per esempio, ti piaceva passare intere ore seduta sulle mie gambe. Mi portavi un libro con gli animali e volevi che ti elencassi i nomi di ognuno di loro. Tu sfogliavi il libro e per ogni pagina all’animale precedente se ne aggiungeva uno nuovo. Tu poggiavi il tuo dito cicciotto  sull’animale, io dovevo enunciarne il nome. Elefante, canguro, rana, giraffa, castoro, rinoceronte, asino, maiale, coniglio, zebra. E a mano a mano che ci avvicinavamo alla fine del libro gli animali erano diventati tantissimi e si erano messi in fila per salire sul dorso di una balena per andare a fare un salto mortale in mezzo al mare. Il gioco poteva andare avanti per ore e io ogni volta provavo ad arricchirlo di particolari nuovi, per non annoiarti. Davo voci agli animali, li facevo dialogare tra di loro ma a te ciò che davvero interessava era ascoltare i loro nomi. 

Soltanto più tardi ho capito che stavi imparando la geografia della fauna mondiale, in silenzio, senza scalpore, quasi di nascosto. È stato così che un giorno a casa dei tuoi nonni, davanti alla tv accesa su un documentario, ti ho visto indicare la schermo e pronunciare perfettamente la parola elefante. Da un giorno all’altro hai cominciato a parlare e sembravi un libro stampato, perché sapevi pronunciare ogni parola senza imperfezioni: le erre erano erre e tutte le altre lettere non subivano alcuna perdita infantile. Non solo, improvvisamente mi resi conto che conoscevi una quantità impressionante di animali: della savana, della giungla, della fattoria. 

Ma accanto alle parole che avevi imparato ascoltandole e forse ripetendotele dentro, ne avevi inventate altre il cui significato hai conosciuto sempre solo tu. Erano parole curiose che io e tua madre provavamo ad accostare ad azioni, cose, sentimenti ma non c’era verso, perché quelle parole costituivano un linguaggio segreto di cui solo tu possedevi il codice per decodificarle.

Una di queste sembrava una formula magica che recitava più o meno così: a bedda dedda. Sembrava quasi siciliano ma non era in alcun modo collegabile a qualcosa di specifico. Decidevi tu quando pronunciarla e per cosa, mentre noi sfuggivamo puntualmente alla sua collocazione spazio/temporale. Ma era bello chiudere o aprire un discorso con questa espressione, quasi a suggellare la dimensione magica di tutto ciò che veniva prima o dopo. L’altra formula che adoravi ripetere era Aloe Aloe che poteva essere usata in alternativa o insieme ad a bedda dedda. E se ti chiedevamo “amore cosa significa a bedda dedda?” non c’era niente di più facile che tu rispondessi “aloe aloe”.

E adesso, a distanza di qualche anno che non ti sento più pronunciare nessuna delle due formule, mi sono ritornate in mente e ti ho chiesto se le ricordavi. Mi hai detto di no e ti sei messa a ridere schermendoti un po’ e lasciandomi l’impressione che non volessi ancora oggi rivelarmene il significato. Allora ci ho riflettuto un po’ e mi è venuto in mente che sarebbe bello poter usare espressioni il cui significato conosciamo solo noi e che contengano in loro il potere di dare una forma, una dimensione, a tutto ciò che non capiamo bene o ci fa male. 

È stato così mi sono concentrato più forte che potevo e ho provato a racchiudere nella sintassi sconosciuta delle tue due espressioni ciò che sentivo. Ho chiuso gli occhi, fatto un bel respiro e pronunciato ad alta voce: A bedda dedda, aloe aloe! E non so perché, ma mi sono sentito improvvisamente meglio.