Aloe Aloe

Hai cominciato a parlare tardi. Così tardi che io e tua madre eravamo preoccupati al punto da chiederci se non fosse il caso di farti vedere da uno specialista. Non avevamo invece capito che avresti cominciato a parlare soltanto quando ti saresti sentita completamente pronta, come d’altronde hai fatto con tutto il resto delle cose da imparare: camminare, andare sui pattini, in bicicletta o più tardi leggere e scrivere.

Nel frattempo, osservavi avidamente. Con una curiosità che metti in tutto ciò che fai.

Quando eri piccola piccola, per esempio, ti piaceva passare intere ore seduta sulle mie gambe. Mi portavi un libro con gli animali e volevi che ti elencassi i nomi di ognuno di loro. Tu sfogliavi il libro e per ogni pagina all’animale precedente se ne aggiungeva uno nuovo. Tu poggiavi il tuo dito cicciotto  sull’animale, io dovevo enunciarne il nome. Elefante, canguro, rana, giraffa, castoro, rinoceronte, asino, maiale, coniglio, zebra. E a mano a mano che ci avvicinavamo alla fine del libro gli animali erano diventati tantissimi e si erano messi in fila per salire sul dorso di una balena per andare a fare un salto mortale in mezzo al mare. Il gioco poteva andare avanti per ore e io ogni volta provavo ad arricchirlo di particolari nuovi, per non annoiarti. Davo voci agli animali, li facevo dialogare tra di loro ma a te ciò che davvero interessava era ascoltare i loro nomi. 

Soltanto più tardi ho capito che stavi imparando la geografia della fauna mondiale, in silenzio, senza scalpore, quasi di nascosto. È stato così che un giorno a casa dei tuoi nonni, davanti alla tv accesa su un documentario, ti ho visto indicare la schermo e pronunciare perfettamente la parola elefante. Da un giorno all’altro hai cominciato a parlare e sembravi un libro stampato, perché sapevi pronunciare ogni parola senza imperfezioni: le erre erano erre e tutte le altre lettere non subivano alcuna perdita infantile. Non solo, improvvisamente mi resi conto che conoscevi una quantità impressionante di animali: della savana, della giungla, della fattoria. 

Ma accanto alle parole che avevi imparato ascoltandole e forse ripetendotele dentro, ne avevi inventate altre il cui significato hai conosciuto sempre solo tu. Erano parole curiose che io e tua madre provavamo ad accostare ad azioni, cose, sentimenti ma non c’era verso, perché quelle parole costituivano un linguaggio segreto di cui solo tu possedevi il codice per decodificarle.

Una di queste sembrava una formula magica che recitava più o meno così: a bedda dedda. Sembrava quasi siciliano ma non era in alcun modo collegabile a qualcosa di specifico. Decidevi tu quando pronunciarla e per cosa, mentre noi sfuggivamo puntualmente alla sua collocazione spazio/temporale. Ma era bello chiudere o aprire un discorso con questa espressione, quasi a suggellare la dimensione magica di tutto ciò che veniva prima o dopo. L’altra formula che adoravi ripetere era Aloe Aloe che poteva essere usata in alternativa o insieme ad a bedda dedda. E se ti chiedevamo “amore cosa significa a bedda dedda?” non c’era niente di più facile che tu rispondessi “aloe aloe”.

E adesso, a distanza di qualche anno che non ti sento più pronunciare nessuna delle due formule, mi sono ritornate in mente e ti ho chiesto se le ricordavi. Mi hai detto di no e ti sei messa a ridere schermendoti un po’ e lasciandomi l’impressione che non volessi ancora oggi rivelarmene il significato. Allora ci ho riflettuto un po’ e mi è venuto in mente che sarebbe bello poter usare espressioni il cui significato conosciamo solo noi e che contengano in loro il potere di dare una forma, una dimensione, a tutto ciò che non capiamo bene o ci fa male. 

È stato così mi sono concentrato più forte che potevo e ho provato a racchiudere nella sintassi sconosciuta delle tue due espressioni ciò che sentivo. Ho chiuso gli occhi, fatto un bel respiro e pronunciato ad alta voce: A bedda dedda, aloe aloe! E non so perché, ma mi sono sentito improvvisamente meglio.