La rivoluzione

Agata mi ha costretto a iniziare un nuovo romanzo. Costretto è una parola brutta, probabilmente giusta.
Sono passati dieci anni e qualche spiccio da quando ho messo l’ultimo faticoso e promettente punto a quello che è rimasto l’unico romanzo terminato della mia vita. Doveva essere il primo di una lunga serie. È rimasto il primo. L’ultimo.
Dentro al mio dropbox ci sono una serie di cartelle denominate Come un romanzo. Negli anni, a Come un romanzo uno, si sono affiancati omonimi due e tre. Adesso esiste anche una cartella che si chiama Come un romanzo quattro. Inizi di storie sospese tra le mie dita e  tutte le cose a cui ho permesso di distrarmi. Pensa, non ricordavo nemmeno che esistessero il secondo e il terzo; me ne sono accorto qualche giorno fa, quando ho salvato il primo capitolo di questo lavoro appena iniziato.

Ma andiamo per ordine. 
Dieci anni fa, dicevo, mettevo fine a quel romanzo. Ero così entusiasta e soddisfatto del lavoro che avevo tra le mani, mi emozionavo alla sola idea di riaprire la cartella.  Passavo minuti interi a scrollare da sopra a sotto quel file lungo 100 pagine, 98 per l’esattezza. 
Negli anni ho probabilmente avuto altri spunti per altre storie, più o meno possibili. Ciò che mi è sempre mancato è forse il coraggio di scriverle davvero, o più semplicemente si è trattato della solita vecchia faccenda: la mancanza di costanza e dedizione.

Ormai dovresti averlo capito. Sono una specie di vulcano mai spento, un ribollire di idee. Se le mie idee fossero fuoco potremmo scaldarci l’intero pianeta. Il problema è che sono lava profonda e scintille, che da sole non bastano, servirebbe del legno. E troppo spesso mi perdo nel tentativo di costruire una catasta decente di fascine e tronchi spezzati. 
Così rimangono solo lampi, inizi. Bagliori soffocati dallo stesso cratere che li ha prodotti.
Poi un giorno sento di nuovo il calore del magma muoversi nella mia pancia, aspetto finché qualche lapillo mi sale alla gola, allora dico ad Agata che ho un’ispirazione. Una nuova idea. 
Lei ha ormai abbastanza esperienza per riconoscere e sapere che quell’idea si sta esaurendo già mentre gliela racconto, e potrebbe anche dirmi “lasciamo stare, se vuoi parlamene, ma non provare a convincermi. Ti conosco”. Invece mi chiede di raccontarle, e raccontarle ancora. Mi fa domande minuziose. Mi chiede di vedere insieme un documentario su una vicenda trasversale alla storia che voglio costruire. 
Continuiamo a parlarne ancora il giorno dopo. Mi dice di alcuni spunti che le sono venuti in mente, mi porta letteralmente alla Feltrinelli a cercare un libro che percorre gli anni e gli eventi che fanno da lietmotiv alla mia storia.

Un pomeriggio, mentre è primavera, mentre le persone parlano dentro le loro finestre aperte, mentre ce ne stiamo in balcone col sole in faccia, mi chiede quando ho intenzione di iniziare a scrivere. E io mi sento a disagio. Perché tra la mia idea e la sua messa in pratica c’è un mare davanti al quale mi sento stanco solo ad immaginarmi a nuotare. Ma la sua non è propriamente una domanda, neanche una richiesta, è il memorandum di un obbligo a cui adempiere. Un obbligo morale, quasi a risarcire il tempo, il nostro tempo, impiegato a guardare un documentario che lei non avrebbe mai visto in vita sua, una passeggiata in libreria che non avrebbe fatto, ore intere a parlare di una vicenda di cui, tutto sommato, poteva fare pure a meno. Messa così è difficile dire “poi” o “non lo so”, anzi – diciamocelo – è praticamente impossibile. 

Così, mentre lei se ne va a fare una doccia, io accendo il computer e comincio a prendere appunti per un primo capitolo. Mi accorgo che nascono alcuni personaggi, e scrivo. Scrivo. E vengono a galla aneddoti e intrecci, nasce una pagina, non più fantastica, ma reale. Le pagine diventano due. Insomma avviene quel miracolo, la magia di quando scrivi una cosa che funziona e tutto, le persone e i loro vestiti, i fatti che racconti e i luoghi in cui prendono forma, smettono di essere scritti e diventano veri, concreti, si tramutano in ricordo, sensazione, esperienza, vita.
Intanto ti ho raccontato la trama di questa storia. Mi hai ascoltato attentamente, interrompendomi quando non capivi, e come al solito sorprendendomi, dandomi la mano mentre ero in difficoltà. 

Succede che uno dei personaggi del mio racconto si toglie la vita, questa cosa non sapevo proprio come spiegartela, e sorvolavo, ci giravo intorno. Tu però continuavi a tornarci sopra perché non avevi capito. A un tratto mi hai chiesto “ma quindi si è suicidato?”.
“Mio Dio quando sei diventata così grande, amore mio?”, ho pensato e ti ho detto.
Al termine delle mie parole sei rimasta in silenzio. Un silenzio che ho assecondato per un po’, quindi ti ho chiesto cosa pensavi, se questa storia ti era piaciuta. 
Tu hai risposto “papi tantissimo!”.
Hai detto tantissimo, con un punto esclamativo, forse due. Mi sono un po’ commosso e ho collegato il tuo entusiasmo alle lacrime senza parole che ho visto sul volto di Agata il giorno in cui le ho letto il primo capitolo. Ho realizzato che quel libro non esiste più soltanto nella mia mente. Esiste.  Esiste per voi, e lo state aspettando. E mi è tornato in mente il mio professore di filosofia al liceo che mi diceva “sei un grandissimo stronzo!” (proprio così), tutte le volte che si accorgeva che dicevo qualcosa di probabilmente intelligente e gli ricordava tutte le altre in cui non mi aveva sentito affatto. Ho pensato al mio amico Giordano, che durante i primi anni di università mi imponeva delle scadenze mensili (le chiamavamo le scadenze), al termine delle quali dovevamo (dovevamo), inviarci dei racconti. E delle volte io ero così in ritardo che mi rifugiavo in quell’ultima mezz’ora prima della mezzanotte e tiravo fuori dal nulla un racconto. Lui lo sapeva e mi chiedeva “l’hai scritto in mezz’ora?”. Io stavo zitto e lui sussurrava “pensa cosa potresti fare in un giorno”.
Ecco, questo per dirti che ti auguro di incontrare qualcuno che non ti lasci fare soltanto quello che sai fare, come lo sai fare. Qualcuno che ti prenda sul serio, anche quando è noto che sei un cazzaro patentato. Qualcuno che ti ascolti, veramente, e ti costringa ad ascoltarti, come fate tu e Agata con me.

Sono però un po’ nei casini. 
Agata mi ha chiesto 50 pagine entro il mio compleanno, che è tra poco più di un mese, e so già che sarà impossibile accontentarla. 
Ma continuo a osservare così attentamente la vita di queste persone che non esistono, eppure esistono. E continuo a tenerle costantemente in mente, come una madre pensa ai figli anche quando non ci pensa. 
E se di tanto in tanto appunto le cose che vedo e sento, se mentre sono al computer tu mi chiedi come va, e mi porti un bicchiere d’acqua oppure una delle caramelle, se magari aumento un pochino l’interlinea e considero la pagina del titolo e la successiva bianca, forse forse potrei. 
Potrei anche farcela.

Aloe Aloe

Hai cominciato a parlare tardi. Così tardi che io e tua madre eravamo preoccupati al punto da chiederci se non fosse il caso di farti vedere da uno specialista. Non avevamo invece capito che avresti cominciato a parlare soltanto quando ti saresti sentita completamente pronta, come d’altronde hai fatto con tutto il resto delle cose da imparare: camminare, andare sui pattini, in bicicletta o più tardi leggere e scrivere.

Nel frattempo, osservavi avidamente. Con una curiosità che metti in tutto ciò che fai.

Quando eri piccola piccola, per esempio, ti piaceva passare intere ore seduta sulle mie gambe. Mi portavi un libro con gli animali e volevi che ti elencassi i nomi di ognuno di loro. Tu sfogliavi il libro e per ogni pagina all’animale precedente se ne aggiungeva uno nuovo. Tu poggiavi il tuo dito cicciotto  sull’animale, io dovevo enunciarne il nome. Elefante, canguro, rana, giraffa, castoro, rinoceronte, asino, maiale, coniglio, zebra. E a mano a mano che ci avvicinavamo alla fine del libro gli animali erano diventati tantissimi e si erano messi in fila per salire sul dorso di una balena per andare a fare un salto mortale in mezzo al mare. Il gioco poteva andare avanti per ore e io ogni volta provavo ad arricchirlo di particolari nuovi, per non annoiarti. Davo voci agli animali, li facevo dialogare tra di loro ma a te ciò che davvero interessava era ascoltare i loro nomi. 

Soltanto più tardi ho capito che stavi imparando la geografia della fauna mondiale, in silenzio, senza scalpore, quasi di nascosto. È stato così che un giorno a casa dei tuoi nonni, davanti alla tv accesa su un documentario, ti ho visto indicare la schermo e pronunciare perfettamente la parola elefante. Da un giorno all’altro hai cominciato a parlare e sembravi un libro stampato, perché sapevi pronunciare ogni parola senza imperfezioni: le erre erano erre e tutte le altre lettere non subivano alcuna perdita infantile. Non solo, improvvisamente mi resi conto che conoscevi una quantità impressionante di animali: della savana, della giungla, della fattoria. 

Ma accanto alle parole che avevi imparato ascoltandole e forse ripetendotele dentro, ne avevi inventate altre il cui significato hai conosciuto sempre solo tu. Erano parole curiose che io e tua madre provavamo ad accostare ad azioni, cose, sentimenti ma non c’era verso, perché quelle parole costituivano un linguaggio segreto di cui solo tu possedevi il codice per decodificarle.

Una di queste sembrava una formula magica che recitava più o meno così: a bedda dedda. Sembrava quasi siciliano ma non era in alcun modo collegabile a qualcosa di specifico. Decidevi tu quando pronunciarla e per cosa, mentre noi sfuggivamo puntualmente alla sua collocazione spazio/temporale. Ma era bello chiudere o aprire un discorso con questa espressione, quasi a suggellare la dimensione magica di tutto ciò che veniva prima o dopo. L’altra formula che adoravi ripetere era Aloe Aloe che poteva essere usata in alternativa o insieme ad a bedda dedda. E se ti chiedevamo “amore cosa significa a bedda dedda?” non c’era niente di più facile che tu rispondessi “aloe aloe”.

E adesso, a distanza di qualche anno che non ti sento più pronunciare nessuna delle due formule, mi sono ritornate in mente e ti ho chiesto se le ricordavi. Mi hai detto di no e ti sei messa a ridere schermendoti un po’ e lasciandomi l’impressione che non volessi ancora oggi rivelarmene il significato. Allora ci ho riflettuto un po’ e mi è venuto in mente che sarebbe bello poter usare espressioni il cui significato conosciamo solo noi e che contengano in loro il potere di dare una forma, una dimensione, a tutto ciò che non capiamo bene o ci fa male. 

È stato così mi sono concentrato più forte che potevo e ho provato a racchiudere nella sintassi sconosciuta delle tue due espressioni ciò che sentivo. Ho chiuso gli occhi, fatto un bel respiro e pronunciato ad alta voce: A bedda dedda, aloe aloe! E non so perché, ma mi sono sentito improvvisamente meglio.