Traslochi

Ho preparato una scatola. Anche se davanti alla porta adesso ce ne sono due. L’altra contiene i maglioni e i calzini invernali che provengono dal cambio di stagione. Nella scatola che ho preparato ho inserito invece i tuoi colori, i pennelli, tutta la cartoleria, alcune foto, due piccole scatole che chiamo le scatole dei ricordi (piene a loro volta di foto, lettere che provengono dalla preistoria, oggetti che per un motivo o l’altro hanno segnato la mia vita fin qui), due casse bluetooth, tanti cavi che non so bene a cosa servono ma che per scrupolo o perché non saprei in quale bidone della differenziata buttare, sto portando con noi. È solo l’inizio, mi sono detto, mentre chiudevo il coperchio della scatola di plastica di ikea e lanciavo uno sguardo alla scrivania ancora piena di cioccoli che non avevano trovato collocazione nella prima scatola. 

Quanti traslochi avrò fatto nella mia vita? Mi è venuto da chiedere, osservando quanto col tempo si sia in fondo ridotto l’ingombro che mi porto dietro di casa in casa. 
Tutti i miei libri giacciono nella cantina di un mio amico da tre anni, alcune cose tua madre ha a tutt’oggi la pazienza di conservare: il mio hi-fi e qualche libro che, di tanto in tanto, quando mi ci cade lo sguardo sopra, domando retorico “questo è mio?”, ritrovando la sua risposta scettica “non credo. Mi pare lo avevo preso a casa di mia madre”. A poco serve rincorrere i ricordi, fermarsi al momento in cui avevo comprato Kaputt su ebay a quattro soldi in un’edizione vecchia di 40 anni. Ormai è suo o tuo, per quando sarai grande. Certamente non più mio, come forse non lo è mai stato, espropriatomi dalla lettura che gli ho negato nell’attimo in cui era atterrato tra le mie mani. 

Sono così tristi i traslochi che non vorresti mai farli da solo. Ne parlavo anche nel mio romanzo rimasto inedito. Raccontavo un trasloco immaginario nel quale lui veniva affiancato da una lei premurosa e pragmatica. Nella realtà anche in quel trasloco ero solo. Sono tristi i traslochi perché ti costringono a scegliere. Scegliere cosa portare, cosa non scegliere per il momento, cosa buttare. E nel farlo passi in rassegna la tua vita, gli oggetti che l’hanno composta o accompagnata, li soppesi sulle dita, ti chiedi “ne ho davvero bisogno?” e la risposta non è mai perentoria. Mi piace fantasticare da sempre sulle ditte di traslochi. Persone incaricate di sondare le tue stanze, impacchettare, ordinare, scegliere per te. Poi ti portano tutto nella tua nuova casa, spacchettano, impilano, incasellano, ordinano di nuovo. Tu hai il solo compito di infilare la chiave nella serratura ed entrare nel nuovo capitolo della tua vita. 
Certe cose però probabilmente non esistono e me le immagino come immaginavo a scuola macchine del tempo che mi avrebbero portato avanti e dietro nelle 3 ore del compito di latino per rubare al futuro informazioni preziose da rendere al me impacciato del passato. 

Quando sono andato via dalla mia ultima casa da studente per andare a vivere con tua madre, tranquillizzato dal fatto che uno dei miei coinquilini storici rimaneva a vivere in quella casa, ho lasciato buona parte delle cose che avevo in due armadi in corridoio che avevo fatto miei. Pensavo che nelle settimane successive sarei andato a riprendere tutto. Di fatto non ci sono mai tornato. È stato così che ho perduto un pezzo di coperta di lana ricamata a mano da mia nonna per quando nei pomeriggi d’inverno avrei studiato al freddo (ti terrà calde le gambe, così mi aveva detto). E a distanza di 11 anni, vorrei ancora avere una Delorian che mi porti a non dimenticarla. (A proposito, sai che Agata ha chiesto al mio coinquilino se per caso la coperta era ancora in giro in casa? Volevo regalarmela per il mio compleanno. Sarebbe stato folle e pazzesco ma non ha funzionato).
Sono così i traslochi, mi dico adesso che provo a riflettere su quanto ho imparato dai miei tanti traslochi trascorsi, tentando in tutti i modi di dare un luogo, una posizione, un biglietto per imbarcarsi in una scatola a qualunque cosa. Eppure non c’è trasloco senza sacrificio. Provo a trovare un senso da riferirti in questa ultima lettera di inizio agosto, prima di ritrovarti tra più di un mese. Ci penso, non lo trovo. Forse, mi dico, è solo una questione d’ordine e costringersi a trovarne uno al momento del trasloco è una specie di forzatura o di inganno al quale ci sottoponiamo senza capacità concreta e reale. L’ordine è nelle cose di ogni giorno, nel mettere un libro al suo posto, un fumetto impilato con gli altri, una bambolina nella scatola dei giocattoli, un pezzetto di Lego insieme ai restanti. Vuoi vedere, amore mio, che la lezione che dovremmo imparare è di dover ricominciare in maniera differente da tutti quelli precedenti? E forse il “ri” è davvero di troppo. Facciamo che stavolta cominciamo?

Il ’56

Quando avevo la tua età, mia nonna mi portava spesso in campagna. Lì aveva un piccolo recinto con poche galline, in qualche periodo un paio di conigli. Mentre mio nonno dava l’acqua all’orto, lei entrava nel recinto e si infilava nella casupola dove le galline andavano a fare le uova. Usciva trionfante scandendo il numero delle uova che portava in grembo strette nel grembiule.
Quando mi raggiungeva, sistemava le uova in un paniere e ne sceglieva una tra le più grandi, la puliva col grembiule e con una punta la bucava sopra e sotto. Poi mi passava l’uovo e io ne bevevo d’un fiato tutto il bianco. Glielo ripassavo e lei ne toglieva accuratamente metà guscio per ripassarmi la parte rimasta che conteneva il rosso e alcuni pezzetti di pane tagliati a strisce sottili e lunghe che infilavo nel tuorlo per mangiarlo. 
Ricordo ancora oggi esattamente il gusto di quelle uova. È un sapore che non è mai sparito, sopravvivendo intatto agli anni che passano. Non credo di aver mai più mangiato uova crude da allora. E a tutt’oggi l’idea stessa mi crea qualche problema. Ma quel ricordo no. È un ricordo dolce, esaltato dal sapore che aleggia indisturbato nella memoria.
Esattamente come il profumo che immediatamente raggiunge la mente e di lì l’olfatto se penso ad alcuni dei piatti che mia nonna cucinava per me. Ce ne sono tre in particolare che non dimenticherò mai e che nessuno, nonostante i tanti tentativi, è mai riuscito a replicare. Sono ricette semplici e allo stesso tempo sacre che mia nonna si è portata nella tomba lasciandomi appiccato alla memoria solamente un ricordo indelebile, come l’uovo col pane o la favola del bacile d’oro che mi raccontava la notte, prima di dormire, quando mio nonno non c’era e io le facevo compagnia.

Il primo di questi è una torta rustica, la chiamava pizza sfogliata, anche se chiamarla torta o pizza non rende l’idea di cosa fosse. È una pasta sfoglia sottile, sulla quale veniva adagiato un impasto di formaggio, salsiccia, uova e pepe e poi arrotolata. Normalmente la preparava per carnevale e pare sia una cosa tipica del nostro paese. Anche tua nonna la fa qualche volta, ma non ha lo stesso sapore.
Il secondo piatto si chiamava filoscio, ed era un piatto veloce, di quelli che prepari al volo quando sei in ritardo sul pranzo. Io e tuo zio lo adoravamo e lo chiedevamo sempre nei giorni in cui pranzavamo da lei. È molto semplice. Una frittata d’uovo, come un’omelette, con dentro del formaggio, cotta in una padella di sugo di pomodoro. Non ho mai provato a farlo da solo. So che riuscirei a cucinare solo qualcosa al gusto di delusione. 
Il terzo piatto erano i fagioli cotti nella pignatta, al calore del camino. Quando mia nonna decideva di prepararli, riempiva la pignatta di fagioli e acqua sin dal mattino, appena sveglia e li lasciava per tutto il giorno lì a borbottare ed emanare un profumo sottilissimo che veniva su leggero leggero e avvolgeva tutta la casa. Anche tua nonna ha una pignatta e ogni tanto d’inverno la tira fuori e ci ficca dentro i fagioli ma, come potrai ormai indovinare, non hanno mai avuto lo stesso sapore di quelli di mia nonna. 

Pensavo a tutte queste cose qualche giorno fa, mentre trafficavo tra fornelli e padelle. Tu eri seduta al tavolo e ti lamentavi perché le zucchine no, l’insalata no, gli spinaci nemmeno. Ho aperto il frigo ed estratto un uovo dalla scatola e in quel momento mi è tornato in mente l’uovo col pane. Mi sono rigirato l’uovo tra le mani, chiedendomi se l’ingrediente segreto che renda ancora oggi a distanza di 30 anni i suoi piatti favolosi sia il ricordo. Provo a ritornare ad allora per capire se quando li provavo, assaggiavo, avevano già un sapore speciale o fossero invece normali pietanze, magari molto buone ma non speciali. Non so rispondere. E tutto ciò mi porta a pensare a ciò che riempie le nostre giornate oggi. Le piadine prosciutto e mozzarella, la pasta e lenticchie che ogni tanto mi chiedi di preparare ma solo se la faccio come quella volta che ti era piaciuta tantissimo, le crostate alla marmellata o tutte le piccole, a volte piccolissime, cose che preparo per te. E mentre lascio cadere un uovo sulla padella che sfriccica mi chiedo se questo uovo, proprio questo, un giorno avrà un sapore speciale nel tuo ricordo. Quest’uovo o l’hummus che ti ho fatto provare e tu hai chiamato uomos o il taramà che ti ho convinto essere mocciolo di unicorno e nonostante tutto ti ha fatto schifo, le alici senza le quali il mio mondo sarebbe un mondo peggiore e che tu non ti sognerai mai nemmeno di provare o le fette di pane e olio che vincono sempre su tutto. Chissà se questo o qualcos’altro vincerà il tempo e un giorno sarà arricchito dall’ingrediente segreto del ricordo, diventando indelebile e irripetibile. Forse dovrei appuntarmi da qualche parte i piatti che riempiono le nostre cene, i nostri pranzi, gli spuntini. Segnarmi cosa ho messo nei panini, con cosa ho preparato la pasta e lenticchie, lasciare una traccia dei tuoi gusti a sei anni, a sette, e poi ancora. Un modo per darti modo, da grande, di tornare indietro a quella volta in cui, a quel sapore che, a quel piatto come lo preparava papà. Ma poi no. Non so se funzionerebbe. Le cose buone, quelle buone per sempre, hanno bisogno solo del cuore, delle papille gustative nascoste in certi battiti. E io per te sono capace di cucinare solo così, spesso di corsa, con i fornelli accesi, netflix che non ti funziona, l’olio che è finito, la crostata in forno che ho scordato e  si è bruciacchiata ma solo un po’ e tutto sommato è ancora mangiabile. Un modo che forse ricorderai strampalato, sempre in ritardo, distratto, confusionario, arrovellato certo volte, incasinato, ma sempre solo per te. E tu questo lo saprai, questo sarà per te il sapore.