Un giorno credi

Un giorno, quando sarai grande, parleremo di questi giorni. Tu mi chiederai “com’era?” e io forse, come hai scritto faccio sempre nel tuo bigliettino della festa del papà, ci scherzerò su e dirò “né più né meno del solito”. Quando arriverà quel giorno però tu non lasciarmelo fare. Inchiodami alla domanda e lasciati raccontare com’era davvero.
Allora ti dirò che avevo paura. Una paura così diversa da tutte le paure che avevo sempre avuto (e probabilmente da tutte le altre che ancora avrò). Una paura che mi costringeva ore al telefono, al computer, con l’orecchio rivolto alla radio, nell’attesa spasmodica delle 18 per consultare il bollettino di guerra aggiornato.
Ti racconterò di averne parlato a lungo con tua madre nella speranza di trovare una soluzione utile a tenerti lontana dai guai. E che all’inizio avevamo deciso di tenerti solo da lei ma dopo 10 giorni stavo per impazzire all’idea di non avere più e per chissà quanto i nostri spazi. Ti portai allora da me, anche per farti conservare l’idea che una qualche normalità scorresse ancora. Ma di normale non c’era proprio nulla e ogni mattina io mi svegliavo con l’impressione di aver fatto un brutto sogno. Bocca impastata e sospiri di sollievo, vanificati nel giro di pochi minuti.

Le mani lavale bene amore, conta fino a 60. Ho detto 60, non imbrogliare, ti prego. 

Alzarsi, lavare il bagno da cima a fondo con il detersivo igienizzante, poi la cucina, poi passare in rassegna le cose in casa nella speranza di poter rimandare ancora il supermercato.
La cosa più complicata convincerti che andasse tutto ancora bene. Che fare i compiti da casa fosse normale, che quella parola pronunciata così ossessivamente da tutti non ferisse così tanto, che non poter uscire, non poter andare a far la spesa, non poter andare in bicicletta, sui pattini, al parco, al cinema o vedere le tue amiche fosse un gioco divertente e temporaneo.
Ti portavo spesso in terrazzo, a stendere le lenzuola, guardare il tramonto, le persone passeggiare sulle terrazze intorno, dita e rassegnazione strette dietro la schiena. 
Ti facevo sentire l’odore del bucato appena steso, ti parlavo di mia nonna e mia madre che lavavano in primavera le coperte al fiume. L’odore del sapone di Marsiglia che mi è rimasto sospeso nei ricordi. I sassi levigati, giocare a rincorrersi e schizzarsi, l’acqua fredda che faceva estate. Ma dentro la mente un solo costante e pignolo pensiero e lo sguardo, mentre non guardavi, rivolto al cielo. Ce la faremo amori miei. Tu, Agata, tutte le persone importanti della mia vita in un solo grande abbraccio di preghiera.

E tutto questo dolore serviva a qualcosa era quello che mi ripetevo dentro. Pontificando ad alta voce Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile. E utile lo sarà stato, quando potremo raccontarci con semplice sollievo il ricordo lontano del dolore. Ma ora, ora tutto questo è vivo, è qui e fa ancora troppa paura. 

Ti guardo mentre dormi, come faccio sempre. Ti accarezzo e mi chiedo se dovrei avvicinarmi così tanto, toccarti, baciarti. C’è una vita sola ed è questa. Lo so adesso e non so se prima lo sapevo già. Non so se la sto consacrando e non ho più voglia di attendere. E c’è una cosa che sto imparando e che mi dico come un mantra, devi vivere, devi vivere ora, non quando sarà estate, non quando farà notte tardi o sarà tutto finito. Perché la vita, amore mio, è così forte e grande che proverà sempre a illuderci che sia eterna. Ma la vita è una sola ed è ora.  

L’amore ai tempi del Coronavirus

Quando sono uscito di casa stamattina sul lungotevere ho visto il primo albero di Giuda fiorito. Ero in coda dietro un autobus, l’albero è entrato nel mio campo visivo ma solo quando sono ripartito ho registrato l’informazione e realizzato il significato. È quasi primavera.
Le strade erano quasi deserte. Da casa a lavoro ho impiegato 11 minuti. Lo so perché il motorino aveva l’orologio sfasato e l’ho sistemato prima di partire.
Nelle orecchie la radio mi ha passato Gomma dei Baustelle e mi è venuta una strana allegria. La strada libera invogliava ad andare veloce e stranamente tutti i semafori erano verdi. Sulle banchine dei tram c’era poca gente. Ho provato a vedere se qualcuno avesse la mascherina ma se non fosse stato per il poco traffico, non avrei notato nessuna differenza con la Roma del mese scorso o di quello prima ancora.
Sai, fa effetto sentirti parlare del Coronavirus. Ne parli come se sapessi tante cose, mi chiedo se ne sai addirittura più di me. Io evito invece di farlo, quantomeno con te. Tu invece scopri le cose di ogni giorno con la semplicità del disegno di una casa e dici “è per colpa del Coronavirus?”, serafica come se aprissi l’ombrello perché piove.

Sei stata contenta quando l’altra mattina ti ho detto che non saresti andata a scuola. Hai fatto un piccolo balletto di esultanza mentre eri ancora rannicchiata sotto le coperte e la faccia felice con gli occhi a mezzaluna che fai quando scopri qualcosa di geniale. Io invece ero preoccupato. Di quella preoccupazione che mi assale ogni volta che succede qualcosa che non controllo. Mi hai chiesto se potevi venire a lavoro da me, ti ho portato invece a casa di tua madre che è raffreddata e che mi ha fatto pensare “avrà il Coronavirus?”. Ma non l’ho detto né a te né a lei.
Tua nonna mi ha scritto su whatsapp se vogliamo portarti lì per il periodo in cui non vai a scuola. Ho pensato che sarebbe bello approfittarne e restare qualche giorno lì insieme, io e te, come sospesi in una pausa. È rimasto però solo un pensiero. Le ho risposto “vediamo”, mi ha riempito il telefono di cuori. 

I cuori di tua nonna sono una recente acquisizione. Prima quasi non mi scriveva. Ora invece lo fa più facilmente. È un modo per recuperare il tanto tempo perso senza necessari strappi. È merito di Agata. Un giorno ha preso il mio telefono, ha scrollato whatsapp, ha trovato il numero di tua nonna e le ha mandato un messaggio per dirle che avevo scongelato i fagioli che lei mi aveva dato l’ultima volta che eravamo stati lì. Una cosa che non avevo mai fatto prima. Ma ben più eclatante è stata la sua chiusa. Un “ti voglio bene” che credo tua nonna sia cascata dalla sedia quando ha letto. 

Agata è così. Ha la chiave di accesso ai sentimenti delle persone. Ci legge dentro, li decodifica, li tira fuori come sassi dal letto di un fiume. La sabbia che si alza e disperde, intorbidisce un po’ l’acqua lasciando l’impressione che si sia rovinato qualcosa. Invece poi la corrente la porta via e rimane il sasso bello e limpido.
È questo che sta facendo con me. È questo che credo faccia con tutte le persone che incontra.

È successo così anche a te? Avrei voluto farti un milione di domande quando vi siete incontrate qualche giorno fa al mercato di Testaccio. Lei aveva preso un tavolo, noi siamo arrivati, breve presentazione, serietà e qualche forma di tensione. Poi io e te siamo andati a prendere i panini. Sai l’ho capito che eri preoccupata. Sbadigliavi, ti trascinavo, mi hai detto senza nessun entusiasmo il panino che volevi. La vera svolta però c’è stata quando dopo pranzo siamo andati a prendere il gelato nella tua gelateria preferita. Vi ho indicato un tavolo mentre facevo la fila. Quando sono tornato con i coni, mi sono fermato a qualche metro da voi che non mi guardavate più. Ridevate ed eravate una accanto all’altra. Eravate diventate amiche. Mi sono un po’ commosso, ho aspettato qualche secondo ancora e poi sono venuto a sedermi.

C’è l’amore dentro ogni gesto di questo inverno che finisce. Noi non lo vediamo. Ma c’è. Non so se la gente ha realmente paura o è cullata da questo sentimento per prendere un po’ le distanze da una vita stanca e faticosa. Un po’ è bello se lo vedi così. Io mi faccio mille paranoie, poi però svolto l’angolo, freno, mi metto in coda a un autobus e aspetto il verde al semaforo. Nel frattempo c’è un albero che fiorisce e una primavera che arriva e io nemmeno me ne ero accorto.

P.s. Il titolo iniziale di questa lettera era The rhythm of the night… vabbè.