Pezzi

Ho cominciato collezionando monete grazie a un sacchetto che mi aveva regalato tuo nonno, quando avevo più o meno la tua età. Non c’era nulla di grande valore dentro anche se a me sembrava un tesoro inestimabile. Solo monete avanzate da alcuni dei suoi viaggi: Spagna, Argentina, Grecia, Turchia, Portogallo. Le ricordo ancora adesso. Una era di rame e aveva un buco al centro. Ora che ci penso dovrei cercarle e regalartele.
Tuo zio quando eravamo piccoli aveva una collezione ingombrante e polverosa di lattine. Ne aveva tonnellate che impilava su una mensola nella nostra cameretta. Erano tutte vuote e se c’era una piccola scossa di terremoto venivano giù con grande clamore. Anche Agata mi ha detto di aver fatto la stessa collezione, parlandomi di una lattina di Four Roses and Cola che ricordo benissimo anche nella collezione di tuo zio. Agata colleziona anche conchiglie che tiene in un vecchio braciere sopra a un tavolino di vetro in soggiorno. Ultimamente gliene ho regalato una piccola e tonda che lei ha riconosciuto come un riccio. Ora è in un piatto antico vicino a un sasso di fiume levigato. Colleziona anche accendini ma non lo sa. Ne ha migliaia, raccolti in piccoli mucchi dentro barattoli e vasi sparsi in tutta casa. Ne ho contati più di cento: in bagno, vicino al water e sulle mensole, in soggiorno, in cucina, all’ingresso. Sotto al lavandino c’è la scorta più consistente, credo siano quelli esauriti. A me piace collezionare ricordi delle sue scarpe che impilo uno sull’altro, come in una successione di Fibonacci e ogni tanto riallineo per il gusto di sbalordirla.
Giacomo, ai tempi in cui abitavamo insieme, collezionava oggetti rubati nei pub: boccali di birra, bicchieri, vassoi che un giorno avrebbero riempito la sua cucina pub. Quando lo ha raccontato ad Anne lei ha risposto che era l’idea più ridicola che avesse mai sentito.  
Una volta ho conosciuto una ragazza che collezionava lettere d’amore, scritte e spedite più di cinquant’anni fa. Le trovava nei mercatini, su ebay, per caso. Le leggeva senza capirle e poi annotava su un quaderno i pensieri più belli. A me pareva una cosa invadente e rumorosa, come entrare a rubare in casa d’altri.
Per lungo tempo ho collezionato schede telefoniche che ora sai anche tu a cosa servivano da quando abbiamo incontrato una cabina e te l’ho fatta usare. Non riuscivi a smettere di ridere mentre infilavamo le monete nella fessura e componevamo il numero di tua madre. Quando hai riagganciato la cornetta hai detto “ah, i favolosi anni 80”. 
Tu collezioni punte di matite colorate. Ogni volta che una punta ti si spezza, la raccogli e la infili in una scatolina insieme a tutte le altre. Un barattolino trasparente e decine di mine colate. Qual è il senso? Lo stesso di qualunque collezione. Appassionarsi all’idea che cresca, come un seme piantato nel terreno che lentamente diventa grande e importante e non si riesce a separarsene. Mi piace l’idea che ogni mina spezzata rappresenti un inciampo, un intoppo, una pausa che metti via e non butti: i tuoi ostacoli sono tutti colorati e ti tengono compagnia dall’interno del tuo astuccio.

C’è chi colleziona sottobicchieri, qualcuno colleziona chitarre, altri magliette o sciarpette di squadre di calcio, biglietti del cinema, di concerti, di partite allo stadio, dischi di Lou Reed, cappelli, barattoli, spezie, sassi, sabbia del mare, cimeli, palle da biliardo, gettoni, biglie, palle salterine, bottoni, bracciali, cartoline, orologi, macchine fotografiche, macchine da scrivere, macchine da guidare, macchinine bburago, chiavi, penne, tappi, post-it, anelli, giornali, scatole di latta, occhiali, carillon, caffettiere, autografi, farfalle e insetti, ex libris, pinocchio, spille, stampe, radio, spartiti, timbri, trottole, ventagli, scacchi, locandine, minerali, ferri da stiro, bustine di zucchero. 

Io colleziono lettere per te, questo è il posto in cui le conservo.  

Un bene dell’anima

Ho conosciuto Antonello a Lettere, il primo giorno. Eravamo in pochi, noi due stavamo a qualche posto di distanza e durante una pausa abbiamo cominciato a chiacchierare. Ci siamo incontrati alla lezione successiva, poi a quella dopo. In aula, al quarto appuntamento, si è aggiunto Gianluca. “È simpatico, è milanese”, Antonello me l’ha presentato così. Gianluca invece era di Pesaro, sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, oltre che coinquilino dei sette anni che seguirono. È stato lui a rivelarci, sbalordito e divertito, che il corso che stavamo seguendo ormai da due settimane non era quello che pensavamo. Avevamo confuso le aule e i docenti, senza renderci nemmeno conto che gli argomenti trattati erano lontanissimi da quelli che avremmo dovuto aspettarci. Continuammo comunque a frequentare, entrambi. Più per comodità che per reale convinzione.

Antonello era di Roma, abitava a San Giovanni, con i suoi. Veniva da noi ogni volta che poteva, a pranzo o a cena, a bere il caffè della nostra moka, a fare niente. Frequentava casa nostra come fosse sua; credo lo fosse. Non sono mai entrato completamente nel suo mondo, come esistesse una diga tra la nostra acqua e quella che scorreva nel tempo lontano da noi, ma questo non ha mai impedito alle nostre anime di abitare le stesse stanze. Lui invece conosceva perfettamente il nostro mare, al punto da sentirsi un fuorisede, come noi. 
Dopo la laurea, ci ritrovammo quasi inconsapevoli a fantasticare il Sudamerica. Non dimenticherò mai il giorno in cui andammo in motorino alla biglietteria delle Aerolineas Argentinas, in via Cavour. Negli astucci celesti un biglietto per Buenos Aires e uno di ritorno da Lima, piantato a quasi due mesi di distanza

Ti accompagno a scuola, piove e c’è traffico. La macchina copre l’asfalto a singhiozzi. Sonnecchi, accendo la radio. La voce di Lorenzo ti sorprende, ti cattura, ormai lo riconosci, anche nelle canzoni che non hai mai ascoltato. 
Che cos’è un amico, nessuno lo sa dire.  
Mi sorprendo anch’io, impantanato come sono a pensare queste cose.

Non vedevo Antonello da qualche anno quando quest’estate l’ho incontrato a Barcellona. Una telefonata, un appuntamento, un treno, un abbraccio lungo abbastanza da colmare gli anni trascorsi. E poi una giornata al sapore inconfondibile di ricordi e affetto. 
Lui vive lì, insieme a una ragazza col sorriso negli occhi. Sono belli insieme. Sono belli anche quando non sono insieme, accesi da una bellezza comune, che traspare in ogni cosa che pensano o fanno. Ho visto la loro casa, abbiamo mangiato insieme, ci siamo commossi rincorrendo i fotogrammi del viaggio tenuti in serbo per momenti come questo, svegliando la memoria e resuscitando i ragazzi che eravamo. 
Il giorno dopo io avrei cominciato il mio cammino verso Santiago. Prima che salissi di nuovo sul treno ci siamo abbracciati. Forte. Più forte. Mi ha detto  “buona fortuna”, solo questo. Valeva però come “buon viaggio”, come un “ci sentiamo”, oppure, senza sentirci, “ci incontriamo nei pensieri belli”. Valeva come “ti voglio bene”. Davvero. Credo si possa applicare al  bene, a volte, la stessa logica che si applica al dolore; lieve è quello che ha voce, grave quello muto.
Mi sono sentito al suo fianco proprio ieri, mentre leggevo una sua mail: nel suo racconto ho visto chiaramente la sua espressione, sempre uguale, solo un’insignificante manciata di anni in più e la preoccupazione di non sapere se ha fatto abbastanza a piegare un po’ la pelle intorno agli occhi e sulla fronte. Mi sono chiesto se gli ho mai raccontato davvero chi sono, come sto, cosa faccio. Gli ho parlato abbastanza di te?

Tu mi guardi, annuisci come se stessi leggendomi la mente e la memoria, io ti amo e spero che la mia espressione sappia comunicartelo. Sono così, ho l’ansia di saperti piena del mio bene, di  vederti sorridere davanti alle cose buffe che metto in scena per te, come quando eravamo a Parigi e in metro ho cominciato a urlare “sono stanco, non ce la faccio più, ti prego portami in braccio”, prima che tu potessi iniziare la tua lagna ormai nota. Ridevi, riconoscendoti nella mia esibizione, ridevi e ridevi, a me veniva da piangere. L’ansia di farti vedere un film della mia infanzia, e scoprirti a distanza di settimane fare ancora la mossa della gru di Karate Kid, o ripetere fino allo sfinimento una battuta che ci aveva fatto tanto ridere. 
Ho l’ansia di sorprenderti, sbalordirti al telefono quando ti chiamo e a volte, prima di dirti “ciao”, ti ripeto a memoria una frase della lettura che ti ha assegnato la maestra, sulla quale ti stai esercitando proprio in quel momento. No piccola, non ho poteri magici. Devo confessarti che c’è un gruppo whatsapp di scuola, nel quale ogni tanto una mamma chiede ai genitori di pubblicare la foto della lettura del giorno perché magari il figlio era distratto, o malato.

Sai, tesoro, adesso, in questa macchina, sul finire di questa canzone, mi sale una nuova ossessione. Voglio che la vita ti riservi amici come i miei. 
Come Antonello che vive a Barcellona, ma è come se abitasse ancora alla Caffarella. 
Come Gianluca, che si è appena trasferito a Mosca e mi manda foto della tomba di Gagarin, dimostrandomi di essere lontanissimo, eppure nello stesso luogo in cui sono io quando una notifica mi avvisa del fatto che mi sta pensando, che mi conosce come pochi, che non smette di  percorrere la nostra strada comune. 
Come Liberato che è a Londra da una vita, e ogni santa volta mi chiama dicendo “come stai?” al posto di “pronto”. Lui che una volta ha preso un aereo per capire cosa mi succedeva, e ha cenato da solo nella mia cucina perché io non avevo la forza di affrontare quella giornata, e mai, mai me l’ha ricordato. Lui che per i miei trent’anni mi ha regalato la colonna sonora della nostra storia, tutte le note, non una in meno, del nostro conoscerci. E adesso, a distanza di dieci anni, quel disco è incorniciato e poggiato sulla scrivania, pronto a uscire da questa casa e seguirmi ovunque andrò. Liberato quest’anno compirà quarant’anni, e io in fila a seguirlo, anche se non so se sono pronto e mi sento ancora il ragazzino al binario che lo portava in aeroporto e lo salutava col pugno alzato cantando in mezzo alla gente “fratello non temere che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria”, come c’entrasse davvero qualcosa. Chissà se lui se lo ricorda. Se sa che in ogni istante dei quasi 33 anni che ci conosciamo e di tutti quelli che verranno per me ne ha sempre avuti cento e ne avrà sempre solo sette.
Vorrei prometterti amici come quelli che ho io, irrinunciabili. Vederli crescere al tuo fianco, schierati dalla tua parte. Amici che ti stiano vicino, dentro. 
Amici capaci di essere te, ogni volta che tu non sai più chi sei. 

Arriviamo, scendo per primo e vengo ad aprire il tuo sportello. Le tue compagne riconoscono la mia macchina, ti salutano come se non ti vedessero da mesi, ti aspettano. Penso non sia necessario desiderare o prometterti niente. Hai già la tua vita, il tuo modo speciale di essere te stessa, riempi stanze di cuori e amore. Qualche giorno fa eri al parco, una tua amica stava piangendo, le sei andata vicino e le hai detto “adesso pensiamo intensamente a qualcosa di bello”. Eccolo il segreto dell’amicizia. L’hai scoperto. Dovremmo scrivere a Lorenzo questa sera, per farglielo sapere. 

Scendi dalla macchina, ci salutiamo. Ogni volta che ti lascio davanti scuola, tu mi baci distratta. Mentre stai entrando io ti chiamo e ti chiedo di darmi un bacio più forte, poi un altro e un altro ancora, fino a quando mi dici “papi devo andare”. La mia espressione supplichevole ti spinge di nuovo verso di me, un ultimo velocissimo bacio che si perde nel sorriso che ti stampi sulla bocca e ti porti in classe. Hai mai saputo che, dopo che sei entrata, rimango un sacco di tempo davanti scuola a guardare le mattonelle dell’atrio che hanno visto i tuoi passi un attimo prima? 

Come mai un casino sembra un posto perfetto.
Quanto abbiamo riso, e quanto rideremo.