La valigia

Questa città, il paese dei tuoi nonni, casa mia, casa di tua madre, il mercoledì e il giovedì, i fine settimana alterni, gli oggi però, i domani da un’amichetta, il cinema, il pattinaggio, poi doccia e subito a letto e la cena? La cena, è vero. I giocattoli da me, quelli che non sappiamo più dove mettere e regaliamo di nascosto perché se te ne accorgessi ne faresti una tragedia, i grembiuli di scuola, lo zaino con le rotelle (e per fortuna), la cintura di sicurezza (amore, te l’allacci da sola?), la merenda, la spesa, il cappotto, la sciarpa, il cappello che fa freddo, la canottiera (amore, mettiti la canottiera nei pantaloni, per favore). 
Sei innegabilmente una bambina con una valigia in mano. Un po’ lo sono tutti i bambini. Eternamente scarrozzati da una parte all’altra del quartiere, della città, del mondo per riempire ore e mezze di attività sportive, ludiche, ricreative, sociali, scientifiche, linguistiche, emozionali, comportamentali, agonistiche, ingegneristiche, spaziali. La tua valigia è mediamente piena di piccoli oggetti che scegli con cura nello spostarti da una casa all’altra. Un quadernino, una penna, qualche peluche preso solo apparentemente a caso dal cassettone dei peluche che hai sotto al letto, un binocolo o una lente di ingrandimento, uno squishy, un gioco da tavolo, delle carte, qualche volta una barbie o una lol, delle figurine, altri pupazzi senza nome. Tutte cose che rimangono regolarmente nella sacca in cui le hai infilate, adagiate accanto alla porta e che, mi rendo conto, servono probabilmente come àncora tra una casa e l’altra. Prima di dormire – è una cosa alla quale ormai sono abituato (ammesso che ci si possa davvero abituare a questo) – mi dici spesso “mi manca mamma”. Io sminuisco senza farlo davvero. Ti prendo un po’ in giro. Poi ti consolo dicendoti “ma la vedrai domani/dopodomani” oppure ti passo il mio telefono e ti dico di chiamarla. Tu mi permetti di consolarti e qualche volta, qualche volta soltanto, dici “quando sono con te mi manca lei e quando sono con lei mi manchi tu”. Io a questo non ho mai imparato a rispondere e non imparerò probabilmente mai. Fingo di non essere colpito, ti racconto storie di bambini che hanno genitori che vivono o lavorano lontano, che vedono davvero raramente. Provo a farti ragionare sulla fortuna che hai nell’avere due genitori uniti, solidali, vicini, di quanto tu possa stare con me o con tua madre senza limitazioni o privazioni, di quanto sia bello poter fare qualche volta anche cose insieme, di quanto tutto questo non sia affatto scontato anche in una famiglia normale. Raramente mi sembri soddisfatta, forse un po’ rassicurata, non soddisfatta.
Nei giorni successivi a quelli in cui sei da me, ripercorro le stanze di casa osservando il tuo fantasma che saltella tra il salotto e la cucina, che si raggomitola sul letto per guardare un cartone animato, che appare all’improvviso alle mie spalle mentre sto lavando i piatti per farmi “bu!”, che è in bagno interminabili ore per fare la cacca, seduto alla scrivania in una posa da contorsionista per fare i compiti. Raccolgo le cose che hai lasciato sparse in giro, sistemo i disegni che inevitabilmente (e per fortuna) hai lasciato e qualche volta trovo qualche sorpresa. L’altra mattina, per esempio, passavo l’aspirapolvere in camera e nella fessura tra la parete e l’armadio ho trovato un pacchetto di confetti. Non c’era finito per caso, lo avevi nascosto tu, proprio lì. Sono confetti alla menta a forma di gessetti (uguali uguali a quelli che servono per scrivere alla lavagna). Te li hanno lasciati gli elfi in una delle caselle del tuo calendario dell’avvento. Eri un po’ delusa perché quando li hai assaggiati hai scoperto che erano alla menta. Mi sono immaginato che avresti voluto portarli a scuola, mostrarli orgogliosa alle tue amiche, inscenare una scenetta divertente nella quale li avresti presentati come gessetti per scrivere e poi davanti allo sconcerto generale ne avresti morso uno. La menta rendeva impossibile tutto ciò. Così me li hai lasciati a casa, spiegandomi che, in fondo, gli elfi non possono sempre indovinare. A me questo è bastato per pensare che quel sacchetto trasparente fosse a mia disposizione. Tanto è bastato anche ad Agata che, a dire la verità, me li aveva lasciati perché potessi farteli avere tramite gli elfi e che di suo ne andava già matta. È per questo che dopo qualche giorno hai ritrovato il pacchetto sulla mia scrivania decimato della metà dei gessetti. L’hai visto, hai pesato l’entità del danno sul palmo della mano e hai fatto quella faccia che fai quando vuoi fingere di essere arrabbiata. Hai detto quel “papi” con la a lunghissima e mi hai spiegato che gli elfi li avevano portati a te i gessetti, non a me. Mi hai fatto uscire dalla stanza e quando sono rientrato i gessetti erano spariti. 
Ecco, te lo scrivo qui. Magari lo leggerai tra qualche anno, quando i gessetti saranno scaduti. Nel frattempo li ho solo spostati per passare l’aspirapolvere. Poi li ho rimessi lì. Prima però ne ho mangiato uno. Uno solo, davvero.

Tutto tu vuoi

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo. Forse lo sei davvero. Questa bambina si chiama Ah. 
Proprio così, Ah. Come uno sbadiglio, come la prima nota di una risata, come dire “ho capito”. È un nome tra i sogni, la felicità e l’intelligenza. Secondo me è un nome bellissimo, e se fossi stato meno tradizionalista, se avessi avuto meno anni, idee più folli e l’ardire di seguirle, se tua madre non avesse saputo da sempre il tuo nome, adesso anche tu potresti chiamarti così.

Ah è nata in un giorno di pioggia sottilissima, aghi d’acqua tanto fini e innocui che non riuscivano a bagnare nessuno. Quel giorno il sole è sorto alle cinque e quarantasette minuti e tramontato inspiegabilmente due ore più tardi rispetto a quanto riportava l’almanacco. In quelle due ore Ah è rimasta quasi immobile nella sua culla, la sua mamma guardava oltre la finestra aspettando che la luce calasse, il suo papà guardava il suo cuore ormai perso, addormentato nel piccolissimo torace di Ah. Anch’io ho fatto questo nel tuo primo giorno di vita; guardavo te, instancabilmente, e guardavo il mio cuore scindersi come un atomo, diventare tuo, e crescere crescere. Crescere.
Ah non ha un’età precisa. Non è possibile stabilire quanti anni siano trascorsi dalla sua nascita. Fino al suo terzo compleanno ci sono state torte con candeline rosa, poi non più. Poi i pensieri e le parole di Ah hanno cominciato a evolversi in maniera spropositata, non appartenevano più a quelli di una bambina della sua età, non potevano essere contenuti in un numero. Cinque, sei, sette anni, nessuna di queste lancette le apparteneva. Tutto ciò che faceva era così stupefacente da non poter essere misurato, controllato. Il tempo non era più necessario. Lei ragionava con la saggezza di ottanta lune, comprendeva ciò che ai bambini viene celato, per proteggerli, si dice serva a proteggerli. Osservava apparentemente indifferente comportamenti che sarebbe stata presto in grado di ripetere con la precisione di un liutaio. Imparava termini mai usati da nessuno, disegnava mondi sconosciuti, abitati dalle persone a cui voleva bene. Disegnava enormi barche di zucchero e tendoni del circo in fiera nel cortile della sua casa. Al timone suo padre. Sul filo, sospeso tra una nuvola e una stella a trenta punte, suo padre. Marinaio ed equilibrista. E medico, dottore di tutte le malattie curabili con le caramelle. 
Ecco, queste cose possono sembrare sciocche. Ecco, non lo sono. Queste cose sono le stesse che fai tu, e credo le stesse che faccia ogni bambino del mondo, ma tu le fai meglio. Ogni bambino le fa meglio. 
Ogni bambino dal niente genera mondi irrazionali, eppure di quei mondi sa dire, raccontare, spiegare, con una logica convincente al punto da lasciare senza fiato il più illustre rettore universitario. Ogni bambino ha fermato il tempo il giorno in cui è nato. Tutti i bambini hanno rallentato la rotazione terrestre consentendo al sole di splendere più a lungo. È da qui che nasce l’espressione venire alla luce, non si tratta solo della luce fuori dal pancione delle loro mamme, è una luce speciale, un bacio dal cielo alla culla, lungo il tempo che serve a capacitarsi di quanto possa essere eccezionale il miracolo che avviene da sempre, eppure non riesce a perdere neanche una sfumatura d’ombra dello stupore che si trascina dietro a ogni respiro, passo, gesto.

Ti racconto questa cosa. Ah un giorno era a casa, era pomeriggio, sua madre le stava preparando il pane con la confettura di albicocche, le piacciono molto le albicocche. Suo padre non stava bene: solo un po’ di febbre, qualche starnuto. Ad Ah era stato detto di non avvicinarsi a lui, avrebbe potuto ammalarsi. Camminava appena, instabile, i passi strani dei cuccioli, che sollevano troppo le ginocchia e sembrano avanzare come muovendosi nel cerchio di una danza africana. Con quei passi è andata verso la stanza del suo papà, sua madre a rincorrerla per portarla indietro, invece non ce n’è stato bisogno. Ah si è fermata davanti alla porta, l’orecchio teso fino all’istante in cui un colpo di tosse è riuscito a sovrastare il volume basso della televisione, allora si è voltata, “tosse”, ha detto, l’espressione vagamente contrita andava trasformandosi in sollievo. “Tosse solo”, ha pronunciato queste due parole come a stabilire che era tutto a posto, tornando in cucina e sedendosi sullo sgabello, finalmente serena. Non so cosa siano le malattie per i bambini, un pericolo suppongo, intuiscono l’ipotesi degenerativa che si cela dietro quel termine, quella condizione. So che la premura e la dolcezza di Ah, che senza entrare, senza disturbare, si accerta che il suo papà sia malato ma ci sia, che stia bene in fondo, che la sua sia solo tosse, per me è una cosa così grande, dolce, così piena di protezione, interesse, e potrei andare avanti e riempire pagine di aggettivi, ma non lo farò. Dirò solo che per me sei tu, i tuoi baci piccolissimi, infiniti, pronti, come urgentissimi. La tua capacità d’intuire, sapere qual è il momento in cui quei baci mi servono davvero, e mi servono così tanto che non ricordo più di che colore fosse il mare, che sapore avessero le arance prima dei tuoi baci. 

Lascia che ti racconti ancora qualcosa. Ah ogni tanto canta qualche strofa della canzone preferita di suo padre, anche tu lo fai. È normale, va bene, facciamo finta che sia normale, ma non lo è. Ti piacciono canzoni diverse da quelle che ascolto io, eppure di tanto in tanto mi concedi di ascoltare dalla tua voce, che lo sai, è la mia voce preferita in assoluto, la versione live della colonna sonora di un pezzetto della mia vita. Non è normale quello che mi succede, non è normale come mi sento, dura un istante, un momento di comunione tra te, me e chi sono stato prima ancora che tu esistessi. Quell’istante non è normale.
Ah ha i suoi gusti, oltre alle albicocche le piacciono molto il cioccolato e la polenta che fa sua nonna in inverno, che è anche il piatto preferito di suo padre. Tu hai i tuoi gusti, ti piacciono le patatine e il gelato, non ti piace il cocomero. Allora, il cocomero piace a tutti. A tutti. È grande, tondo come un pallone da spiaggia, verde come una zebra se le zebre facessero la fotosintesi, e poi è rosso, dentro è sorprendentemente rosso, questo basta a renderlo fantastico. Poi c’è il fatto che il cocomero non lo trovi dal fruttivendolo tutti i giorni, come le carote, no, devi aspettare l’estate, il caldo, la fine della scuola, allora il cocomero diventa prezioso e spensierato, freschezza dopo tanto sudare. Il cocomero piace a tutti, per forza. Ma a te no. E neanche a me. Capisci? Vogliamo tornare a dire che è normale anche questo? Va bene. È normale. È normale solo se non sei un padre però. Altrimenti è magia, è qualcosa di mio che è cresciuto dentro te, qualcosa che non potevo immaginare fino al giorno in cui hai rifiutato quella fetta rossa e hai fatto la stessa faccia che credo di aver fatto io la prima volta in cui qualcuno mi ha messo davanti un cocomero dicendomi di assaggiarlo. Dicendomi che era buono, troppo buono.

Ah, e questo non è il nome di quella bambina. Ah adesso è il mio sbadiglio, il prologo di ogni volta che sogno di averti con me, è la prima nota della mia risata quando mi rendo conto che non ho bisogno di sognare, tu ci sei. 
È la parte più vera di me che comprende quanto meravigliosa sia la vita. Ah, ho capito. È questo il senso di tutto.
La tua vita, e la mia dentro la tua.

Culodritto

Quando siamo entrati a casa di Giacomo e Anne tu hai trascinato la tua valigetta fino al centro della stanza, hai fatto un giro a 360 gradi e hai esclamato “ma questa casa è piccolissima!”. Io ti ho fulminato con lo sguardo mentre Giacomo e Anne sono scoppiati a ridere. Tu non hai capito né le loro risate, né il mio sguardo e hai aggiunto: “ma come si fa a vivere in una casa così?”.
Lui allora ti si è avvicinato, per prenderti la valigia di mano e provare a spiegarti che a Parigi le case sono molto piccole ma che la gente si ingegna per renderle più vivibili, soppalcandole, arredandole su misura, riducendo all’essenziale le cose che servono per vivere.
Nel frattempo, io avevo raggiunto la finestra spalancata e sporgendomi sono rimasto folgorato, come fosse la prima volta, dal grigio bello di Parigi e dal Sacro Cuore che spuntava prepotente dietro all’ultimo palazzo a destra del mio sguardo. Alle mie spalle ho sentito lo scricchiolio del legno del soppalco accogliere i tuoi passi, mentre girandomi ti ho trovata affacciata a due metri d’altezza che mi facevi “ciao ciao”, ormai perfettamente integrata nella nostra casa parigina.

I tre giorni che sono seguiti sono volati come una parentesi leggera, tra baguette, croissant, quiches, la Senna, il palazzo dell’evoluzione, e cenette attorno al tavolino di Montmartre con prosciutto, salame, formaggi e vino. Tu osservavi ogni cosa e a me pareva di vederti così grande e indipendente da chiedermi se fossi tu a portare in giro me o io te. 
È stato così strano trovarsi per la prima volta all’estero, noi due soli. Mentre io ti racconto le cose che ricordo di Parigi e tu mi chiedi cosa significa “merci”, “aujourd’hui”, “toujours”. Poi ci fermiamo a comprare i biglietti della metro e io ripeto nella maniera migliore che posso la frase che ho tradotto di nascosto qualche minuto prima su google translate, osservando con la coda dell’occhio la tua espressione e riempiendomi il petto. Mi chiedo quanto di tutto questo rimarrà nella tua memoria, quando un giorno saprai raccontare del viaggio a Parigi che facesti a sette anni da sola con tuo padre. Quanto vorrei essere in quel momento che verrà per scoprire se sarò stato un padre divertente, coraggioso, simpatico, socievole, spigliato, il miglior padre del mondo, come ogni tanto mi dici.

Intanto, l’ultimo giorno andiamo alla Torre Eiffel che da mesi vuoi vedere, sin da quando hai cominciato regolarmente a vederla sullo sfondo di ogni puntata di Ladybug. Arriviamo sotto la torre e, come sospettavo, tu mi chiedi di salire in cima. Io allora ti propongo di prendere le scale perché, ti dico, “così potrai ricordarti della volta che tuo padre ti costrinse a scalare una torre alta 300 metri”. Tu mi dai retta e mi segui. Ci imbarchiamo allora nella nostra impresa, divertendoci a contare i gradini e scoprire solamente quando abbiamo superato la metà che il numero è scritto di dieci in dieci al lato della scalinata. Poi arriviamo al primo piano, per premio ci regaliamo una ciambella gigantesca nel bar con la vista sulla città e io ti propongo di proseguire almeno fino al secondo piano. Tu accetti ancora, stringendomi la mano. Al quattrocentisimo gradino però mi dici che non ne puoi più. Ci affacciamo allora alla balaustra e guardiamo fin dove lo sguardo riesce a vedere. Contempliamo Parigi, le nuvole che compongono animali giganteschi, lo strano sole che illumina i tetti.

Vedi, tesoro, ho pensato una cosa mentre eravamo sull’aereo di ritorno. La scrivo per non dimenticarla. Mi sono sempre addormentato istantaneamente ogni volta che sono salito su un treno o un aereo. Con te non è possibile perché vuoi che ti tenga compagnia e ti dica dettagliatamente cosa fare per non annoiarti. Così è andata anche stavolta. La mia testa, subito dopo il decollo, ha cominciato a penzolare e tu mi hai baciato, lasciandomi un bacio al sapore di Kinder Bueno sulla barba e chiedendomi di non dormire. Io allora ho preso il tappo della bottiglietta che avevamo davanti al sedile e ti ho detto “sotto mano di papà, dove sta qui o qua?”. Tu hai indovinato e a tua volta hai ripetuto il giochino. Quando è toccato di nuovo a me però ho lasciato che il tappo mi scivolasse sotto una gamba e ti ho chiesto di indovinare. Naturalmente non lo hai trovato e io non ti ho mostrato il vuoto che avevo pure nell’altra mano. Ho ripetuto lo scherzo per altre 10 forse 15 volte e tu ogni volta sbagliavi e ti arrabbiavi con te stessa per la sfortuna che avevi e mai, mai, hai pensato che anche l’altra mano potesse essere vuota. Fino a quando mi sono messo a ridere e ti ho rivelato lo scherzo. Ecco, amore, la fiducia cieca che hai in me è qualcosa di così unico e raro che probabilmente non esiste in nessun altro luogo della vita. Non so quando arriverà il momento in cui tutto questo si spezzerà e semplicemente dubiterai di me. Fino ad allora, io sarò il tuo eroe e potrò farti scalare 400 scalini della Torre Eiffel come fosse un gioco o convincerti che una mano chiusa contiene inevitabilmente un tappo. Tutto questo non ha nome ma è senz’altro la sensazione più bella che io abbia mai provato. Ecco, volevo farti una promessa anche se non so quanto saprò mantenerla. Volevo prometterti che non nasconderò mai più il tappo.

L’Internazionale

Le maestre della tua classe hanno deciso di mettere in scena per la recita di fine anno una rielaborazione di Inside Out e, dopo alcuni provini, hanno assegnato le parti.
Tu sei tornata a casa triste e malinconica, raccontando che ci eri rimasta male perché ti era toccata la Noia mentre tu avresti voluto con tutta te stessa essere l’Amore. Mi ha fatto sorridere il fatto che nel tuo mondo non stai interpretando una parte quanto piuttosto assumendo quel ruolo nella vita. Questo ti ci ha fatto rimanere male, forse perché deve essere scattato in te un meccanismo mentale per il quale devi aver pensato che affidandoti quella parte per le tue maestre sei una bambina noiosa.

Io, per farti ridere, ti ho detto che ti avrei visto meglio come La Lagna ma non ha attecchito poi tanto.
Mi sono così fermato a riflettere un secondo su quanto siamo diversi e, ancora, sulle cose che io avrei sempre voluto per te, sin dal primo momento che ti ho vista.
Il mio puffo preferito, quando avevo più o meno la tua età, era brontolone. Pur amando esageratamente la perfetta armonia che regnava a pufflandia, mi piaceva da morire il suo brontolio di sottofondo, quell’imperituro io odio le puffragoleio odio le festeio odio l’estate, mi pareva il modo migliore di non essere omologato alla massa dei puffi che accettavano passivamente l’andirivieni delle giornate. Che poi, brontolone il più delle volte si limitava a lamentarsi ma, di fatto, si allineava alle regole come tutti gli altri. 

Io mi sentivo simile a lui. Nel mio mondo di bambino, banale e un po’ noioso, provavo con tutto me stesso a respingere la banalità delle giornate con il mio “io odio”, pur restando ligiamente dentro al sentiero delle regole. Sono cresciuto allo stesso modo, alternando periodi di ribellione a stasi che potevano durare lunghissimi mesi. Forse pure per questo, se mi avessero assegnato la parte della noia lo avrei probabilmente trovato divertente e mi avrebbe fatto sentire fuori dal coro.
Eppure – e per fortuna – tu non sei me. E, nonostante gli ingenui tentativi di ricercare in te parti di me, è da quando sei piccolissima che tento, con la complicità di tua madre, di inculcarti valori, passioni, ideali che siano il più universali possibili, ben al di là dei miei che si sono scontrati quasi sempre col cinismo e il disincanto. 

Quando eri ancora nella pancia di tua madre – per dire – spesso la sera ci sdraiavamo uno accanto all’altro a letto, io le scoprivo la pancia, bussavo delicatamente e ti parlavo. Una delle prime cose che avevo comprato per te, era un carrillon che produceva le note de L’Internazionale. Chiedevo la tua attenzione e mi immaginavo te, piccolissima e svelta, che avvicinavi l’orecchio alla parete della pancia. Io avviavo il carrillon e cominciavo a cantare sottovoce Compagni avanti il gran partito noi siamo dei lavoratori

Tutto è cominciato così, con le note di una canzone senza tempo. Sin da allora, avrei voluto per te solo il meglio: lealtà, sincerità, onestà, altruismo. Cose che provo (proviamo) a farti vedere e sperimentare in ogni singolo istante delle tue giornate.
Così, se oggi quando andiamo in giro non mi sorprendo se ti vedo ficcare nello zaino la Costutuzione italiana per bambini, forse non dovrei sorprendermi nemmeno perché nella recita di fine anno vorresti essere l’amore. 

Sui fallimenti e i successi – parte prima

Di recente mi hai visto poche volte sereno, sebbene io faccia di tutto per mascherare i miei stati d’animo e sembrarti sempre allegro, pimpante, rilassato, smart. L’immagine del papà che vorrei essere, quello che le amichette di scuola potrebbero invidiarti. Ovviamente tanto più il mio attegiamento diventa posticcio, tanto più è facile per te indovinare le situazioni e interpretarle. Così, a seconda dei casi, diventi più affettuosa, talvolta enormemente amorevole, al punto da non mollarmi un secondo, tenermi continuamente stretto a te e sussurrarmi cose dolci tipo “papà io ti amo da morire!”. Tutto questo è così commovente che qualche volta sono costretto a girarmi di scatto e inventarmi scuse diverse per nascondere le lacrime che vorrebbero a tutti i costi liberarsi di me. Altre volte invece sei decisa e diretta e mi chiedi “papà è un sacco che non ti vedo ridere? Perché non ridi?”. E io invento situazioni buffe per le quali siamo costretti entrambi a ridere. 

È forse anche per questo che ti sei meravigliata molto quando qualche giorno fa all’uscita di scuola mi hai trovato con un sorriso smagliante. Mi sei corsa incontro, mi sei saltata in braccio e mi hai sentito dire “andiamo a prenderci un gelato, devo raccontarti una cosa!”.
Così, davanti al tuo cono cocco e amarena e al mio puffo e fragola, ti ho raccontato che ho vinto un concorso. “Ti ricordi”, ti ho detto, “quando fino a qualche settimana fa mi vedevi sempre studiare, avevo riempito una parete di post-it e la scrivania era ricoperta di appunti e libri?”
Stavo studiando per un concorso che mi avrebbe permesso di ottenere un livello più alto a lavoro e oggi ho ricevuto una telefonata che mi ha confermato di aver vinto. Era un esame estremamente difficile, nella fase preselettiva eravamo più di mille, allo scritto siamo arrivati in duecento, all’orale in venticinque e di questi venticinque tuo padre è arrivato ottavo. L’ho detto riempendomi il petto, mostrandomi molto fiero e tu mi hai guardato come un padre vorrebbe che una figlia lo guardasse tutti i giorni della sua vita. Mi hai poi chiesto “e gli altri?”. Io ti ho risposto “gli altri cosa?”. “Gli altri, quelli che non hanno vinto, ci sono rimasti male?”. “Beh, non so. Non li conosco personalmente.” 

Ne ho approfittato per rifilarti la manfrina di rito del “se ti impegni puoi raggiungere qualunque risultato e solo chi crede davvero in quello che fa ottiene quello che desidera”.
Tu mi hai fatto un sorriso bellissimo. Hai guardato un punto lontano e mi hai detto “papà lo sai che oggi a scuola abbiamo giocato a Uno?”. “Bello!”, ti ho risposto. “Io però ho perso”, hai aggiunto mesta. Ora, io so che tu sei tra gli alunni migliori della tua classe e che le maestre te lo ricordano continuamente. Avresti dunque potuto soffermarti su questo e pensare qualcosa tipo “se continuo così allora da grande potrò fare la dottoressa, il veterinario, la ballerina, l’astronauta”. Invece hai fatto prevalere quel tipico difetto di famiglia per il quale ci piace da morire concentrarci sempre sul vuoto del bicchiere. Stavolta però non te l’ho data vinta e non ti ho consolata. Ti ho fatto una pernacchia e detto “perché sei una schiappa!”. Tu hai riso, fatto finta di offenderti e aggiunto “quando arriviamo a casa facciamo una sfida all’ultimo sangue a Uno?”