Gulliver

Probabilmente una scatola di Lego è il regalo che ho chiesto di più a Babbo Natale, seguito a ruota dal Meccano e da una quantità di giochi da tavola che non saprei elencare. Ci metto anche un aeroplano radiocomandato, una 4×4 con le ruote snodate, un costume dell’uomo ragno, dei walkie talkie con un raggio d’azione molto ampio, una pista Carrera con due giri della morte, 15 metri di ferrovia Lima e una locomotiva a vapore. Naturalmente non ho mai avuto nessuna delle cose elencate e nemmeno quelle che sono apparse nei desideri degli anni successivi: macchine fotografiche per lo più, biciclette da corsa, kit da disegno, dischi, tonnellate di libri, un ampio catalogo di oggetti di antiquariato o modernariato: dalle macchine da scrivere, agli orologi da tavolo degli anni 30, orologi da taschino marchiati URSS, lettere autografe di autori estinti, radiosveglie con i numeri a cartellino, rarità di vario genere e poi ancora Lego, in cima alla lista la Delorian e la Ecto-1.
Diresti tu che non ho mai ricevuto nessuno dei doni che avevo in mente perché non ho mai inviato veramente una lettera a Babbo Natale e io non saprei come darti torto.

Nella tua lettera di quest’anno, invece, hai chiesto l’armadio di Barbie con una collezione di vestiti da sera, Cenerentola e la sua carrozza, le costruzioni magnetiche, un kit professionale da disegno, quello che ai miei tempi si chiamava Gira la Moda e che oggi si chiama Fashion Design (segno dei tempi che passano). Non so, ho come il sospetto che Babbo Natale ti accontenterà su tutto. Perché hai avuto il coraggio di chiedere, diresti tu e io non saprei come darti torto.
Per Natale io invece mi sono regalato una ruga nuova. L’ho trovata qualche mattina fa guardandomi allo specchio. All’inizio ho pensato si trattasse del segno del cuscino sulla fronte. Mi sono lavato, ho fatto qualche smorfia alla mia faccia che mi guardava, poi sono andato a far colazione. Il mattino dopo ho ritrovato lo stesso segno, esattamente nello stesso posto e allora mi sono fermato a guardare meglio, avvicinandomi allo specchio. La mia faccia sembrava la faccia di un’altra persona vista da vicino. Ho lisciato i lembi della fronte, massaggiato l’epidermide, stirato e ricomposto la fronte. Niente, il segno era sempre lì e allora ho capito che non si trattava del cuscino ma del 2020 che sta per arrivare e che porta con sé i miei 40. Ho avuto un sussulto. Non credo di aver mai pensato al mio aspetto in questi termini ma ho provato una specie di paura. Sto invecchiando ho pensato, seguito da una parolaccia (sì, quella della canzone). Mi sono allora girato di scatto, cercando disperatamente tra le cose che Agata ha lasciato nel mio bagno qualcosa che potesse alleviarmi l’ansia. Ho trovato un barattolino di vetro con la scritta antiage e me ne sono spalmato un abbondante strato su tutta la faccia. Ho rifatto la stessa cosa il giorno dopo, mentre stamattina ho semplicemente deciso di non guardarmi allo specchio. 

Mi sto però chiedendo se adesso somigli di più a mio padre o a mio nonno, poi mi è venuto il dubbio che possano cadermi i capelli, venirmi il diabete, l’asma o l’osteoporosi. Alla fine mi è salita un’ansia così grande da venir voglia di ordinare su due piedi una sedia a rotelle o cercare una badante. Pensavo a tutte queste cose anche quando nel pomeriggio ho portato te e la tua amica al cinema a vedere Frozen II. Ero un po’ distratto da questi pensieri mentre voi due parlottavate di Anna, Elsa, Olaf e gli altri. E subito dopo aver parcheggiato, sono sceso dalla macchina, vi ho chiuse dentro e ho fatto finta di andar via. Voi avete cominciato a ridere, bussando ai finestrini e urlando “Aiuto! Aiuto” ma solo per finta. E mentre camminavamo verso il cinema vi ho chiesto “voi sapete cosa fa Elsa quando fa la cacca?” e non lo sapevate e io ho risposto “i Polaretti” e avete riso come matte. E poi ho sentito la tua amica dirti a bassa voce “tuo padre mi fa ridere sempre tanto, è proprio simpatico” e ho cercato e incontrato il tuo sguardo e ti ho vista fiera e solo allora, in quel preciso istante, ho capito che avevo appena ricevuto il mio regalo di Natale, uno di quelli che non ho mai chiesto e senza dubbio il più bello e unico di sempre. 

Sogna, ragazzo, sogna

Cara E,
abbiamo saputo che ultimamente ti stai chiedendo chi lasci davvero i regali nei cassettini del tuo calendario dell’avvento, perché qualcuno ha insinuato il dubbio. È una cosa triste. Sai, ogni volta che un bambino smette di credere in noi, non riusciamo più a entrare nella sua casa. Sappiamo che ti stai chiedendo perché veniamo a farti visita da così tanti anni nel periodo di Natale e perché, allo stesso tempo, non abbiamo mai visitato le case dei tuoi amici. Purtroppo non è una cosa che scegliamo noi. I bambini del mondo scelgono se aprirci i loro cuori, che sono le porte attraverso le quali troviamo la luce per muoverci al buio delle stanze, le chiavi grazie alle quali apriamo portoni, palazzi, fortini moderni. Tu hai scelto di credere, e questo ha creato la strada per arrivare fino al tuo calendario.
Chi c’è davvero dietro quel cioccolato, quelle caramelle, quei piccoli doni colorati che scopri ogni mattina al tuo risveglio è una domanda che solamente chi ha il cuore fermo può farsi. Cosa è vero? Cosa non lo è? Non fartelo mai spiegare da chi guarda il mondo solo attraverso gli occhi. Perché ha deliberatamente deciso di perdere una porzione di realtà che non sarà mai più in grado di afferrare.
Credi invece al tuo cuore e non dar retta a chi prova a condizionare i tuoi sogni. Il tuo cuore ha sempre ragione e tutte le favole, proprio tutte, sono vere. Sono vere finché tu le tieni in vita. 
Crescerai, stai già crescendo, diventerai presto una bambina matura, poi un’adolescente e poi una giovane donna. Le favole non ti abbandoneranno, cresceranno con te, trasformandosi con te. Un po’ alla volta si allontaneranno dalla fantasia diventando emozione, saranno una parte della tua essenza, la maniera in cui penserai e farai le cose di ogni giorno. 
Le tue favole di ieri e di oggi diventeranno reali; la forza di cui avrai bisogno, la sensibilità che ti servirà per voler bene, amare. Allora potrai smettere di credere, ma non sarà più importante. Perché la magia e la sorpresa ti avranno già resa una persona migliore. Troverai la tua lettura di ogni favola e ogni riga, ogni istante delle storie che avrai abitato diventerà metafora di bellezza, giustizia, coraggio. Simbolo del tuo saper vivere il mondo senza allontanarti dall’azzurro di tutte le cose possibili. Tu sarai dentro ogni fiaba, sarai il lupo e la principessa, la pianta di fagioli più alta che si sia mai vista, sarai un cane capace di volare e forse anche una fatina dispettosa, sarai tutti loro. 
Sarai capace di credere, saprai vedere una soluzione per tutte le cose, un rimedio per ogni tristezza, un piccolo miracolo dentro ogni gesto.
Saranno così tante e belle le cose che ti capiteranno da non riuscire più a distinguere quelle vere da quelle magiche. Ma cosa importa. Tutte le favole sono magiche. Tutte le favole sono possibili. Allora sono possibili anche le magie e se sono possibili sono vere. 
Non saranno le bacchette o le formule a farle capitare, sarai tu. Saranno le persone che il tuo cuore ha scelto, sarà tutta la fame d’incanto che stai nutrendo adesso e che non ti stancherai mai di alimentare.
Hai il diritto di continuare a crederci. E noi ti saremo sempre grati per averci ospitato e per continuare a farci vivere nel tuo cuore. Solo tu hai reso possibile tutto questo. Sogna più forte che puoi, chiudi gli occhi e resta in ascolto: li senti i nostri passetti felpati?

Ti vogliamo bene.
I tuoi amati Elfi  

Trenta

L’acqua evapora a qualunque temperatura maggiore dello zero, me lo ha detto Agata. “Come si asciugherebbero altrimenti le strade quando piove?”, mi ha chiesto. Io sono rimasto come Galileo davanti alla luna.
Ho sempre pensato che l’acqua evaporasse solo a cento gradi e che in condizioni normali semplicemente si spostasse. Quando ti asciugo i capelli, l’acqua scivola lungo le ciocche fino a cadere giù. Quando stendo i vestiti, la gravità spinge l’acqua verso il basso, fino a lasciarli asciutti. Le strade sono sempre e solo state asciugate, dopo un temporale, dalle gomme delle automobili che trasportano l’acqua chissà dove. 
Eppure, dove finisce l’acqua dei tuoi capelli o quella del bucato steso sullo stendino? Non ci avevo mai pensato. 
Mi sento come la Pimpa. Agata deve allora essere Armandone. Io imparo da lei. Tu impari da me, di riflesso quindi da lei. 

L’altro giorno ho conosciuto Ahmed per merito suo. Lei non c’era ma c’era. Lui stava confezionando un mazzo di tulipani, rose e girasoli. Io gli ho chiesto il suo nome. Mai fatto una cosa così in tutta la mia vita. Magari avrei scrollato Instagram, letto il sito di Repubblica, risposto ai messaggi accumulati su whatsapp, mentre lui faceva in silenzio il suo lavoro. Gli ho chiesto invece il suo nome, come avrebbe certamente fatto Agata, ridendo della sua risata allegra e spensierata. 
All’inizio mi faceva ridere e soffrire. Soffrivo come si soffrono le cose che non conosciamo. Due anni e mezzo che vivo in questo quartiere e mai detto più di “buongiorno” entrando nel bar sotto casa. Un giorno andiamo a prendere la macchina e la sento urlare “Ciao Giulio!” mentre stavamo soltanto passando lì fuori. Il mondo è così per lei: pieno di storie da scoprire. Vorrei fosse un po’ così anche per te.

Tu ancora non sai chi è Agata. Ma è stupido pensare che sia realmente così. Sai, ho capito che hai capito. L’ho visto chiaramente nei tuoi occhi l’altra sera. Hai trovato una fetta di torta ricotta e cioccolato nel frigo. Mi hai chiesto “chi l’ha fatta?”, col boccone in bocca. Ho risposto “Agata”, affrettandomi ad aggiungere “una mia amica”. Tu hai fatto una faccia furba che pareva dire “sì, papi, so bene chi è Agata”.

Ora penso che l’acqua caduta sul pavimento, se non l’asciugassi con lo straccio, domani non ci sarebbe comunque più. Deve essere un po’ come questo stupido imbarazzo che provo nell’incontrare quello sguardo e che mi fa nascondere la testa nel frigo. Domani non ci sarà più, ma tu sai già anche questo.  

Pezzi

Ho cominciato collezionando monete grazie a un sacchetto che mi aveva regalato tuo nonno, quando avevo più o meno la tua età. Non c’era nulla di grande valore dentro anche se a me sembrava un tesoro inestimabile. Solo monete avanzate da alcuni dei suoi viaggi: Spagna, Argentina, Grecia, Turchia, Portogallo. Le ricordo ancora adesso. Una era di rame e aveva un buco al centro. Ora che ci penso dovrei cercarle e regalartele.
Tuo zio quando eravamo piccoli aveva una collezione ingombrante e polverosa di lattine. Ne aveva tonnellate che impilava su una mensola nella nostra cameretta. Erano tutte vuote e se c’era una piccola scossa di terremoto venivano giù con grande clamore. Anche Agata mi ha detto di aver fatto la stessa collezione, parlandomi di una lattina di Four Roses and Cola che ricordo benissimo anche nella collezione di tuo zio. Agata colleziona anche conchiglie che tiene in un vecchio braciere sopra a un tavolino di vetro in soggiorno. Ultimamente gliene ho regalato una piccola e tonda che lei ha riconosciuto come un riccio. Ora è in un piatto antico vicino a un sasso di fiume levigato. Colleziona anche accendini ma non lo sa. Ne ha migliaia, raccolti in piccoli mucchi dentro barattoli e vasi sparsi in tutta casa. Ne ho contati più di cento: in bagno, vicino al water e sulle mensole, in soggiorno, in cucina, all’ingresso. Sotto al lavandino c’è la scorta più consistente, credo siano quelli esauriti. A me piace collezionare ricordi delle sue scarpe che impilo uno sull’altro, come in una successione di Fibonacci e ogni tanto riallineo per il gusto di sbalordirla.
Giacomo, ai tempi in cui abitavamo insieme, collezionava oggetti rubati nei pub: boccali di birra, bicchieri, vassoi che un giorno avrebbero riempito la sua cucina pub. Quando lo ha raccontato ad Anne lei ha risposto che era l’idea più ridicola che avesse mai sentito.  
Una volta ho conosciuto una ragazza che collezionava lettere d’amore, scritte e spedite più di cinquant’anni fa. Le trovava nei mercatini, su ebay, per caso. Le leggeva senza capirle e poi annotava su un quaderno i pensieri più belli. A me pareva una cosa invadente e rumorosa, come entrare a rubare in casa d’altri.
Per lungo tempo ho collezionato schede telefoniche che ora sai anche tu a cosa servivano da quando abbiamo incontrato una cabina e te l’ho fatta usare. Non riuscivi a smettere di ridere mentre infilavamo le monete nella fessura e componevamo il numero di tua madre. Quando hai riagganciato la cornetta hai detto “ah, i favolosi anni 80”. 
Tu collezioni punte di matite colorate. Ogni volta che una punta ti si spezza, la raccogli e la infili in una scatolina insieme a tutte le altre. Un barattolino trasparente e decine di mine colate. Qual è il senso? Lo stesso di qualunque collezione. Appassionarsi all’idea che cresca, come un seme piantato nel terreno che lentamente diventa grande e importante e non si riesce a separarsene. Mi piace l’idea che ogni mina spezzata rappresenti un inciampo, un intoppo, una pausa che metti via e non butti: i tuoi ostacoli sono tutti colorati e ti tengono compagnia dall’interno del tuo astuccio.

C’è chi colleziona sottobicchieri, qualcuno colleziona chitarre, altri magliette o sciarpette di squadre di calcio, biglietti del cinema, di concerti, di partite allo stadio, dischi di Lou Reed, cappelli, barattoli, spezie, sassi, sabbia del mare, cimeli, palle da biliardo, gettoni, biglie, palle salterine, bottoni, bracciali, cartoline, orologi, macchine fotografiche, macchine da scrivere, macchine da guidare, macchinine bburago, chiavi, penne, tappi, post-it, anelli, giornali, scatole di latta, occhiali, carillon, caffettiere, autografi, farfalle e insetti, ex libris, pinocchio, spille, stampe, radio, spartiti, timbri, trottole, ventagli, scacchi, locandine, minerali, ferri da stiro, bustine di zucchero. 

Io colleziono lettere per te, questo è il posto in cui le conservo.  

Un bene dell’anima

Ho conosciuto Antonello a Lettere, il primo giorno. Eravamo in pochi, noi due stavamo a qualche posto di distanza e durante una pausa abbiamo cominciato a chiacchierare. Ci siamo incontrati alla lezione successiva, poi a quella dopo. In aula, al quarto appuntamento, si è aggiunto Gianluca. “È simpatico, è milanese”, Antonello me l’ha presentato così. Gianluca invece era di Pesaro, sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, oltre che coinquilino dei sette anni che seguirono. È stato lui a rivelarci, sbalordito e divertito, che il corso che stavamo seguendo ormai da due settimane non era quello che pensavamo. Avevamo confuso le aule e i docenti, senza renderci nemmeno conto che gli argomenti trattati erano lontanissimi da quelli che avremmo dovuto aspettarci. Continuammo comunque a frequentare, entrambi. Più per comodità che per reale convinzione.

Antonello era di Roma, abitava a San Giovanni, con i suoi. Veniva da noi ogni volta che poteva, a pranzo o a cena, a bere il caffè della nostra moka, a fare niente. Frequentava casa nostra come fosse sua; credo lo fosse. Non sono mai entrato completamente nel suo mondo, come esistesse una diga tra la nostra acqua e quella che scorreva nel tempo lontano da noi, ma questo non ha mai impedito alle nostre anime di abitare le stesse stanze. Lui invece conosceva perfettamente il nostro mare, al punto da sentirsi un fuorisede, come noi. 
Dopo la laurea, ci ritrovammo quasi inconsapevoli a fantasticare il Sudamerica. Non dimenticherò mai il giorno in cui andammo in motorino alla biglietteria delle Aerolineas Argentinas, in via Cavour. Negli astucci celesti un biglietto per Buenos Aires e uno di ritorno da Lima, piantato a quasi due mesi di distanza

Ti accompagno a scuola, piove e c’è traffico. La macchina copre l’asfalto a singhiozzi. Sonnecchi, accendo la radio. La voce di Lorenzo ti sorprende, ti cattura, ormai lo riconosci, anche nelle canzoni che non hai mai ascoltato. 
Che cos’è un amico, nessuno lo sa dire.  
Mi sorprendo anch’io, impantanato come sono a pensare queste cose.

Non vedevo Antonello da qualche anno quando quest’estate l’ho incontrato a Barcellona. Una telefonata, un appuntamento, un treno, un abbraccio lungo abbastanza da colmare gli anni trascorsi. E poi una giornata al sapore inconfondibile di ricordi e affetto. 
Lui vive lì, insieme a una ragazza col sorriso negli occhi. Sono belli insieme. Sono belli anche quando non sono insieme, accesi da una bellezza comune, che traspare in ogni cosa che pensano o fanno. Ho visto la loro casa, abbiamo mangiato insieme, ci siamo commossi rincorrendo i fotogrammi del viaggio tenuti in serbo per momenti come questo, svegliando la memoria e resuscitando i ragazzi che eravamo. 
Il giorno dopo io avrei cominciato il mio cammino verso Santiago. Prima che salissi di nuovo sul treno ci siamo abbracciati. Forte. Più forte. Mi ha detto  “buona fortuna”, solo questo. Valeva però come “buon viaggio”, come un “ci sentiamo”, oppure, senza sentirci, “ci incontriamo nei pensieri belli”. Valeva come “ti voglio bene”. Davvero. Credo si possa applicare al  bene, a volte, la stessa logica che si applica al dolore; lieve è quello che ha voce, grave quello muto.
Mi sono sentito al suo fianco proprio ieri, mentre leggevo una sua mail: nel suo racconto ho visto chiaramente la sua espressione, sempre uguale, solo un’insignificante manciata di anni in più e la preoccupazione di non sapere se ha fatto abbastanza a piegare un po’ la pelle intorno agli occhi e sulla fronte. Mi sono chiesto se gli ho mai raccontato davvero chi sono, come sto, cosa faccio. Gli ho parlato abbastanza di te?

Tu mi guardi, annuisci come se stessi leggendomi la mente e la memoria, io ti amo e spero che la mia espressione sappia comunicartelo. Sono così, ho l’ansia di saperti piena del mio bene, di  vederti sorridere davanti alle cose buffe che metto in scena per te, come quando eravamo a Parigi e in metro ho cominciato a urlare “sono stanco, non ce la faccio più, ti prego portami in braccio”, prima che tu potessi iniziare la tua lagna ormai nota. Ridevi, riconoscendoti nella mia esibizione, ridevi e ridevi, a me veniva da piangere. L’ansia di farti vedere un film della mia infanzia, e scoprirti a distanza di settimane fare ancora la mossa della gru di Karate Kid, o ripetere fino allo sfinimento una battuta che ci aveva fatto tanto ridere. 
Ho l’ansia di sorprenderti, sbalordirti al telefono quando ti chiamo e a volte, prima di dirti “ciao”, ti ripeto a memoria una frase della lettura che ti ha assegnato la maestra, sulla quale ti stai esercitando proprio in quel momento. No piccola, non ho poteri magici. Devo confessarti che c’è un gruppo whatsapp di scuola, nel quale ogni tanto una mamma chiede ai genitori di pubblicare la foto della lettura del giorno perché magari il figlio era distratto, o malato.

Sai, tesoro, adesso, in questa macchina, sul finire di questa canzone, mi sale una nuova ossessione. Voglio che la vita ti riservi amici come i miei. 
Come Antonello che vive a Barcellona, ma è come se abitasse ancora alla Caffarella. 
Come Gianluca, che si è appena trasferito a Mosca e mi manda foto della tomba di Gagarin, dimostrandomi di essere lontanissimo, eppure nello stesso luogo in cui sono io quando una notifica mi avvisa del fatto che mi sta pensando, che mi conosce come pochi, che non smette di  percorrere la nostra strada comune. 
Come Liberato che è a Londra da una vita, e ogni santa volta mi chiama dicendo “come stai?” al posto di “pronto”. Lui che una volta ha preso un aereo per capire cosa mi succedeva, e ha cenato da solo nella mia cucina perché io non avevo la forza di affrontare quella giornata, e mai, mai me l’ha ricordato. Lui che per i miei trent’anni mi ha regalato la colonna sonora della nostra storia, tutte le note, non una in meno, del nostro conoscerci. E adesso, a distanza di dieci anni, quel disco è incorniciato e poggiato sulla scrivania, pronto a uscire da questa casa e seguirmi ovunque andrò. Liberato quest’anno compirà quarant’anni, e io in fila a seguirlo, anche se non so se sono pronto e mi sento ancora il ragazzino al binario che lo portava in aeroporto e lo salutava col pugno alzato cantando in mezzo alla gente “fratello non temere che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria”, come c’entrasse davvero qualcosa. Chissà se lui se lo ricorda. Se sa che in ogni istante dei quasi 33 anni che ci conosciamo e di tutti quelli che verranno per me ne ha sempre avuti cento e ne avrà sempre solo sette.
Vorrei prometterti amici come quelli che ho io, irrinunciabili. Vederli crescere al tuo fianco, schierati dalla tua parte. Amici che ti stiano vicino, dentro. 
Amici capaci di essere te, ogni volta che tu non sai più chi sei. 

Arriviamo, scendo per primo e vengo ad aprire il tuo sportello. Le tue compagne riconoscono la mia macchina, ti salutano come se non ti vedessero da mesi, ti aspettano. Penso non sia necessario desiderare o prometterti niente. Hai già la tua vita, il tuo modo speciale di essere te stessa, riempi stanze di cuori e amore. Qualche giorno fa eri al parco, una tua amica stava piangendo, le sei andata vicino e le hai detto “adesso pensiamo intensamente a qualcosa di bello”. Eccolo il segreto dell’amicizia. L’hai scoperto. Dovremmo scrivere a Lorenzo questa sera, per farglielo sapere. 

Scendi dalla macchina, ci salutiamo. Ogni volta che ti lascio davanti scuola, tu mi baci distratta. Mentre stai entrando io ti chiamo e ti chiedo di darmi un bacio più forte, poi un altro e un altro ancora, fino a quando mi dici “papi devo andare”. La mia espressione supplichevole ti spinge di nuovo verso di me, un ultimo velocissimo bacio che si perde nel sorriso che ti stampi sulla bocca e ti porti in classe. Hai mai saputo che, dopo che sei entrata, rimango un sacco di tempo davanti scuola a guardare le mattonelle dell’atrio che hanno visto i tuoi passi un attimo prima? 

Come mai un casino sembra un posto perfetto.
Quanto abbiamo riso, e quanto rideremo.

Cuori

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo, forse lo sei davvero, anche se nella mia immaginazione che si confonde con la memoria, questa bambina ha i capelli lisci e bruni, la carnagione molto più scura della tua e due occhi profondissimi. Ha avuto un’infanzia complicata. Un po’ ce l’abbiamo avuta tutti. Lei però ogni giorno che vive trasforma la sofferenza in perle, con le quali fa una collana lunga lunga che quando sarà abbastanza grande per metterla al collo, potrà avvolgere due, tre volte e indossare con disinvoltura, senza eleganza e senza importanza, come si portano due Stan Smith ai piedi, di quelle bianche con la lingua rossa all’altezza dei talloni. 
Non le diamo un nome, perché non ha alcuna rilevanza e perché questa bambina odia apparire. Odia pure le fotografie e anche questo un po’ lo avete in comune, anche se tu te le lasci fare ma più per farmi contento che per reale trasporto. Ha un fardello, grande come una casa, una casa senza le finestre, senza le porte, come quella della canzoncina che canti tu. Lei potrebbe rimanerci dentro, incastrata per tutta la vita. Ma ha una tecnica, un modo tutto suo per entrare e uscire. E alla lunga stare dentro o fuori è diventato sopportabile, poi gestibile, poi ancora naturale. E dentro tutto è usuale, anche se scomodo. Non fa però paura, è solo un posto come un altro e non è casa. Casa è ovunque mette i suoi piedi scalzi. E lei ha la tendenza a togliersi le scarpe ogni volta che può, un po’ dove capita. Poggia la pianta nuda del piede sul pavimento, sulla strada, sulla sabbia e quel posto diventa casa. Immaginati che questa bambina abbia un segreto. Un segreto che le si legge in faccia. Uno di quei segreti che si imparano in anni di solitudine, di amore così pesante da sopportare eppure presente, sempre presente, da non sapere dove metterselo. Vive una vita che è sempre e solo sua, nella quale diventa ogni giorno più grande pur restando piccola. Il tempo scorre ma lei non ha voglia di riacchiapparlo, correggerlo, scuoterlo, come capita a tutti di voler fare. Lei lo sa vivere e lo vive diventando la donna che sarà pur non essendo mai la donna che è. Vederla, in ogni istante di questa vita, è uno spettacolo senza precedenti. Te la devi immaginare, in un fotogramma qualunque di questa esistenza, mentre cammina scalza, le spalle larghe per spalancare la gabbia toracica e far entrare più aria possibile, andare avanti a saltelli che somigliano a passi di danza leggeri. Puoi vederla come vuoi anche se so già la immaginerai come una principessa, perché le principesse entrano sempre, inevitabilmente, dentro le tue storie. Allora facciamo davvero che è una principessa e un po’ davvero lo è. Pocahontas, potrebbe essere lei. E se è una principessa vuol dire che in questa storia deve comparire anche un principe. E facciamo anche che compaia. Eccolo lì. Solo che non è un principe qualunque, di quelli a cavallo e vestiti d’azzurro. Questo è un principe poco principesco. Più un pirata o un bucaniere, ma deve essere principe altrimenti questa storia non funzionerebbe. E allora sia principe. I due si incontrano e lei capisce che ha trovato il contenitore nel quale versare i litri di corallo che porta con sé da sempre. Ma lui distratto com’è, ha lasciato la vasca senza tappo e tutto ciò che ci versi finisce giù per lo scarico. È uno spreco enorme, uno di quegli sfregi così pesanti da farti perdere fiducia nell’umanità. Eppure questa è una favola, abbiamo detto così. E nelle favole accade sempre qualcosa che stravolge tutto, proprio quando tutto sembrava perduto. Una caduta da cavallo, un incidente di percorso, due briganti che afferrano il nostro principe di notte al buio e lo riempiono di botte.  Non so esattamente cosa. Forse solo qualcosa che accade, senza che nessuno capisca, solo accade. Lei è lì accanto a lui, gli tende la mano e, per la prima volta, sussurra il suo segreto. Semplice e leggero come un respiro, gli dice “muoiono tutte le brutte cose di tutti i giorni”. Il principe riapre gli occhi e gli pare sia la prima volta che guarda in faccia il mondo, si sente come risvegliarsi da un torpore che lo teneva fermo da sempre. È sbalordito, si strofina gli occhi e adesso sa solo che è vero. Immaginati che in quel momento appaia tra le sue mani uno strumento a fiato. Forse lo teneva nello zaino. Diciamo un clarinetto e uno Smetana, facciamo che è Smetana. Il punto è che questo principe su un pentagramma non distinguerebbe un semitono da una chiave di violino. Eppure improvvisamente ha poggiato i polpastrelli sui tasti e sta suonando la Moldava. Così. So che non devo convincerti sia vero. Tu lo sai già, perché per te, come per lei, certe cose non si dicono, si sentono, non è vero? 

Ti ho raccontato questa storia perché ho scoperto solo oggi che certe declinazioni che nelle favole sono quasi ovvie per me non lo sono mai state. E allora ho deciso di farmi insegnare anche questa conseguenza logica da te che credi profondamente nelle favole: se ogni cosa è possibile allora ogni cosa può diventare pure reale, anche quando è soltanto disegnata dall’immaginazione. E io ora sento quella musica. La sento davvero. Prima era solo accennata, ora è una sinfonia fortissima e se chiudo gli occhi vedo proprio tutto: gli alberi, le sorgenti, il bosco, le cascate, le ninfe, le montagne, gli animali che giocano a rincorrersi ed è un paesaggio pazzesco. 

Facciamo finta

Facciamo finta di avere una villa col giardino, le querce con l’altalena, il prato inglese sempre perfetto e la casetta sull’albero. Non una casa sull’albero qualunque. Ma di quelle bellissime di legno, col tetto, una scala a chiocciola per raggiungerla, magari anche due ambienti. La casa delle Chipettes. In questo giardino facciamo ci sono anche due amache, un barbecue, una sedia a dondolo sulla quale io fumo la pipa nelle sere di primavera. Naturalmente la pipa non fa male, il fumo non puzza e facciamo pure che nel frattempo sono diventato bravo a riempirne il camino e riesco a non farla spegnere ogni tre minuti. Facciamo che non ci sono più compiti da fare e che io non ti dico più “che palle anche questo weekend hai compiti da fare… possiamo non farli?” e tu non sei costretta a rispondermi “sì, papi. Dobbiamo.” Facciamo che è primavera tutto l’anno, non fa né caldo né freddo, si sta bene ma ogni tanto, quando ci va, fa freddissimo fuori, piove, il rumore della pioggia risuona dentro la stanza e che, a prescindere dal piano in cui siamo, sentiamo il ticchettio del temporale sul tetto sopra la nostra testa, come se fossimo in una mansarda. Le stanze sono piene di petricore fortissimo, come fossimo in un bosco, e improvvisamente ci ficchiamo sotto il piumone invernale per provare quella meravigliosa sensazione di abbraccio delle coperte. Sui nostri comodini appaiono gli hamburger (va bene, per te un hot-dog) e le patatine e la panna cotta al caramello e sulla parete viene proiettato un film ma non abbiamo passato quaranta minuti a sceglierlo, no. Il proiettore si è acceso e ha scelto esattamente il film che volevamo vedere, quello che io per me e tu per te avevamo in cuore di voler vedere.
Facciamo che abbiamo un garage. Io premo il tasto per aprire la saracinesca e dentro c’è una moto. È una Bonneville. È verde petrolio, ha le marmitte cromate ed è lucidissima. E anche se non potrebbe mai essere così, facciamo che abbiamo anche un sidecar che possiamo attaccare e staccare dalla mia Bonneville tutte le volte che vogliamo. Ora lo agganciamo. Ci mettiamo entrambi il casco e gli occhialoni da pilota d’aereo che ci fanno le facce buffe, come giapponesi della seconda guerra mondiale. Come Tozzifan direi io sorridendo ma tu per sorridere dovrai aspettare ancora un po’. Sulla nostra moto col sidecar raggiungiamo una collina. È verde, verdissima. È piena primavera, ci sono i fiori e sembra di stare a Castelluccio di Norcia durante la fioritura della lavanda ma non nella realtà, no. In quelle foto che trovi su google, quelle photoshoppate. In mezzo a questa radura facciamo che c’è una mongolfiera. È ancora a terra ma ha il pallone già gonfio. Io e te ci saliamo sopra e io levo l’ancora che la tiene ferma a terra. Lentamente la mongolfiera sale e noi ci affacciamo per ammirare il paesaggio. Passiamo sopra San Gimignano, sfioriamo il campanile della Collegiata, e poi facciamo lo slalom tra la torre degli Ardinghelli, quella dei Becci, dei Capatelli, dei Chigi e poi tutte le altre in ordine alfabetico. Poi ti aggrappi alla leva del fuoco che nessuno dei due sa come chiamare. Una vampata fa salire improvvisamente il pallone tra le nuvole per poi riabbassarsi lentamente, come planando. Siamo a Machu Picchu, vedi. E non c’è nessuno. Ma nessuno nessuno. Solo io e te e il nostro pallone areostatico. Sorvoliamo la città abbandonata e tu hai la tua Coolpix, io la mia Pen-f e lì, dalla nostra posizione privilegiata, scattiamo delle foto meravigliose, senza intrusi, senza turisti, senza fretta. Tu però hai voglia di andare dai nonni e va bene, ti dico. Così stavolta tiro io la leva. Stesso movimento, su su su, poi giù giù giù. E ora siamo sulla piazza del paese. Io vorrei rimanere lì in alto, continuare a osservare il luogo nel quale sono cresciuto senza esser visto, ma tu vuoi scendere e allora atterriamo sul tetto della casa dei nonni. Ci caliamo dalla grondaia e arriviamo sul balcone. Tua nonna ha già apparecchiato, è ora di pranzo e sulla tavola fumano le lasagne e il camino è acceso e incredibilmente c’è tutta la famiglia. Mangiamo tutto quello che ci va, poi io bevo la sambuca e tu svuoti una vaschetta di gelato con 3 etti di panna montana sopra.  Salutiamo tutti ma senza tristezza. “Ciao nonna, ciao zii, ciao cugine”. Risaliamo per la grondaia, riprendiamo la mongolfiera e finalmente torniamo a casa e stanchi stanchi ce ne andiamo a dormire almeno 12 ore. Non prima però di aver salutato e dato da mangiare a Gagarin, il mio bulldog inglese, e Lilli e Sally, i tuoi due pony che ci aspettano in giardino.

Possiamo fare questo e possiamo fare un milione di altre cose. Tante le faremo, moltissime altre rimarranno solo nei nostri sogni. Intanto però vengo a prenderti a scuola. Tu te ne stai seduta sul tuo seggiolino e guardi trasognante fuori dal finestrino. Ti chiedo, guardandoti nello specchietto retrovisore, a che pensi. Mi rispondi che riflettevi su Miracolo sulla 34esima strada che hai rivisto per la ventesima volta la sera prima. Mi racconti che hai capito una cosa – dici proprio così – che Susan ha tutto il diritto di chiedere un papà e un fratellino ma proprio non riesci a capacitarti di come possa chiedere a Babbo Natale una casa nuova. Lei una casa ce l’ha già. Perché mai desiderare qualcosa che già ha? Non ti pare giusto e, a pensarci bene, non pare giusto nemmeno a me desiderare tutto quello che già ho.

Tutto tu vuoi

Questa bambina non sei tu, ma potresti esserlo. Forse lo sei davvero. Questa bambina si chiama Ah. 
Proprio così, Ah. Come uno sbadiglio, come la prima nota di una risata, come dire “ho capito”. È un nome tra i sogni, la felicità e l’intelligenza. Secondo me è un nome bellissimo, e se fossi stato meno tradizionalista, se avessi avuto meno anni, idee più folli e l’ardire di seguirle, se tua madre non avesse saputo da sempre il tuo nome, adesso anche tu potresti chiamarti così.

Ah è nata in un giorno di pioggia sottilissima, aghi d’acqua tanto fini e innocui che non riuscivano a bagnare nessuno. Quel giorno il sole è sorto alle cinque e quarantasette minuti e tramontato inspiegabilmente due ore più tardi rispetto a quanto riportava l’almanacco. In quelle due ore Ah è rimasta quasi immobile nella sua culla, la sua mamma guardava oltre la finestra aspettando che la luce calasse, il suo papà guardava il suo cuore ormai perso, addormentato nel piccolissimo torace di Ah. Anch’io ho fatto questo nel tuo primo giorno di vita; guardavo te, instancabilmente, e guardavo il mio cuore scindersi come un atomo, diventare tuo, e crescere crescere. Crescere.
Ah non ha un’età precisa. Non è possibile stabilire quanti anni siano trascorsi dalla sua nascita. Fino al suo terzo compleanno ci sono state torte con candeline rosa, poi non più. Poi i pensieri e le parole di Ah hanno cominciato a evolversi in maniera spropositata, non appartenevano più a quelli di una bambina della sua età, non potevano essere contenuti in un numero. Cinque, sei, sette anni, nessuna di queste lancette le apparteneva. Tutto ciò che faceva era così stupefacente da non poter essere misurato, controllato. Il tempo non era più necessario. Lei ragionava con la saggezza di ottanta lune, comprendeva ciò che ai bambini viene celato, per proteggerli, si dice serva a proteggerli. Osservava apparentemente indifferente comportamenti che sarebbe stata presto in grado di ripetere con la precisione di un liutaio. Imparava termini mai usati da nessuno, disegnava mondi sconosciuti, abitati dalle persone a cui voleva bene. Disegnava enormi barche di zucchero e tendoni del circo in fiera nel cortile della sua casa. Al timone suo padre. Sul filo, sospeso tra una nuvola e una stella a trenta punte, suo padre. Marinaio ed equilibrista. E medico, dottore di tutte le malattie curabili con le caramelle. 
Ecco, queste cose possono sembrare sciocche. Ecco, non lo sono. Queste cose sono le stesse che fai tu, e credo le stesse che faccia ogni bambino del mondo, ma tu le fai meglio. Ogni bambino le fa meglio. 
Ogni bambino dal niente genera mondi irrazionali, eppure di quei mondi sa dire, raccontare, spiegare, con una logica convincente al punto da lasciare senza fiato il più illustre rettore universitario. Ogni bambino ha fermato il tempo il giorno in cui è nato. Tutti i bambini hanno rallentato la rotazione terrestre consentendo al sole di splendere più a lungo. È da qui che nasce l’espressione venire alla luce, non si tratta solo della luce fuori dal pancione delle loro mamme, è una luce speciale, un bacio dal cielo alla culla, lungo il tempo che serve a capacitarsi di quanto possa essere eccezionale il miracolo che avviene da sempre, eppure non riesce a perdere neanche una sfumatura d’ombra dello stupore che si trascina dietro a ogni respiro, passo, gesto.

Ti racconto questa cosa. Ah un giorno era a casa, era pomeriggio, sua madre le stava preparando il pane con la confettura di albicocche, le piacciono molto le albicocche. Suo padre non stava bene: solo un po’ di febbre, qualche starnuto. Ad Ah era stato detto di non avvicinarsi a lui, avrebbe potuto ammalarsi. Camminava appena, instabile, i passi strani dei cuccioli, che sollevano troppo le ginocchia e sembrano avanzare come muovendosi nel cerchio di una danza africana. Con quei passi è andata verso la stanza del suo papà, sua madre a rincorrerla per portarla indietro, invece non ce n’è stato bisogno. Ah si è fermata davanti alla porta, l’orecchio teso fino all’istante in cui un colpo di tosse è riuscito a sovrastare il volume basso della televisione, allora si è voltata, “tosse”, ha detto, l’espressione vagamente contrita andava trasformandosi in sollievo. “Tosse solo”, ha pronunciato queste due parole come a stabilire che era tutto a posto, tornando in cucina e sedendosi sullo sgabello, finalmente serena. Non so cosa siano le malattie per i bambini, un pericolo suppongo, intuiscono l’ipotesi degenerativa che si cela dietro quel termine, quella condizione. So che la premura e la dolcezza di Ah, che senza entrare, senza disturbare, si accerta che il suo papà sia malato ma ci sia, che stia bene in fondo, che la sua sia solo tosse, per me è una cosa così grande, dolce, così piena di protezione, interesse, e potrei andare avanti e riempire pagine di aggettivi, ma non lo farò. Dirò solo che per me sei tu, i tuoi baci piccolissimi, infiniti, pronti, come urgentissimi. La tua capacità d’intuire, sapere qual è il momento in cui quei baci mi servono davvero, e mi servono così tanto che non ricordo più di che colore fosse il mare, che sapore avessero le arance prima dei tuoi baci. 

Lascia che ti racconti ancora qualcosa. Ah ogni tanto canta qualche strofa della canzone preferita di suo padre, anche tu lo fai. È normale, va bene, facciamo finta che sia normale, ma non lo è. Ti piacciono canzoni diverse da quelle che ascolto io, eppure di tanto in tanto mi concedi di ascoltare dalla tua voce, che lo sai, è la mia voce preferita in assoluto, la versione live della colonna sonora di un pezzetto della mia vita. Non è normale quello che mi succede, non è normale come mi sento, dura un istante, un momento di comunione tra te, me e chi sono stato prima ancora che tu esistessi. Quell’istante non è normale.
Ah ha i suoi gusti, oltre alle albicocche le piacciono molto il cioccolato e la polenta che fa sua nonna in inverno, che è anche il piatto preferito di suo padre. Tu hai i tuoi gusti, ti piacciono le patatine e il gelato, non ti piace il cocomero. Allora, il cocomero piace a tutti. A tutti. È grande, tondo come un pallone da spiaggia, verde come una zebra se le zebre facessero la fotosintesi, e poi è rosso, dentro è sorprendentemente rosso, questo basta a renderlo fantastico. Poi c’è il fatto che il cocomero non lo trovi dal fruttivendolo tutti i giorni, come le carote, no, devi aspettare l’estate, il caldo, la fine della scuola, allora il cocomero diventa prezioso e spensierato, freschezza dopo tanto sudare. Il cocomero piace a tutti, per forza. Ma a te no. E neanche a me. Capisci? Vogliamo tornare a dire che è normale anche questo? Va bene. È normale. È normale solo se non sei un padre però. Altrimenti è magia, è qualcosa di mio che è cresciuto dentro te, qualcosa che non potevo immaginare fino al giorno in cui hai rifiutato quella fetta rossa e hai fatto la stessa faccia che credo di aver fatto io la prima volta in cui qualcuno mi ha messo davanti un cocomero dicendomi di assaggiarlo. Dicendomi che era buono, troppo buono.

Ah, e questo non è il nome di quella bambina. Ah adesso è il mio sbadiglio, il prologo di ogni volta che sogno di averti con me, è la prima nota della mia risata quando mi rendo conto che non ho bisogno di sognare, tu ci sei. 
È la parte più vera di me che comprende quanto meravigliosa sia la vita. Ah, ho capito. È questo il senso di tutto.
La tua vita, e la mia dentro la tua.

Chiuso dall’interno

Ti piace raccontare storie, inventarle dal niente e sei anche brava. Lo fai senza un reale piano, al contrario di quello che ti ho spiegato quando ti ho detto che raccontare storie è come costruire un mobile o una casa: serve sempre un progetto. In realtà è solo una cosa che ho detto, convincendo poco sia te che me che scrivo a tutt’oggi senza un progetto, semplicemente lanciando le parole sul foglio bianco del computer, così come i pensieri le mischiano e le dita compongono, limitandomi a sistemarle alla fine.
Le tue storie sono molto articolate, piane di incisi e tangenti che spesso si perdono o ci fanno perdere in storie o pezzi di altre storie. È però bello starti ad ascoltare. Vuoi che ti dica ogni tanto di sì, anche solo con la testa, per confermarti che ci sono, sono lì dove tu mi stai portando. Anche questo lo abbiamo in comune. Pure io mi interrompo quando racconto se chi mi sta di fronte non mi dice di tanto in tanto “uhm uhm” o “sì”.

La storia che mi racconti ultimamente è divertente. È cominciata qualche settimana fa mentre tornavamo in macchina dal mare. Mi hai chiesto ancora cosa voglio fare da grande. Io ti ho risposto l’astronauta o il pilota di mongolfiere, non ricordo. Tu mi hai detto allora che avevi il mestiere perfetto per me e che se volevo mi potevi spiegare come fare. Volevo. Hai detto allora che il mestiere del futuro, quello che mi farà guadagnare tanti soldi, è lo scaccoliere (o scaccolista, hai detto proprio così, perché, hai spiegato, si può dire in entrambi i modi). Lo scaccoliere è uno specialista, come un medico, ha un suo studio, al quinto piano di un edificio all’Eur e riceve per appuntamento. “Visita” un certo numero di persone al giorno, gli toglie le caccole dal naso e poi le mette nel computer per analizzarle. Ha il responso solo dopo qualche giorno, perché il computer deve fare calcoli complessi per sapere se le caccole sono buone oppure marce. Quando finalmente si ha il responso, le persone tornano e vengono a ritirare le caccole buone (quelle marce vanno al macero), se le portano via, se la mangiano o ci fanno quello che vogliono.

È una storia disgustosa che fa venire il vomito solo a leggerla o pensarla. Te l’ho detto e tu hai riso tanto soddisfatta della reazione che hai ottenuto. Col tempo hai arricchito questa storia di tanti particolari: le modalità di prenotazione degli appuntamenti, le tecniche di scaccolamento, i profili dei “pazienti”. Ad un certo punto, mi hai persino raccontato l’arredamento dello studio dello scaccolista. E ogni volta io mi sono sentito fiero della tua fantasia e dell’uso che ne fai. Le tangenti che prende e le stanze che riempie di minuzie e particolari che creano uno spazio comodo e leggero riservato a noi due. So che la tua passione per le caccole non è casuale. È una di quelle storture da me indotte che ti ho convinta di avere una venerazione per le caccole a tal punto dal convincerti a mettere da parte quelle più grandi. È una cosa schifosa, lo so. Ma è parte del nostro mondo, fatto di sorrisi, risate, battute buffe, talvolta scomode, qualche volta esagerate. Io ci sto bene e so che pure tu ci stai alla grande. E allora ci stanno bene anche le caccole. Solo questo.

Intanto ci ho riflettuto un po’. Non so se me la sento così dal niente di mollare tutto e avviare una carriera da scaccolista. Non so nemmeno se il mondo sarebbe pronto per una cosa così. Forse mi prendo un altro po’ di tempo per pensarci. Nel frattempo, chissà, trovo il modo per diventare astronauta o pilota di mongolfiera perché se c’è una cosa che mi insegni giorno dopo giorno è che davvero posso diventare tutto ciò che voglio. Posso perché voglio, perché tu ci credi e perché prendi sul serio tutto ciò che dico, anche quando è una cosa aberrante come conservare una caccola per farmela vedere.

La leva calcistica del ‘68

La tua prima e ultima partita allo stadio è stata un disastro anche se tu la ricordi come una specie di picnic divertente, pieno di pizzette, biscotti, wafer, panini e altre mille ragioni che non hanno nulla a che fare col calcio. Gianluca si era rotto un piede a calcetto e il suo posto sarebbe rimasto vacante. Mercoledì però era il mio giorno con te e anch’io avevo deciso di disertare Roma- Atalanta. Silvia però ci ha riflettuto un po’, mostrando una passione per quell’avventura nella quale era stata coinvolta quasi controvoglia a inizio anno ormai superiore a qualunque affezione a due cari amici, e mi ha detto “ma perché non venite insieme?”, sottintendendo io e te. Tanto è bastato perché io ti proponessi questa cosa che somigliava un po’ tanto a Homer che regala a Marge una palla da bowling per il suo compleanno facendole credere sia davvero un pensiero speciale per lei. Tu ci hai riflettuto a tua volta e perplessa mi hai chiesto “e se poi mi annoio?”.  Sapevo però che non ti saresti annoiata, rapita da tutte quelle cose che ti avrebbero portata ad assaporare due ore di calcio senza calcio. Così, subito dopo scuola, la tua serata da tifosa è iniziata al supermercato dove siamo andati a prendere i panini. Eravamo già in ritardo, io sono corso al banco del pane e ti ho lasciata con Silvia all’altezza delle merendine autorizzandoti a comprare un dolcetto. Quando vi ho reincontrate alla cassa avevate preso così tante schifezze che avremmo potuto offrirle a tutta la curva.

A volte accadono cose stupefacenti quando sto con te. Una di queste è stata trovare a primo colpo, quasi senza cercarlo, un parcheggio a 500 metri dall’Olimpico. Da lì, immersi nel mare rosso di sciarpe, magliette e bandiere, ci siamo lasciati trasportare ai nostri posti. Mentre tu ti guardavi attorno curiosa, Silvia se la prendeva con gli steward e i poliziotti che le dicevano “prego signora” facendola passare ai tornelli e ai controlli, convinti fosse tua madre.
In queste occasioni, anche se spesso abbiamo scorte di cibo che potrebbero sfamare la popolazione del Ciad, tu razioni il cibo con scrupolosa osservanza lasciandoti per i momenti più importanti le cose che ti piacciono di più e non cominciando mai a mangiare prima dell’effettivo inizio. Lo fai anche al cinema, per dire. Appena arrivati compriamo il barattolone di popcorn che tu custodisci gelosamente fino all’inizio del film. E spesso, anche dopo che il film è iniziato, mi chiedi “papi ma è iniziato?”, preoccupandoti che quello che stai vedendo non sia l’ennesimo trailer. Sei fatta così. Ti piace fare le cose con ordine. Ogni cosa al momento e al posto giusto. Così hai fatto anche allo stadio. Hai aspettando l’inizio per cominciare ad attaccare le tue riserve di stuzzichini e nel frattempo mi chiedevi delle bandiere, i nomi dei calciatori e mi guardavi stupita mentre cantavo a squarciagola Roma non si discute. Io ti ho messo la mia sciarpa tra le mani e tu, quasi senza pensarci, ti sei ritrovata a mimare modi e gesti di chi ti stava intorno che ormai ti aveva assunta a mascotte.

Abbiamo sofferto tanto. Una partita brutta e lenta. A tratti sfortunata. Chi soffriva più di tutti ero io che mi sentivo schiacciato tra la voglia di esplodere nei miei soliti eccessi di entusiasmo da stadio e il desiderio di non apparirti diverso dal solito. Così a ogni azione sbagliata, a ogni errore arbitrale, a ogni fallo subito, mentre il mondo intorno si lanciava in improperi e urla forsennate, io reprimevo velocemente dentro la frustrazione e rielaboravo nel minor tempo possibile la frase sconcia che avevo sulle labbra rendendola potabile. Così tu e il resto della curva, mi avete sentito urlare cose tipo “ma che cavolo!”, “arbitro stai attento!”, tanti piccoli e innocui mannaggia. 
Quando l’Atalanta ha segnato il primo gol lo stadio si è ammutolito. I giocatori hanno ripreso la palla, ritornando a centrocampo e dopo poco il gioco è ripreso. Tu non ti sei accorta di nulla. E solo dopo 10 minuti mi hai chiesto perché sul maxischermo accanto al nome dell’Atalanta fosse apparso un 1. Tempo qualche secondo e quell’uno è diventato un 2 mentre la cifra accanto al nome della nostra squadra rimaneva invariabilmente zero.
La partita è finita così. Con la gente che andava via schifata, Silvia che tentava di raccontare qualcosa di divertente e io che ti ho fatto salire in piedi sul sedile per farti ammirare lo stadio che lentamente perdeva il rosso e guadagnava in blu.

Vedi mi son chiesto davvero cosa ricorderai di quella giornata. A lungo ci avevo pensato anche prima, dicendomi che avresti conservato i cori, l’esultanza di un gol, l’impressione di far parte di qualcosa di enorme e lontanissimo dalla vita normale. Al di là di tutto, pensavo che portarti allo stadio sarebbe stata una cosa che avresti potuto raccontare oggi, adesso, ma anche tra tanti anni, ricordando la volta che a sette anni accompagnasti tuo padre a vedere la Roma. Di sicuro non immaginavo, mentre pensavo tutto questo, che nella tua mente potesse esserci una qualche forma di identificazione in ciò che è il mio mondo e nel quale ti immaginavo solo spettatrice. Invece il mattino dopo, mentre facevi colazione e io fissavo ossessivamente l’orologio alla parete convincendomi che non ce l’avremmo mai fatta ad arrivare in tempo a scuola, mi hai stupito, facendomi commuovere. Mi hai chiesto “Papi abbiamo perso per colpa mia?”. Ovviamente sono corso a rassicurarti, chiedendoti come potessi pensare una cosa così. Tu mi hai detto “perché non avevo la maglietta, non avevo la sciarpa e non conoscevo i cori”. Io ti ho guardato come si guarda un mago che sta fluttuando nell’aria senza trucco, ti ho stretta forte forte e nel momento esatto in cui realizzavo che avrei dovuto compilare anche per quella mattina il foglio di giustificazione per l’ingresso in ritardo a scuola, ti ho detto che quando sono con te io non perdo mai e la mia squadra, che siamo io e te, gioca e vince ogni anno il campionato, la Champions e la Coppa del Mondo. Tu mi hai sorriso probabilmente capendo solo una piccola parte delle cose che avevo detto e hai aggiunto “tu però avresti voluto dire un sacco di parolacce e non le hai dette”.

Allora ho realizzato che hai capito molto più di quello che cercavo di dire, hai compreso i miei sforzi, il mio desiderio di farti conoscere tutto ciò che amo, di condividere ogni cosa con te, cercando di trovare sempre un compromesso, un modo. 
Ho realizzato che non sono le imprecazioni mascherate male, i ritardi, e nemmeno i cori che non mi sono preoccupato d’insegnarti a poter gettare ombra sulla nostra squadra, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore.
Noi indossiamo una maglietta sempre pulita, e con lei scendiamo in campo ogni giorno. Non siamo spettatori ma campioni. Giochiamo la nostra lunghissima partita, tifiamo l’uno per l’altra senza conoscere esitazione. Affrontiamo il nostro stadio, l’erba falciata da poco, le luci sulle nostre teste, e iniziamo a correre con coraggio e tutta la fantasia di cui siamo capaci, quella che serve a rendere nuova e speciale ogni cosa.
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, e tu lo vedi, mi vedi. Mi dai fiducia. Come un procuratore mi osservi e dentro di te pensi il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette.

Ti voglio bene amore mio. Perché hai solo sette anni e non giudichi il tuo calciatore preferito nemmeno quando sbaglia un rigore a porta vuota.