About a boy

La saletta è piccola e angusta. La tua maestra ha sistemato le sedie degli adulti sul perimetro della stanza, mentre voi bambini siete seduti su seggioline più piccole, adiacenti a quelle dei vostri genitori. Io ho conquistato subito il posto più defilato e mentre mi sedevo, mi sono reso conto che il mio maglione aveva una macchia enorme sul davanti. Nell’indecisione del toglierlo e rimanere quindi in t-shirt, evidentemente fuori stagione, oppure lasciarlo, studiando la posa migliore per non dare nell’occhio, mi guardavo attorno convincendomi che non era stata affatto una buona idea accettare l’invito della lezione aperta di musica per bambini.

La maestra ha acceso l’hi-fi e ci ha fatto ascoltare un paio di volte una musica che deve aver chiamato “danza romena” o qualcosa del genere, invitandoci subito dopo ad esprimere le nostre sensazioni. Io ero ancora completamente concentrato sulla macchia del mio maglione e non ho per questo prestato la minima attenzione alla musica. Al terzo ascolto ho pensato ad un incantatore di serpenti ma quando siamo stati di nuovo interpellati non l’ho detto sentendomi ridicolo. Tu invece hai detto, sussurrando in modo tale che potessi sentirlo solo io, che avevi immaginato delle onde del mare. La maestra ci ha sottoposto almeno altre due o tre volte all’ascolto, invitandoci ogni volta a riflettere su un passaggio, una frase, uno strumento e, a mano a mano, il paesaggio si arricchiva di esperienze che venivano proposte dai restanti genitori e bambini: fiori, vento, fiumi, arcobaleni, tempeste, barche, ruscelli, stagioni e uccelli. Io e te stavamo zitti, tu curiosissima di sapere dove andava a parare la storia che andava via via costruendosi, io impressionato dall’esperienza fricchettona che inconsapevolmente stavo vivendo.

Ad un certo punto siamo stati invitati, tutti, a rappresentare  ballando la musica che fino a quel punto avevamo ascoltato. Tu mi hai proposto di rappresentare il mare. Un mare prima calmo e leggero, sul quale una barca potesse navigare rilassata, poi in tempesta. È ripartita la traccia e, mimetizzati tra gli altri, abbiamo cominciato a “ballare”. Per fortuna la sala era piccola ed eravamo un po’ ammassati. Io ho guardato quello che facevi tu e mi sono limitato a venirti dietro, simulando con un velo le onde del mare e, di tanto in tanto, sventolandotelo in faccia per strapparti un sorriso. Tu eri invece concentratissima a mimare col tuo corpo e il tuo velo dei movimenti sinuosi delle onde del mare, prima lenti, cauti, poi, assecondando la musica, impetuosi e violenti. 

Al termine di questa fase, la tua maestra ci ha fatto sedere e ha chiesto se c’era qualcuno che si proponeva come volontario per rappresentare pubblicamente, in mezzo alla sala, la propria coreografia. Io ho guardato d’istinto l’orologio appeso alla parete, scoprendo che era passata solo un’ora e ne mancavano ancora due, sprofondando sulla mia sedia convintissimo che nemmeno con una pistola puntata alla schiena avrei alzato la mano. Non immaginerai quindi la mia sorpresa quando, con lo sguardo incastrato sul cortile fuori dalla finestra, ho riconosciuto la tua voce che urlava “Noi! Noi!”. Per fortuna, qualcun altro era riuscito a conquistare l’attenzione della maestra prima di te e mentre questi si preparavano per mettere in scena la loro esibizione, io ti ho guardato e avrei voluto dirti “ma sei pazza!?”, ma ho solo sorriso mentre tu mi dicevi “dopo tocca a noi, papà!”. Il mio cuore ha cominciato a battere movimenti strani e quella che stavo vivendo ha cominciato a somigliare all’attesa che si prova davanti ad un rigore decisivo assegnato alla propria squadra. Solo che stavolta davanti al dischetto c’ero io, anzi noi due.

Quelli al centro della sala hanno cominciato la loro performance accucciati a terra abbracciati, a formare una specie di scoglio in mezzo all’oceano. Poi con l’evolversi della musica lo scoglio è diventato una specie di fiore che si è aperto, con il figlio che sembrava un moscone che girava tutto attorno ai due giganteschi massi dei genitori che sventolando i loro veli e a me sembravano degli invasati percorsi dal tremore premorte.

La musica è inesorabilmente finita e mentre le mie orecchie non ascoltavano più e i miei occhi non sapevano più dove posarsi, mi hai preso per un braccio e trascinato al centro della sala. La musica è partita e tu che interpretavi il mare calmo hai cominciato a ballare la tua danza mentre il tuo velo disegnava delle onde leggere leggere. Io stavo davanti a te, Dave Grohl stava usando le mie tempie come rullanti e il mio corpo non sapeva che posa assumere. Il peggio però doveva ancora venire perché quando la musica ha accelerato di ritmo è venuto il momento della mia parte. Dimenticando tutte le cose che ci eravamo detti, mi sono sentito improvvisamente Marcus che canta a cappella e col tamburello Killing me softly davanti alla platea di tutta la scuola, mentre tu sei diventata Will che mi guarda sicuro e mi salva con le note della sua chitarra elettrica e ho cominciato a sventolare il mio velo impetuosamente sulla tua faccia, mimando un mare in tempesta. 

La musica è finita e i nostri spettatori ci hanno regalato un applauso scrosciante mentre io e te tornavano ai nostri posti e una mamma mi diceva portandosi una mano al petto “commoventissimo” e alzando subito dopo tutti e due i pollici in segno di approvazione. 

Sono sprofondato sulla sedia, promettendo a me stesso che non mi sarei rialzato se non per tornarmene a casa, ammesso che le mie gambe si fossero decise a collaborare. Tu mi hai guardato e mi hai chiesto “siamo stati bravi?”, io ti ho sorriso e sussurrato “bravissimi!”, realizzando chiaramente e solo in quel momento che i miei difetti macroscopici non sono i tuoi, per fortuna, che, anche se mi capita continuamente di pensare che hai il mio naso, le mie guance, i miei occhi, la mia fronte e spesso anche il mio carattere, tu non sei il mio clone ma un essere speciale, unico e inimitabile, e che,  a dire la verità, spesso ho l’impressione di non avere nulla da insegnarti ma solo da imparare.